Ha scritto Maurizio Viroli nella
Sua premessa al volume “La libertà dei
servi” – Laterza (2010) pagg. 139, € 15 -: (…). Ritengo (…) che l’Italia sia
un paese libero, nel senso che c’è sì la libertà, ma quella dei servi, non
quella dei cittadini. La libertà dei servi o dei sudditi consiste nel non
essere ostacolati nel perseguimento dei nostri fini. La libertà del cittadino
consiste invece nel non essere sottoposti al potere arbitrario o enorme di un
uomo o di alcuni uomini. Poiché in Italia si è affermato un potere enorme,
siamo – per il solo fatto che tale potere esiste – nella condizione dei servi.
(…).
Quanti, nelle ridenti, ubertose contrade del bel paese, hanno riconosciuto in passato, riconoscono oggigiorno, o avvertono solamente, lo stato di sudditanza così come ne scriveva (nel 2010) il professor Viroli? Oso aggiungere, alla Sua dotta riflessione sulla libertà dei “servi o dei sudditi”, che essa si sostanzia pure nella concessione, ai “servi” ed ai “sudditi”, di una maggiore libertà d’agire, ovvero di aggirare e/o raggirare le norme e le regole. È uno stato – ed una pratica diffusa -, di grave pericolo per la democrazia, poiché da essi ne deriva la compromissione o addirittura la perdita della pace sociale, pace sociale alla quale una effettiva e compiuta democrazia, per sua natura, tende. Allorquando in un qualsivoglia paese il o i reggitori temporanei della cosa pubblica instilla/no il veleno sottile e penetrante della contrapposizione a tutto campo, lo scontro per lo scontro, il passo è breve; da quello che in una moderna e sana democrazia è il sano scontro politico, fatto di contrapposizioni di idee e di progetti, si passa ineluttabilmente allo scontro feroce e senza senso che prima o poi potrebbe essere anche scontro fisico. Scriveva (il 13 di settembre dell’anno 2010) Gustavo Zagrebelsky che “la democrazia (…) presuppone amicizia tra governanti e governati”. Ecco la posta in gioco. Non può esserci democrazia vera e compiuta se non esiste l’”amicizia” tra chi governa ed i governati tutti, e dico tutti indistintamente i governati. “Amicizia” quindi anche per coloro che hanno votato liberamente e diversamente. Nel bel paese oggigiorno questa “amicizia” sembra vacillare. Ho tratto il pensiero prima riportato di Gustavo Zagrebelsky da un Suo intervento, che di seguito in parte trascrivo, che ha per titolo "Lezione sulla democrazia", intervento che l’insigne Autore aveva tenuto a Torino nel corso di una festa del Partito Democratico: (…). Forse non abbiamo mai pensato che tra tutti i regimi politici, la democrazia è l'unico che presuppone amicizia tra governanti e governati. I regimi autocratici o oligarchici, comportano separazione che, nel caso migliore, si traduce in indifferenza, in quello peggiore, in inimicizia e avversione. Solo la democrazia vive e si alimenta di un circuito di reciproca fiducia che può esistere solo a condizione che i governanti non si costituiscano in classe separata, solo a condizione che i cittadini comuni non li vedano come cosa diversa da sé. Che significa classe separata? Innanzitutto che, una volta entrati in uno dei luoghi della politica, si sia acquisito il diritto di non uscirne mai più, fino a quando provveda la natura. I ceti o le caste delle società pre-moderne erano stratificazioni sociali alle quali si apparteneva dalla nascita alla morte. Oggi, al ceto politico di regola non si appartiene per diritto di nascita, anche se non manca, anzi si moltiplicano i casi di nepotismo, di familismo e di trasmissione ereditaria delle cariche politiche. In politica oggi, di norma, si entra, o, come si dice autorevolmente, si scende (…), ma, una volta entrati non se ne vuole più uscire. Se proprio occorre lasciare un posto, ce n'è sempre un altro cui aspirare e che ci attende. Oggi quello che importa è entrare in un giro di potere. A che giro appartiene? ci chiediamo, vedendo qualcuno che gira, per l'appunto, da un posto all'altro. Quando entri in un giro, non ne esci più, a meno che tu abbia tradito le aspettative di chi ti ci ha messo. (…). Viene in mente la frase dell'abate Siéyès con la quale inizia il celebre libello “Che cos'è il terzo stato”, un testo che contribuì a creare autocoscienza in chi allora – la Francia pre-rivoluzionaria – chiedeva riforme: - Che cos'è il terzo stato? Tutto. Che cos'è stato finora nell'ordinamento politico? Niente. Che cosa domanda? Diventare qualcosa -. Noi potremmo tradurre: - Che cos'è la società civile? Molto. Che cosa è nell'ordine politico? Quasi nulla. Che cosa occorre che diventi? Qualcosa -. (…). Ma questa non è democrazia. È, se si vuole, democratura, secondo la felice e, al tempo stesso orrenda, espressione dell'esule bosniaco Predrag Matvejevic. (…). Ora, la domanda da porre è se ci può essere democrazia come forma in una società non democratica. La risposta è sì. Ci può essere. Ma che genere di democrazia? La democrazia