Da "Incompe
tanti” di Raffaele Simone, pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 24
di settembre 2017: (…). …le elezioni si avvicinano e gli aspiranti riscaldano i muscoli.
Tra i più tenaci candidati a capo del governo ce n’è uno giovanissimo (31 anni
appena compiuti), facondo, con cipiglio, determinato e ubiquo, ma non
ugualmente solido in quel che un tempo si chiamava “bagaglio culturale”. Dalla
sua bocca escono senza freno riferimenti storici e geografici sballati,
congiuntivi strampalati, marchiani errori di fatto, slogan e progetti
cervellotici (recentissimi l’Italia come smart nation e la citazione
dell’inefficiente governo Rajoy come suo modello), anche quando si muove in
quella che dovrebb’essere la sua specialità, cioè quel mix indistinto di
nozioni e fatterelli politico-storico-economici che forma la cultura del
politico di fila. Inoltre, Luigi Di Maio (è di lui che parlo) non è laureato.
Si è avvicinato al fatale diploma, ma per qualche motivo non lo ha raggiunto.
Nulla di male, intendiamoci: pare che in quel mondo la laurea non sia più
necessaria, neanche per le cariche importanti. Nel governo Gentiloni più di un
ministero è presidiato da non laureati e non laureate: istruzione e salute,
lavoro e giustizia. Se questa non è forse la “prevalenza del cretino”
preconizzata da Fruttero e Lucentini, è di certo la prevalenza dell’ignorante. Infatti
la legislatura attuale ha una percentuale di laureati tra le più basse della
storia: di poco sopra il 68 per cento, un dato che mette tristezza a confronto
col 91 per cento del primo Parlamento repubblicano… (…). I laureati sono pochi,
non solo nel ceto politico ma nel paese, in calo perfino rispetto a quelli del
2000, ultimo anno prima della riforma. L’età media del laureato italiano è
superiore ai 27 anni e la laurea triennale non serve (salvo che per gli
infermieri) a nulla. I giovani che concludono il ciclo di 5 anni (il “3 + 2”)
sono addirittura meno del totale di quelli che vent’anni fa si laureavano coi
vecchi ordinamenti (durata degli studi 4, 5 o 6 anni). Per giunta, per
completare la laurea triennale ci vogliono 4,9 anni, per quella quinquennale
più di 7,4! (…). Le cause? Certamente non sono quelle che ha suggerito, nel suo
intervento a Cernobbio agli inizi di settembre, la non laureata ministra
dell’Istruzione Valeria Fedeli: la colpa dei pochi laureati, ha suggerito (lei
ex sindacalista!), è delle «famiglie a basso reddito», che non trovano più
buoni motivi per spingere i figli a laurearsi. Non ha pensato, non avendolo
frequentato, che invece è tutto il sistema universitario che andrebbe, come le
case abusive, abbattuto e riprogettato. Quindi, se il paese è conciato così,
come possiamo pretendere che il personale politico sia meglio? Ma non è finita.
Un altro guaio, più serio, sta nel fatto che il ceto politico attuale, e ancor
più (si suppone) quello che gli subentrerà al prossimo turno, ha un record
unico nella storia d’Italia, di quelli che fanno venire i brividi: i suoi
componenti, avendo un’età media di 45,8 anni (nati dunque attorno al 1970),
sono il primo campione in grandezza naturale di una fase speciale della nostra
scuola, che solo ora comincia a mostrare davvero di cosa è capace. Perché dico
che la scuola che hanno frequentato è speciale? Perché è quella in cui, per la
prima volta, hanno convissuto due generazioni di persone preparate male o per
niente: da una parte, gli insegnanti nati attorno al 1950, formati nella
scassatissima scuola post-1968; dall’altra, quella degli alunni a cui dagli
anni Ottanta i device digitali prima e poi gli smartphone hanno cotto il
cervello sin dall’infanzia. I primi sono cresciuti in una scuola costruita
attorno al cadavere dell’autorità (culturale e di ogni altro tipo) e della
disciplina e all’insofferenza verso gli studi seri e al fastidio verso il
passato; i secondi sono nati in un mondo in cui lo studio e la cultura in genere
(vocabolario italiano incluso) contano meno di un viaggio a Santorini o di una
notte in discoteca. Prodotta da una scuola come questa, era forse inevitabile
che la classe politica che governa oggi il paese fosse non solo una delle più
ignoranti e incompetenti della storia della Repubblica, ma anche delle più
sorde a temi come la preparazione specifica, la lungimiranza, la ricerca e il
pensiero astratto, per non parlare della mentalità scientifica. (…). I due
fattori (scarsità di studi, provenienza da una scuola deteriorata), mescolati
