Da “Il più
grande errore di Cristo: provare a essere un uomo” di Massimo Fini,
pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 24 di febbraio 2017: E il
Figlio disse al Padre. “Papà vorrei scendere un po’ sulla Terra”. Dio corrugò
la fronte. Era da un po’ di tempo che quel figliolo lo preoccupava. Niente di
grave in verità. Nulla a che vedere con la rivolta di Lucifero, quel campione
di superbia, ammalato di SuperEgo, che aveva osato dire “meglio essere primi in
Inferno che in Ciel servire”. (…). No, da suo Figlio non c’era da temere nulla
del genere. Era dolce, affettuoso, accuditivo (cosa che era diventata
importante adesso che Lui veniva vecchio. Addirittura laggiù sulla Terra
qualche devoto lo raffigurava con una lunga barba bianca, cosa che gli seccava
moltissimo). Era solo un po’ irrequieto quel suo figliolo, attraversava l’età
dell’adolescenza. Ma la sua contestazione era soft. “Perché vuoi scendere sulla
Terra, figliolo?”. “Papà qui mi annoio un po’. Siamo solo in tre, tutti maschi
per giunta. E poi, lo dico col massimo rispetto, quello Spirito Santo è
veramente insopportabile. E’ troppo astratto e non si possono mai fare quattro
chiacchiere alla buona. Qualche volta scendo le scale e vado giù a giocare a
calcio con i Cherubini e i Serafini. Ma vince sempre la squadra dove ci sono
io. E ho il sospetto che mi facciano vincere apposta per evitare qualche
ritorsione. Anche se Noi, lo dovrebbero sapere, non siamo punitivi come quei
nostri vicini, come si chiamano, ah sì gli Jahvè. Insomma per dirtela tutta,
Padre, vorrei farmi qualche scopatina. Con le Sante non c’è niente da fare,
sono quasi tutte vergini e anche quelle che non lo sono hanno in testa il
dovere della castità. E poi non posso essere proprio io a dare il cattivo
esempio dopo che da duemila anni facciamo professione di sessismo. Addirittura
qualche tempo fa un tuo Vicario in terra, non mi ricordo più come si chiama, so
però che è finito all’Inferno perché si è scoperto che non credeva in Te, aveva
messo nella sua location, come simbolo del Male, la fotografia di quella
bellissima, carinissima, ingenuamente maliziosa, deliziosa ragazza, te la
ricorderai sicuramente anche Tu, BB, Brigitte Bardot. Un vero bijoux. Un
eccesso di zelo se mi consenti, pardon se mi permetti, Padre”.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
martedì 28 febbraio 2017
lunedì 27 febbraio 2017
Scriptamanent. 74 “Riscoprire le radici”.
Da “Riscoprire
le radici per vincere il fatalismo” di Giovanni Valentini, pubblicato sul
quotidiano la Repubblica del 27 di febbraio dell’anno 2015: Siamo,
da secoli, un popolo di guelfi e ghibellini. Ma rischiamo ormai di diventare un
popolo di "gufi" e "rosiconi", per usare una terminologia
abituale al nostro presidente del Consiglio. Un Paese che ha scarsa
considerazione di se stesso: anzi, per stare alle ultime statistiche, quello
più pessimista del mondo, con la più bassa autostima in assoluto. Noi italiani
non ci piaciamo e non ci vogliamo bene. E il peggio è che ci piaciamo anche
meno di quanto piaciamo agli stranieri. I dati e le tabelle forniti dalla
ricerca del "Reputation Institute" per il 2014 riflettono un'Italia
sfiduciata e smarrita, priva di un'identità forte, insicura. Quel grafico che
relega il nostro Paese all'ultimo posto nella graduatoria mondiale della
"self confidence", per cui registriamo il gap più negativo fra la
reputazione esterna e quella interna, raffigura — come un elettroencefalogramma
piatto — la crisi esistenziale che affligge oggi gli italiani. Quasi una
sindrome collettiva di rassegnazione e disorientamento, al limite della
disperazione sociale. L'Italia rappresentata da quell'inquietante meno 15,2
(indice negativo della differenza fra come ci reputano gli altri e come noi
reputiamo noi stessi), è un Paese che si sente senza orizzonte e senza futuro.