come tecnica di governo, innestata su una realtà sociale non democratica, non fa che amplificarne e moltiplicarne i caratteri non democratici o antidemocratici, rappresentandoli, generalizzandoli e, per così dire, rendendoli obbligatori per tutti. Per esempio, noi non diremmo certo che una società a maggioranza razzista e xenofoba è democratica. Questa società può senz'altro governarsi in forme democratiche, cioè la maggioranza può imporre per legge la sua visione del mondo razzista e xenofoba. Questo ci dice che la democrazia, intesa solo come forma di reggimento politico, non è affatto più tranquillizzante di altre. Sotto certi aspetti, anzi, fa più paura, perché ha dalla sua la forza del numero. Questo spiega il fatto che la democrazia può essere, o diventare, odiosa al pari e forse più di altre forme politiche. Ciò accade quando alla forma (democratica) del potere corrisponde una sostanza non democratica della società. Ma che cosa è una società non democratica? In breve: una società in cui esistono discriminazioni e disuguaglianze, tali che una parte, per così dire, viva bene sopra un'altra che vive male e questa differenza alimenta odio e violenza. Usciamo dal generico: è una società dove qualcuno possa dire: - questa è casa mia - e tu sei un intruso ch'io posso escludere e respingere a mio piacimento; dove, se non ti integri, cioè non ti rendi irriconoscibile nella tua identità, non hai diritto di cittadinanza; dove la povertà e il disagio sociale sono abbandonati a se stessi, nella solitudine; dove il lavoro non è considerato un diritto, ma solo un fattore dell'impresa subordinato alla sua logica e dove i disoccupati e i precari sono solo un accidente fastidioso di un sistema e non un problema per tutti; dove l'istruzione e la cultura sono riservati ai figli di coloro che possono; dove la salute è il privilegio di chi può permettersi d'affrontare le spese che la sua cura comporta. (…). La povertà, l'insicurezza e la solitudine aumentano, anche se spesso hanno vergogna di mostrarsi, come bene sanno coloro che operano nei servizi sociali, pubblici e privati. Il divario tra chi può curare la propria formazione culturale e chi non può aumenta, e spesso si manifesta in questa forma odiosa e umiliante per il nostro Paese: chi può manda i suoi figli fuori dell'Italia. La disuguaglianza giunge a segnare i corpi, divide quelli bene curati e quelli degradati: addirittura lo stato dei denti è diventato, anzi ri-diventato qual era un tempo, segno di condizione sociale. (…). È all'opera l'incultura della sopraffazione che è l'esatto opposto dell'ethos necessario alla democrazia. (…).
Quanti, nelle ridenti, ubertose contrade del bel paese, hanno riconosciuto in passato, riconoscono oggigiorno, o avvertono solamente, lo stato di sudditanza così come ne scriveva (nel 2010) il professor Viroli? Oso aggiungere, alla Sua dotta riflessione sulla libertà dei “servi o dei sudditi”, che essa si sostanzia pure nella concessione, ai “servi” ed ai “sudditi”, di una maggiore libertà d’agire, ovvero di aggirare e/o raggirare le norme e le regole. È uno stato – ed una pratica diffusa -, di grave pericolo per la democrazia, poiché da essi ne deriva la compromissione o addirittura la perdita della pace sociale, pace sociale alla quale una effettiva e compiuta democrazia, per sua natura, tende. Allorquando in un qualsivoglia paese il o i reggitori temporanei della cosa pubblica instilla/no il veleno sottile e penetrante della contrapposizione a tutto campo, lo scontro per lo scontro, il passo è breve; da quello che in una moderna e sana democrazia è il sano scontro politico, fatto di contrapposizioni di idee e di progetti, si passa ineluttabilmente allo scontro feroce e senza senso che prima o poi potrebbe essere anche scontro fisico. Scriveva (il 13 di settembre dell’anno 2010) Gustavo Zagrebelsky che “la democrazia (…) presuppone amicizia tra governanti e governati”. Ecco la posta in gioco. Non può esserci democrazia vera e compiuta se non esiste l’”amicizia” tra chi governa ed i governati tutti, e dico tutti indistintamente i governati. “Amicizia” quindi anche per coloro che hanno votato liberamente e diversamente. Nel bel paese oggigiorno questa “amicizia” sembra vacillare. Ho tratto il pensiero prima riportato di Gustavo Zagrebelsky da un Suo intervento, che di seguito in parte trascrivo, che ha per titolo "Lezione sulla democrazia", intervento che l’insigne Autore aveva tenuto a Torino nel corso di una festa del Partito Democratico: (…). Forse non abbiamo mai pensato che tra tutti i regimi politici, la democrazia è l'unico che presuppone amicizia tra governanti e governati. I regimi autocratici o oligarchici, comportano separazione che, nel caso migliore, si traduce in indifferenza, in quello peggiore, in inimicizia e avversione. Solo la democrazia vive e si alimenta di un circuito di reciproca fiducia che può esistere