Da “I giorni
della resa (e del riflusso)” di Franco Cordero, pubblicato sul quotidiano
la Repubblica dell’11 di settembre dell’anno 2014: 8 settembre è anniversario
crudele negli annali d'Italia. L'estate calda non finiva mai. Dopo vent'anni, otto
mesi, 25 giorni, nella notte del 25 1uglio 1943, domenica, l'era delle false
aquile svanisce come l'ombra d'una lanterna magica: le cronache annoverano un
solo suicida; spariscono insegne e divise. Mussolini in asilo segreto. Governa
l'Italia diroccata Badoglio, famoso sornione. Truppe in servizio d'ordine
pubblico sparano sui manifestanti antifascisti. Nella cuneese piazza Torino
muore un bambino. Tra i pochi superstiti portava a casa una pleurite, ferita e
medaglia d'argento, disgusto delle retrovie corrotte, tanto acuto da farsi
rispedire in prima linea sul Don. Poi l'inferno bianco, nella steppa dal 30
gennaio al 10 febbraio. Ancora sofferente, cova pensieri tristi. Ha sbattuto la
porta, uscendo dalla Casa del Fascio dove un funzionario elefantiaco
raccomandava versioni eufemistiche, ma la conversione resta imperfetta: lunedì
26 luglio ascolta perplesso l'avvocato Galimberti che dal balcone chiede guerra
contro Hitler; nella baraonda conta i trasformisti; «è fascista», grida un
omuncolo rissoso, sfollato da Genova. Dall'autunno 1942 prestava servizio nel
II Alpini un sottotenente senior, classe 1914, antifascista organico: Leonardo
Dunchi, scultore, viene dalle Alpi Apuane, anarchico, incline all'azione contro
il mondo perverso; compatisce i sofferenti. Le sue Memorie partigiane filano
discorso scabro e vivo, dialoghi, descrizioni d'una natura poeticamente
percepita. Lunedì 6 settembre, nell'«ombra azzurrognola dello studio», tra
codici voluminosi e «generali dipinti», riceve direttive da Galimberti, col
quale aveva intese: manca poco all'armistizio; consta da fonte sicura; sarà
guerra per bande dalle valli; se ne formeranno a Madonna del Colletto e in Val
Grana; il suo posto è sulla Bisalta. Mercoledì 6 guardava le rondini verso sera
quando suona la ritirata: Badoglio parla alla radio stando nel vago; in caserma
colonnelli non pensanti dicono d'aspettare ordini. Nella notte sferragliano
autocarri. Era il preludio d'un riflusso caotico. La IV Armata irrompe dalla
Francia disseminando vetture, cavalli, muli, armi, farina, formaggio in ruote,
roba variopinta: basta chinarsi e raccogliere, materia da grassa borsa nera;
fioriscono mercati mai visti. I fuggitivi cercano abiti borghesi. Comandava il
II Alpini un colonnello maniaco dei fiori. Li visita ogni mattina, salutato dal
picchetto con tromba.
Giovedì 9 settembre carica i gerani sui camion e manda a
casa i piemontesi:lascino armi, divise, bagagli; i toscani saranno inquadrati,
Dio sa come, ossia vadano dove vogliono; «arrivederci presto» e scompare.
Dunchi lancia parole d'ordine estreme: disfarsi dei gaglioffi cominciando dal
floricultore; stanare i fascisti; combattere i tedeschi. Revelli ascoltava,
spalle al muro, gambe incrociate, una mano sotto l'ascella: chiede la parola;
e, sempre immobile, gli da del matto pericoloso. Il diverbio finisce lì. Lo
scultore porta alpini toscani sulla montagna a due punte. L'antagonista rimette
piede nella caserma vuota sabato 11, a seppellire i residui della frode
fascista, ma vuole ancora credere nell'esercito, entità metafisica,quindi in
due vanno alla porta d'un ferreo tenente colonnello, molto ammirato: non
rispondeva; compare nel pigiama a righe; sbarra il passo; guarda storto. Lo
implorano: venga; al suo comando gli uomini combatteranno. Fuori dei piedi,
pidocchi. Piangono. Ogni illusione cade martedì 28 settembre. Con 15 ufficiali
da maggiore in su, inflessibile guerriero s'è presentato al sanguinario
Sturmbannführer Joachim Peiper, le cui SS hanno incendiato Boves massacrando
gli abitanti. Corrono complimenti: bravi, veri soldati; tornino con una
valigetta d'indumenti; e li spedisce in Germania a fare numero nei 750 mila
internati (carniere badogliesco: quel vuoto d'ordini era calcolato; nessuno
doveva muoversi disturbando gli occupanti). Revelli va in montagna. Dunchi
compie memorabili avventure. Vede spesso Ignazio Vian e conversano: aveva dubbi
sulla violenza omicida, anche quando i fini siano giusti (parlavano d'un ex
pugile seviziatore dei prigionieri antifascisti); l'altro glieli confuta. «Piombo
con piombo», refrain d'un canto anarchico. Strenuo combattente, cattolico, monarchico,
Vian passa in Val Corsaglia e nelle Langhe, finché lo prendono, 19aprile 1944:
ha la sorte segnata; è macabra variante impiccarlo tre mesi dopo (Torino, 22
luglio). Duccio Galimberti comandava l’apparato militare piemontese Giustizia e
Libertà. L'ammazzano sgherri neri domenica 3 dicembre 1944. Gli succede Livio
Bianco e post beìlum figura tra i consultori, disquisenti a Montecitorio in
vista d'eventi elettorali: il seggio alla Costituente costa 40 mila voti; lui
ne conta 12 mila. Miete la De, irresistibilmente sostenuta dalle parrocchie.
Era un sogno spegnere l'anima reazionaria incarnata nel ventennio nero. Il
fascismo è forma transitoria d'una costante italiana. Chiusa l'esperienza
politica attiva, lo sconfitto dalle urne torna al mestiere colto, finissimo
giuscivilista. Aveva la montagna nel destino. Domenica 12 luglio 1953, con i due
soliti compagni d'escursione, saliva al Saint-Robert, nello scenario visibile
da piazza Galimberti. Scalata come incarnata nel da ma è nel codice della
causalità universale che un appiglio ventennio nero ceda, e vola giù. La Camera
appena insediata, seconda legislatura repubblicana. Lo 6 commemora Antonio
Giolitti, transitoria eretico nel plumbeo Pci, dal quale uscirà dopo l'orribile
repressione ungherese, applaudita dagli ortodossi: condividono compianto e lodi
tre parlamentari, socialista, socialdemocratico, liberale; resta muto lo scudo
crociato. Deambulano Madonne pellegrine. Prendono piede neofascisti
governativi. Al diavolo i rigoristi giacobini, siamo nell'Italia restaurata.
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