Certo, il disfattismo nazionale è una tara ereditaria che deriva dal nostro
dna, dal nostro codice genetico. Ma la fiducia — al pari del coraggio di
manzoniana memoria — se un popolo non ce l'ha, non se la può dare
improvvisamente: è proprio un deficit, una carenza organica di (…) «coesione,
forza e volontà collettiva» (…). Il fatto è che nel sistema circolatorio di
questa Italia contemporanea, più le distanze aumentano invece di ridursi, più
si propaga — come in un contagio virale — un senso diffuso d'ingiustizia
sociale. E quindi, di frustrazione diffusa. Ne deriva il ribellismo latente che
coinvolge in particolare le generazioni più giovani, a cui la società adulta
non ha saputo offrire risorse e prospettive. Occorre, a questo punto, una
scossa. Uno choc salutare, un trauma positivo. O magari, un soprassalto
virtuoso d'impegno e di responsabilità. Toccherebbe innanzitutto alla politica
produrre quella «svolta buona» (…). Ma, per parafrasare il titolo di una
trasmissione televisiva di successo, la politica siamo noi. E allora anche la
società civile, o più spesso incivile, deve fare la sua parte: emendarsi dai
propri vizi e difetti; rinunciare ai privilegi e ai corporativismi; affrancarsi
magari da evasione, corruzione, abusivismo, truffe, inganni e raggiri. Non è
solo una questione d'immagine o di reputazione, dunque. È una questione più
profonda d'identità, di fierezza, di orgoglio nazionale. Per stimare di più noi
stessi e il nostro Paese, dobbiamo ritrovare il senso d'appartenenza,
riscoprire le nostre radici.
domenica 26 febbraio 2017
Scriptamanent. 73 “La nuova solitudine repubblicana”.
Da “Il
populismo d'Occidente che cancella i moderati” di Ezio Mauro, pubblicato
sul quotidiano la Repubblica del 26 di febbraio dell’anno 2016: (…). Scopriamo
improvvisamente, in questi ultimi anni, che il meccanismo democratico da solo
non ci protegge. Anzi, potremmo dire che la scoperta è più radicale: la
democrazia non basta a se stessa. Nasce il disincanto della rappresentanza, la
nuova solitudine repubblicana. Tutto diventa fragile e transitorio, nulla
merita un investimento a lungo termine, dunque la stessa politica tradizionale
finisce fuorigioco perché cerchiamo risposte individuali a problemi collettivi.
C'è un elemento in più. Prima della crisi il ceto medio emergente aveva tentato
di diventare soggetto politico mettendosi in proprio, autonomizzandosi sia
dalla grande borghesia che dal proletariato: in Italia questa avventura aveva
avuto come demiurgo Berlusconi con la promessa di uno Stato più leggero, di una
forte riduzione delle tasse, di un sovvertimento della classe dirigente. Il
fallimento del progetto berlusconiano - che non aveva evidentemente nulla di
moderato e ben poco di conservatore - e il gelo della crisi hanno frustrato due
volte questo tentativo di emancipazione di soggetti sociali che perdono la
speranza di produrre politica direttamente dai loro interessi legittimi, si
proletarizzano per le difficoltà finanziarie e ripiegano sconfitti in quella
che De Rita chiama la "grande bolla" del ceto medio. L'esito di
questi percorsi collettivi è il riflusso da ogni discorso pubblico o appunto la
ribellione, l'antipolitica. Nella convinzione che il cittadino possa
disinteressarsi dello Stato, senza accorgersi che nello stesso tempo lo Stato
si disinteressa di lui, perché quando la sua libertà non si combina con quella
degli altri e l'esercizio dei suoi diritti resta soltanto individuale, lui
diventa un'unità anonima da rilevare nei sondaggi, realizzando la vera
solitudine dei numeri primi. Si capisce che a questo crocevia tra la solitudine
e la ribellione stia accampato il populismo, interessato ad entrambe. Tutti
diversi tra loro, i leader radicali hanno un tratto in comune: propongono
soluzioni semplici a problemi complessi (il "puerilismo", lo chiamava
Huizinga) danno sempre la colpa ad un nemico esterno, attaccano un potere
gigantesco e indefinito, berciano sulle élites, si rinchiudono nell'ossessione
territoriale, immaginano complotti perché investono su un indebolimento dello
spirito critico a vantaggio di una visione mitologica dell'avventura presente.