solo a condizione che i governanti non si costituiscano in classe separata, solo a condizione che i cittadini comuni non li vedano come cosa diversa da sé. Che significa classe separata? Innanzitutto che, una volta entrati in uno dei luoghi della politica, si sia acquisito il diritto di non uscirne mai più, fino a quando provveda la natura. I ceti o le caste delle società pre-moderne erano stratificazioni sociali alle quali si apparteneva dalla nascita alla morte. Oggi, al ceto politico di regola non si appartiene per diritto di nascita, anche se non manca, anzi si moltiplicano i casi di nepotismo, di familismo e di trasmissione ereditaria delle cariche politiche. In politica oggi, di norma, si entra, o, come si dice autorevolmente, si scende (…), ma, una volta entrati non se ne vuole più uscire. Se proprio occorre lasciare un posto, ce n'è sempre un altro cui aspirare e che ci attende. Oggi quello che importa è entrare in un giro di potere. A che giro appartiene? ci chiediamo, vedendo qualcuno che gira, per l'appunto, da un posto all'altro. Quando entri in un giro, non ne esci più, a meno che tu abbia tradito le aspettative di chi ti ci ha messo. (…). Viene in mente la frase dell'abate Siéyès con la quale inizia il celebre libello “Che cos'è il terzo stato”, un testo che contribuì a creare autocoscienza in chi allora – la Francia pre-rivoluzionaria – chiedeva riforme: - Che cos'è il terzo stato? Tutto. Che cos'è stato finora nell'ordinamento politico? Niente. Che cosa domanda? Diventare qualcosa -. Noi potremmo tradurre: - Che cos'è la società civile? Molto. Che cosa è nell'ordine politico? Quasi nulla. Che cosa occorre che diventi? Qualcosa -. (…). Ma questa non è democrazia. È, se si vuole, democratura, secondo la felice e, al tempo stesso orrenda, espressione dell'esule bosniaco Predrag Matvejevic. (…). Ora, la domanda da porre è se ci può essere democrazia come forma in una società non democratica. La risposta è sì. Ci può essere. Ma che genere di democrazia? La democrazia come tecnica di governo, innestata su una realtà sociale non democratica, non fa che amplificarne e moltiplicarne i caratteri non democratici o antidemocratici, rappresentandoli, generalizzandoli e, per così dire, rendendoli obbligatori per tutti. Per esempio, noi non diremmo certo che una società a maggioranza razzista e xenofoba è democratica. Questa società può senz'altro governarsi in forme democratiche, cioè la maggioranza può imporre per legge la sua visione del mondo razzista e xenofoba. Questo ci dice che la democrazia, intesa solo come forma di reggimento politico, non è affatto più tranquillizzante di altre. Sotto certi aspetti, anzi, fa più paura, perché ha dalla sua la forza del numero. Questo spiega il fatto che la democrazia può essere, o diventare, odiosa al pari e forse più di altre forme politiche. Ciò accade quando alla forma (democratica) del potere corrisponde una sostanza non democratica della società. Ma che cosa è una società non democratica? In breve: una società in cui esistono discriminazioni e disuguaglianze, tali che una parte, per così dire, viva bene sopra un'altra che vive male e questa differenza alimenta odio e violenza. Usciamo dal generico: è una società dove qualcuno possa dire: - questa è casa mia - e tu sei un intruso ch'io posso escludere e respingere a mio piacimento; dove, se non ti integri, cioè non ti rendi irriconoscibile nella tua identità, non hai diritto di cittadinanza; dove la povertà e il disagio sociale sono abbandonati a se stessi, nella solitudine; dove il lavoro non è considerato un diritto, ma solo un fattore dell'impresa subordinato alla sua logica e dove i disoccupati e i precari sono solo un accidente fastidioso di un sistema e non un problema per tutti; dove l'istruzione e la cultura sono riservati ai figli di coloro che possono; dove la salute è il privilegio di chi può permettersi d'affrontare le spese che la sua cura comporta. (…). La povertà, l'insicurezza e la solitudine aumentano, anche se spesso hanno vergogna di mostrarsi, come bene sanno coloro che operano nei servizi sociali, pubblici e privati. Il divario tra chi può curare la propria formazione culturale e chi non può aumenta, e spesso si manifesta in questa forma odiosa e umiliante per il nostro Paese: chi può manda i suoi figli fuori dell'Italia. La disuguaglianza giunge a segnare i corpi, divide quelli bene curati e quelli degradati: addirittura lo stato dei denti è diventato, anzi ri-diventato qual era un tempo, segno di condizione sociale. (…). È all'opera l'incultura della sopraffazione che è l'esatto opposto dell'ethos necessario alla democrazia. (…).
In evidenza i guadi nelle quali si ompanano spesso gli uomini che confondono il potere conferito da un voto popolare con la consacrazione ad un potere individuale riservato per i sostenitori diretti del lider.
RispondiEliminala piaga della nostra democrazia.