tra loro, producono la seguente sintesi: non si è mai visto un ceto politico
così incompetente, ignorante e immaturo. I risultati sono sotto gli occhi di
tutti, nelle parole, le opere e le omissioni. Si dirà, come al solito, che il
grande Max Weber lo aveva profetizzato già nel famoso saggio sulla Politica
come professione (1919): «lo Stato moderno, creato dalla Rivoluzione» spiega
«mette il potere nelle mani di dilettanti assoluti […] e vorrebbe utilizzare i
funzionari dotati di preparazione specialistica solo come braccia operative per
compiti esecutivi». Ma il povero Max non poteva prevedere le novità cool dei
nostri tempi: per dirne una, la rabbiosa spinta che il movimento di Beppe
Grillo avrebbe dato alla prevalenza dell’incompetente. Il caso di Virginia
Raggi, per esempio, è da trattato di sociologia politica. Pronuncia carinamente
l’inglese, ma è un’icona fulgente dell’incompetenza e dell’improvvisazione. Lo
mostra, tra le mille cose, il suo incessante fare e disfare alla ricerca di
assessori, alti funzionari e dirigenti per le partecipate: li raccatta dalle
più varie parti d’Italia, senza distinguere tra accademici e gestori di night,
li licenzia di punto in bianco, non vede che la città affonda nella monnezza e
nell’incuria e intanto, svagata e placida, esibisce al popolo sfinito la più
granitica certezza del radioso futuro della Capitale. Max Weber non avrebbe mai
immaginato neppure che i destini della Capitale potessero esser telegovernati
da un paio di signori che nessuno ha eletto, o che una deputata, che nella vita
faceva la ragioniera, sarebbe arrivata a spiegare col forte caldo la lieve
ripresa estiva del Pil. Gli incompetenti si sono procurati ulteriore spazio
sfruttando senza ritegno il tormentone del rinnovamento di generazione, che,
partito dall’Italia, ha contagiato quasi tutt’Europa. Esser giovane in politica
è ormai un titolo di merito di per sé, indipendentemente dal modo in cui la
giovinezza è stata spesa, anche se i vecchi sanno bene che la giovinezza
garantisce con sicurezza assoluta solo una cosa: l’inesperienza, una delle
facce dell’incompetenza. La cosa è talmente ovvia che nel 2008 la ministra
Marianna Madia, eletta in parlamento ventiseienne, non ancora laureata,
dichiarò che la sola cosa che portava in dote era la sua “inesperienza” (sic). La
lista che ho appena fatto non contiene solo piccoli fatti di cronaca. Se si
guarda bene, è una lista di problemi, perché suscita due domande gravi e serie.
La prima è: a cosa dobbiamo, specialmente in Italia, quest’avanzata di persone
che, oltre che giovanissime, sono anche I-I-I (“incompetenti, ignoranti e
immaturi”)? È la massa dei somari che prende il potere, per una sorta di
tardivo sanculottismo culturale? Sono le “famiglie di basso reddito” della
Fedeli, ormai convinte che i figli, invece che farli studiare e lavorare, è
meglio spingerli in politica? Oppure è l’avanzata di un ceto del tutto nuovo,
quello dell’uomo-massa, di cui José Ortega y Gasset (in La ribellione delle
masse) descriveva preoccupato l’emergere? «L’uomo-massa si sente perfetto»
diceva Ortega y Gasset, aggiungendo che «oggi è la volgarità intellettuale che
esercita il suo imperio sulla vita pubblica». «La massa, quando agisce da sola,
lo fa soltanto in una maniera, perché non ne conosce altre: lincia». È una
battutaccia da conservatore? Oppure la dura metafora distillata da un’intelligenza
preveggente? Comunque la pensiate, queste parole non sono state scritte oggi,
ma nel 1930. Forse l’avanzata della «volgarità intellettuale» era in corso da
tempo e, per qualche motivo, non ce ne siamo accorti. La seconda domanda seria
è la seguente: la democrazia può funzionare ancora se conferisce responsabilità
di comando a persone dichiaratamente I-I-I? Forse in astratto sì, se è vero che
(come pensava Hans Kelsen) la democrazia è «il regime che non ha capi», nel
senso che chiunque può diventare capo. In un regime del genere, quindi,
chiunque, anche se del tutto I-I-I e appena pubere, può dare un contributo al
paese. Napoleone salì al vertice della Francia a 29 anni e Emmanuel Macron (suo
remoto emulo, dileggiato dagli oppositori col nomignolo di Giove o, appunto, di
Napoleone) è presidente della Repubblica a 39. Nessuno di loro aveva mai
comandato le armate francesi o governato la Repubblica. Ma ammetterete senza
difficoltà che tra loro e Luigi Di Maio (e tanti suoi colleghi e colleghe con le
stesse proprietà, del suo e di altri partiti) qualche differenza c’è.
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