I problemi veri - il lavoro che manca, la crescita che arranca, Daesh che
uccide - vengono evocati e cavalcati, ma in forma fantasmatica, all'insegna di
una sfiducia perenne nei confronti delle istituzioni e della stessa democrazia.
(…). È la ricetta semplice e forte del fondamentalismo che negando valore ad
ogni teoria divergente o preesistente costruisce quel senso di falsa sicurezza
tipico di chi vive murato all'interno delle fortezze, pensando - come spiega
Bauman - di tagliare fuori così "il caos che regna all'esterno". È il
destino della destra italiana che spento il fuoco pirotecnico del berlusconismo
consegna le sue ceneri a Salvini, rassegnandosi dopo il titanismo del Cavaliere
all'imitazione da Asterix padano del lepenismo. (…).
sabato 25 febbraio 2017
Scriptamanent. 72 “Se Renzi rilegge Bobbio”.
Da “Se Renzi rilegge Bobbio” di Nadia Urbinati, pubblicato sul quotidiano la Repubblica del
25 di febbraio dell’anno 2014: (…). La revisione di Renzi è molto decisa e
tranchant, agilissima e dotata di potenti forbici che tagliano via complessità
ostiche e qualche secolo e diversi decenni di storia sociale. (…). Destra e
sinistra, scrive Renzi, non sono più coincidenti con la libertà individualista
in un caso e la libertà che riposa su premesse di eguaglianza nell`altro.
Questa dicotomia bobbiana, spiega, apparteneva a un mondo in cui le menti e le
idee si situavano in blocchi e classi. Oggi c`è più complessità e quelle due
grandi idee, messe in quella relazione, non servono a orientarci né nel
giudizio né nella scelta. Sembra quasi che il liberismo stesso come ideologia
appartenga a un tempo passato, che sia stato il marchio degli anni di Margaret
Thatcher e di Ronald Reagan; un residuo (come anche il suo nemico principale,
il comunismo) del tempo in cui Bobbio formulò la diade destra/sinistra. Oggi il
liberismo è nelle cose, non più solo un`ideologia. La nuova sinistra deve
partire di qui, da quel che c`è per andare avanti: e quel che c`è è appunto il
lascito liberista dal quale non si può prescindere. Ecco perché la dicotomia di
Bobbio è passé. Il lascito non è fatto di classi o di "blocchi" ma di
individui distribuiti sulla scala sociale. (…).
venerdì 24 febbraio 2017
Scriptamanent. 71 “Un giorno col premier (e con la stampa serva)”.
Da “Un
giorno col premier (e con la stampa serva)” di Maurizio Chierici,
pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 24 di febbraio dell’anno 2015: (…). Inutile
rifugiarsi nei Tg per sapere cosa davvero succede: Renzi salta da un notiziario
all’altro: promesse, promesse. Noi giornalisti siamo davvero innocenti se
l’Italia è ridotta così? Bisogna capire che gli editori impuri di giornali e Tv
fanno girare gli affari nelle poltrone della politica. E “l’informare” si
trasforma nel “formare”, quindi disegnare scenari indispensabili al tornaconto
di chi decide. E che magari domani sparisce ma la cultura dell’inganno ha
radici profonde: complicato tagliarle. I giornalisti devono scegliere.
