“Odiare i mascalzoni è cosa nobile” osava dire quel tale a nome di Marco Fabio
Quintiliano. Marco Fabio Quintiliano
chi? Boh! In verità Marcus Fabius Quintilianus, bontà sua, fu un facondo
oratore ed un valente maestro di retorica. Nacque in quel di Calagurris Iulia
Nasica nella Spagna Tarraconensis nell’anno del signore 35, cioè da quando si è
cominciato a contare lo scorrere degli anni. Trasferitosi a Roma nell’anno del
signore 68 dopo la nascita dell’uomo di Nazareth, vi esercitò l'avvocatura e
soprattutto incominciò la sua attività di maestro di retorica, con tanto
successo che nell’anno 78 Vespasiano gli affidò quella che può ben dirsi la
prima cattedra statale d’insegnamento. Per gratificarlo ulteriormente
l'imperatore gli accordò un onorario annuo di 100.000 sesterzi, dando così un
segnale concreto sull'importanza dell'arte della retorica nella formazione del
"ceto dirigente" in vista della creazione del consenso. Ecco il
punto. Il consenso. Il consenso dei reggitori della cosa pubblica. Marcus Fabius
Quintilianus non fu persona da poco. Beato lui che visse in altra epoca. Fosse
vissuto al tempo del signor B. venuto da Arcore o al tempo del signor R. M., ovvero,
quest’ultimo, l’uomo venuto da Rignano sull’Arno, a seguito di quella sua
imprudente dichiarazione si sarebbe ritrovato iscritto d’ufficio nel partito
dell’odio, con tutto ciò che ne sarebbe conseguito per la sua carriera e per il
suo benessere psichico e materiale. Visse invece nella agiatezza dei tempi e
trapassò nell’anno del signore 96. In tempo per non soffrire gli affanni dei
giorni nostri! Probabilmente anche a quel tempo si soleva discorrere del
binomio “amore/odio”. Anche a quel tempo, con condizioni materiali e sociali
ben diverse però, lo scontro si sarà consumato, forse molto cruentemente, nella
contrapposizione di quel binomio all’altro binomio “consenso/dissenso” che
qualifica molto meglio l’arte suprema degli uomini, arte che li rende per
l’appunto diversi dal resto del creato animale, che è l’arte della politica.
Sol che a fare la politica non sia l’imbonitore di turno. Trascrivo di seguito,
solo in parte, una interessante riflessione a firma di Adriano Sofri pubblicata
sul quotidiano “la Repubblica” del 25 di marzo dell’anno 2010 col titolo “Amore e odio. Gli slogan sentimentali e il
grado zero della politica”:
(…). L´amore iscritto sullo striscione
d´apertura e sul madornale fondale di palco (…) è (…) l´espediente spiritista
per evocare il partito dell´odio. Succede, con i giochi di parole. Come
proclamarsi partito della vita, così da iscrivere gli altri al partito della
morte. Si allunga ogni giorno il dizionario delle parole che si vogliono rendere
impronunciabili. «Un fastidioso stridore si fece sentire con uno scoppio dal
grande teleschermo in fondo alla sala. Era un rumore che faceva drizzare i
capelli in capo. I due minuti di Odio erano cominciati». Scriveva nel 1948,
Orwell, e collocava il suo Grande Fratello nel 1984. (…). L´amore con la bava
alla bocca, l´amore che strappa i capelli altrui. Annettere alla propria parte
addirittura la parola: amore - sarà troppo, almeno questo? «L´amore vince...»:
si può dire? Certo, vince tutto, Omnia vincit amor. Ma dipende dal contesto.
Per esempio, il contesto della scritta cubitale: VINCERE! (…). L´amore vince
tutto. Anche il cancro? No, il cancro no. Il cancro, le sue numerose varietà,
le debellerà forse via via la ricerca e la sperimentazione, un giorno. Intanto
se ne soffre e se ne muore ancora, mentre l´imbonitore promette di venirne a
capo in un triennio, dall´Atlantico al Pacifico. Di che amore è capace
l´imbonitore? Non dell´amore per il mondo, di cui è fatta la vera politica, il
mondo delle cose e dei viventi: se lo amasse, gli andrebbe in soccorso, invece
di guastarlo e festeggiare coi suoi despoti. Dell´amore di sé - altra cosa
dall´amor proprio - dell´amor di sé è capacissimo, l´amore che millanta milioni
di alberi e ripianta capelli, e dunque, per spiegarsi la pena che fa altrui, la
chiama invidia. Non sa immaginare che non lo si invidi, soldi, maquillage,
scorta, escort. Ci resterebbe male se capisse che i soli a invidiarlo sono
quelli che lo amano - per il momento, un momento dopo lo appenderebbero per i
piedi, pronti a spiegarsi: «Vostro Onore, è stato un raptus». Un raptus il
trionfo, un raptus la caduta: caricatura dell´amore e dell´odio. Non sono
sentimenti politici? Vi sbagliate, certo che lo sono. Come in quel capitolo del
Principe: «S´elli è meglio esser amato che temuto, o più tosto temuto che
amato... si vorrebbe essere l´uno e l´altro; ma perché elli è difficile
accozzarli insieme, è molto più sicuro essere temuto che amato... Debbe,
nondimanco, el principe farsi temere in modo, che, se non acquista lo amore,
che fugga l´odio; perché può molto bene stare insieme esser temuto e non
odiato; il che farà sempre, quando si astenga dalla roba de´ sua cittadini e
de´ sua sudditi, e dalle donne loro». Direte che la geniale riflessione di
Machiavelli ha al centro la figura di un capo, e riferisce a lui amore e timore
e odio. Ma è esattamente quello che fa Berlusconi, il cui universo bipolare
divide quelli che lo amano (lui crede d´esser votato perché amato, non per
governare più o meno seriamente) da quelli che lo odiano (e perciò,
disgraziati, non lo votano): che amano lui, e che odiano lui. Come
nell´orwelliano Ministero dell´amore, il più spaventoso. (…). Basta uscire da
questa farsa per riconoscere che l´amore è un´ispirazione decisiva della responsabilità
politica, cristiana e non - come in Gandhi. E che l´odio è una malattia, non
debellabile in tre e nemmeno in trecento anni, ma una malattia. Ho trovato
questa definizione di Chiara Lubich, (…): «Il compito dell´amore politico è
quello di creare e custodire le condizioni che permettono a tutti gli altri
amori di fiorire... La politica è perciò l´amore degli amori, che raccoglie
nell´unità di un disegno comune la ricchezza delle persone e dei gruppi...».
(…).
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