Arruolarsi nei battaglioni embedded degli editori sincronizzati con qualsiasi
potere, quindi scrivere o recitare talk show come marionette appese ai fili
modello Santanchè improvvisando ravvedimenti appena l’impero traballa. Come le
ragazze di piccola virtù, impossibile sopravvivere senza protettori: a quali
porte busseranno le Betulle cresciute nei giardini di Arcore? Oppure
rassegnarsi alla precarietà di chi non sopporta l’ipocrisia. Gran parte dei
cronisti sfugge le tentazioni che avvelenano il mestiere anche se consapevoli
che il raccontare proprio tutto può diventare esercizio pericoloso soprattutto
nelle province dove il rapporto proprietà-cronaca soffoca l’informazione nelle
ragnatele locali. Ecco il silenzio che imbroglia la gente. L’Italia è scivolata
al 73° posto nella classifica dei Paesi dalla normale libertà di stampa: 1515
giornalisti minacciati, 276 denunce intimidatorie. Quando un cronista va in
tribunale con la prospettiva di bruciare 10 anni di stipendio mai più frugherà
fra le immondizie dei padroni del vapore. Anche gli Stati Uniti non brillano,
49° posto con una differenza: per garantire la credibilità dei giornalisti,
lettori ed editori, si affidano a ricerche sconosciute alle nostre abitudini.
Dieci giorni fa, Brian Williams, conduttore principe di Night News, viene
sospeso dalla Nbc, pagherà 5 milioni di dollari “per aver mentito ai
telespettatori”: inchiesta periodica The Marketing Arma’s. Era fra “le 25
persone più credibili degli Stati Uniti”; precipita all’ 835° posto. Non per
piaggeria mediterranea, innocenti vanità. Reportage in elicottero nelle zone di
guerra, inventa l’aereo “nemico”che gli spara addosso e la curiosità di chi
tutela la trasparenza smaschera altre bugie. Se oltre all’audience misurassimo
la credibilità delle farfalle che svolazzano nei giardini dei poteri, quanti
embedded lascerebbero il posto ai ragazzi in fila per fare la cronaca. Lunedì
mattina: tanto per non lasciarlo solo, lampi Tv del Renzi che telefona a
Bruxelles. Spunta il sole, ma di quale avvenire?
giovedì 23 febbraio 2017
Sfogliature. 73 “Derivati, future e M. Pierre-Joseph Proudhon”.
La “sfogliatura” proposta è
del 22 di maggio dell’anno 2010, un giorno che era di sabato. Al tempo si era
appena imboccato il tunnel della “crisi” che i più attenti e smaliziati osservatori
andavano definendo essere la perfetta “stagnazione secolare”. Donde gli
immancabili epiteti a loro indirizzo da parte dei solerti turiferari del potere
economico-politico. Da quel 22 di maggio ci si ritrova oggigiorno in quell’inestricabile
groviglio che avvolge nelle sue “spire” soprattutto le giovani generazioni. Scrivevo:
Ha senso avere nostalgia per un’epoca
storica lontana assai? Per un’epoca storica della quale non si ha l’esatta
percezione dello stato delle cose, materiali ed immateriali, esistenti in essa?
Credo che possa accadere d'avere nostalgia per un’epoca passata. Accade a chi
s’innamori perdutamente del medioevo, a chi si innamori del rinascimento, e
così via dicendo. A me è insorta una nostalgia forte per l’età della storia che
aveva al centro dei suoi interessi materiali il baratto. Ho parlato di un’età,
che sarà – non sono uno storico - cosa ben diversa da un’epoca della storia.
Un’epoca storica penso sia cosa ben distinta e definibile, un’età della storia è
quasi incerta, non ha limiti in basso ed in alto. Sì, dicevo, mi sono
innamorato dell’età del baratto. Io do, o davo, una cosa a te, tu dai, o davi,
una cosa a me. Cosa c’è di più certo, razionale e sostanziale al contempo? E
penso che questa nostalgia per l’età del baratto mi sia insorta per una forma
di ripulsa ossessiva per tutto ciò che oggigiorno avviene nel mondo della
finanza da profittatori, che ha svuotato, dall’interno, come il peggiore dei
parassiti, l’economia reale, quella dei fatti e delle cose concrete create e
prodotte. Il cosiddetto “capitalismo
finanziario” che si è letteralmente mangiato il cosiddetto “capitalismo manifatturiero”. Non ne
posso più di sentir parlare dei “derivati”,
dei “future”, di cose sfuggevoli
così, impalpabili, evanescenti, che non arrecano sollievo alcuno alle masse più
o meno indigenti che popolano il pianeta Terra. Giovevoli solo ad una ristretta
cricca di profittatori. Cosa ci capisce l’uomo della strada, o di internet
perbacco, dell’attuale crisi finanziaria che si è globalizzata a tal punto e della
quale sembra non potersi avere una idea chicchessia di una uscita? E di questa
invenzione di moneta che, in caso di crisi profonda dei mercati, non si stampa
più ma che al contempo, il solo parlarne, crea o non crea maggiore o minore
fiducia nei mercati dell’intero mondo? Abbiamo bisogno di cose concrete. Non se
ne può più di intrallazzi vari. Sarà la limitatezza mia, ma un ritorno
all’economia delle cose, degli oggetti, al mondo della produzione e degli
operai in carne ed ossa, al loro riconoscersi in una classe sociale ben
definita, sarebbe il modo più semplice per ridare un ruolo a tutti noi,
condannati a consumare senza sosta e senza un perché. Non ho la competenza per
affermare che all’età del baratto si sia, in seguito, sostituita l’età degli
scambi impari, ovvero tra e con oggetti o beni diversi. Io do una cosa reale a
te, una zucca, una ciabatta, un pezzo di pane, e così via dicendo, e tu in
cambio mi dai l’equivalente in sale, per esempio, o in conchiglie raccolte
sulla spiaggia del mare, o in pezzi di metallo vilmente lavorato. È così che è
avvenuto? Dal baratto, allo scambio con cose che pur se materiali afferiscono a
quella idea che ha portato presto alle monete, al vil danaro? E quante conchiglie
saranno state necessarie per una zucca? E quanti pezzi di metallo per un
cetriolo succulento? A quell’età, forse, non si era pervenuti ancora alla
formulazione di quell’idea rivoluzionaria ed insensata, insensata per i furbi
di tutte le epoche storiche, che “la
proprietà è furto”. Ci avrebbe pensato un tale a nome Pierre-Joseph
Proudhon. Ma tanto tempo dopo. E molto prima assai dei “derivati” e dei “future”.
Di questo mio stato ansioso, incline alla nostalgia per il ritorno ad epoche
storiche più che oscure, stato ansioso strettamente personale e che spero universalmente
non condiviso da nessun altro essere pensante che sia, ne ha scritto, senza
averne nozione alcuna, nella massima Sua solitudine, Massimo Fini su “il Fatto
Quotidiano”. Titolo della Sua riflessione: “La
crisi e il denaro fantasma”. La trascrivo di seguito in parte:
martedì 21 febbraio 2017
Scriptamanent. 70 “Elogio della frugalità”.
Da “Elogio della frugalità” di Paolo Legrenzi, pubblicato sul
quotidiano la Repubblica del 21 di febbraio dell’anno 2014: 1. La
frugalità non è la povertà. È una scelta, non una costrizione. Se si sembra
frugali perché si è poveri, in realtà non si è frugali. Oggi, in Italia i
poveri sono circa cinque milioni. Si tratta di persone che l’Istat, nel suo
rapporto, classifica come «poveri assoluti». Si potrebbe pensare che, in una
società ricca, gli «assolutamente poveri» diminuiscano. E invece aumentano. Dal
5,7 per cento delle famiglie assolutamente povere del 2011 siamo passati all’8
per cento delle famiglie del 2012.
lunedì 20 febbraio 2017
Primapagina. 29 “Come ti rottamo il Pd”.
Da “Caro Pd,
ascoltare la base non si fa più?” di Antonio Padellaro, pubblicato su “il
Fatto Quotidiano” del 15 di febbraio 2017: (…). Ora, nella discussione nel partito di
maggioranza relativa, tutta quanta di ceto politico, nessuno si preoccupa degli
8 milioni 644mila elettori che nelle ultime politiche del 2013 votarono Pd. O
dei 2 milioni e 800mila cittadini che parteciparono alle primarie vinte da
Renzi. O dei circa 380mila iscritti al partito del 2016 (previsti in calo
nell’anno in corso). L’opinione di quella che una volta era definita con un
certo rispetto “la Base” appare (e non da oggi) del tutto irrilevante (…). Potrebbero
sembrare osservazioni passatiste e abbastanza patetiche se il cosiddetto
“populismo” non fosse continuamente evocato da astrattisti e surrealisti come
il pericolo mortale per le democrazie e anzi la negazione stessa della civiltà.
Eppure per comprendere da dove scaturisca l’energia che muove la nuova barbarie
basterebbe riascoltare Donald Trump, il più barbaro di tutti, nel suo discorso
d’insediamento alla Casa Bianca là dove egli dice: “Oggi trasferiamo il potere
da Washingon D.C. restituendolo al popolo”. Detto fatto poiché l’orrendo
pupazzo dai capelli gialli ha nei primi dieci giorni della sua presidenza
cominciato a mantenere le principali orrende promesse fatte ai suoi elettori:
dal muro col Messico allo stop immigrazione. E se giudici e messicani non sono
d’accordo, ciò non fa che rafforzare il rapporto sentimentale tra The Donald e
i suoi elettori, i quali possono dire: lui sì che mantiene gli impegni, sono
quegli altri a non volere il bene dell’America. Vedrete, lo stesso farà
l’orrenda Le Pen se dovesse vincere le presidenziali in Francia con l’uscita
dall’Euro e le frontiere sigillate. Così la premier Teresa May (che populista
non è) ha subito avviato l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue come chiesto,
pensate un po’, dalla maggioranza degli elettori. Dunque, battere il cosiddetto
“populismo” si può: basta non tradire gli impegni presi con il popolo, non
dimenticarsi di essi già il giorno dopo la proclamazione dei risultati. Tornando
in Italia per rispettare il volere degli elettori sarebbe stato sufficiente,
per esempio non archiviare il plebiscito del 4 dicembre tra le varie ed
eventuali. Con la beffa del governo fotocopia Gentiloni composto dagli stessi
medesimi ministri renziani non meno coinvolti nella solenne bocciatura
popolare. Fregarsene allegramente di chi ti ha dato fiducia non è mai gratis e
il conto salato il Pd aveva cominciato a pagarlo con le amministrative della
scorsa estate. Come reagirebbe adesso una Base mai consultata se messa di
fronte a una rottura traumatica appresa dai giornali? Al di là dei calcoli di
bottega i due Pd frutto dell’eventuale scissione difficilmente saranno la somma
aritmetica dei consensi raccolti dall’attuale partito. La storia politica
italiana insegna che quasi sempre una forza si scinde in due debolezze. Voti
smarriti che gioveranno soprattutto ai 5Stelle, cioè proprio a quei populisti
brutti e cattivi contro cui il Pd (…) chiede la chiamata alle armi. Si chiama
eterogenesi dei fini. Ma anche suicidio.
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