Di Menochio, mugnaio friulano che
volò in cielo, tra le scintille del suo rogo, per la mano caritatevole assai
della chiesa di Roma. Di Michele Serveto, fine intellettuale del suo tempo, volato
in cielo per volontà della chiesa di Calvino, tanto per rendere la pariglia.
Bartolomeo Carranza de Miranda, invece, salvò la pelle dal rogo ma ebbe vita
dura e travagliata. Aveva visto la luce in quel di Spagna nell’anno del signore
1503 da nobile e ricca famiglia. Rapito dalla voce del signore divenne
domenicano e fu professore di teologia a Valladolid. Fu inviato al concilio di
Trento ed ebbe l’onore di essere spedito in Inghilterra per presenziare al
matrimonio di Filippo di Spagna con la Maria Tudor. Come sempre avviene agli
uomini di buona volontà peccò, ovvero prese a pensare e ad esternare i suoi
convincimenti in un peccaminoso volume dal titolo “Commentarios sobre el catechismo cristiano”. Mal gl’incolse. Ché
pensare in proprio è peccato grave assai. Salvò la pelle sua dal rogo ma la
sempre caritatevole chiesa di Roma lo tenne lontano dalle tentazioni del
pensiero dal 1558 al 1576. Si direbbe oggi, un processo breve. Dopo tanti anni
di cattività fu riconosciuto non colpevole di eresia ma dopo aver abiurato ben
sedici sue proposizioni. Ebbe una sola fortuna: di trapassare il 2 di maggio
dell’anno del signore 1576 per un male di quelli incurabili. Della tragica
esistenza del dotto domenicano ne ha scritto nel suo “La quiete del manovratore” Franco Cordero, mirabile lavoro
pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 20 di luglio dell’anno 2008:
(…). Bartolomé
de Carranza y Miranda, teologo domenicano attivo nella censura editoriale: è
confuso, sconnesso, volatile, grafomane, zelante, integerrimo, gaffeur,
rissoso; rifiuta una sede arcivescovile e incarichi ambiti;consultore al
Concilio tridentino,raccoglie antipatie; accompagna in Inghilterra Filippo,
principe ereditario marito della regina Bloody Mary, Maria Sanguinaria; nella
riconversione cattolica racconta d´avere salvato milioni d´anime colpendo solo
30 mila corpi. Stavolta non può esimersi quando il futuro Re Cattolico lo
nomina arcivescovo primate: Toledo è sede ricchissima, concupita dall´Inquisitore
generale Fernando Valdès; e lo stupido Bartolomeo gli cade nelle fauci,
condotto per mano dal confratello Melchior Cano. Morto Carlo V, ha perso
l´unico possibile patrono. (…). Dopo i soliti passi striscianti (…),
l´arrestano all´alba, 22 agosto 1559: scompare, quasi la terra l´avesse
inghiottito; e finirebbe sul rogo se dopo otto anni Pio V non lo reclamasse. Ne
passa nove confortevoli in Castel Sant´Angelo, uscendo ogni tanto: a Valladolid
era carne da ardere; una mite sentenza 14 aprile 1576 gl´impone l´abiura, più 5
anni nella quiete d´un monastero orvietano. Lunedì dopo Pasqua adempie la
penitenza visitando sette chiese e celebra messa in San Giovanni. Epilogo
lieto, ma dalla sera ritiene urina. Otto giorni dopo rende l´anima. L´autopsia
scopre lesioni d´un rene, tre calcoli, escrescenze carnose nell´uretra. Morte
tempestiva, notano i soliti elucubratori del sospetto, e viene comoda al re
spagnolo. (…). Di “roghi” e “beatificazioni” ne è
pieno il cielo. Secondo le esigenze dei tempi. E della “politica”. Giunge or
ultima la beatificazione di Óscar Arnulfo Romero y Galdámez, salvadoregno di Ciudad
Barrios - 15 di agosto 1917 – fatto tacere con la violenza dei tempi nuovi in
quella Sua San Salvador il 24 di marzo 1980. Arcivescovo che sceglie di stare
dalla parte dei deboli e dei miseri. Un’eresia che gli costa la vita. Al pari
di quel Menochio e di quel Michele Serveto. Ci pensano a non farlo più “pensare”
quelli dello “Squadrone della morte” mentre celebra messa nella cappella di un
ospedale per i derelitti in carne e spirito. Or giunge, dopo ben 35 anni, un
atto di “misericordia” affinché l’Uomo amato dal Suo Dio ma odiato dai
consimili possa essere ricordato come uno dei “martiri” di quella che dicesi Chiesa
di Roma. Ha scritto Vito Mancuso sul quotidiano la Repubblica del 21 di maggio
- “Oscar Romero e il lungo silenzio del
Vaticano”: (…). Quando il 3 febbraio 1977 lo nominarono arcivescovo di San
Salvador in Vaticano erano convinti di aver trovato la persona giusta per
moderare l’impostazione troppo progressista data alla Chiesa salvadoregna dal
predicente arcivescovo Chàvez y Gonzáles. Romero infatti, nato 59 anni prima in
un paese di montagna, era un presule conservatore che diffidava di tutto ciò
che avesse a che fare con il concetto di liberazione. Poi, però, qualcosa
accadde. Nel libro Romero martire di Cristo e degli oppressi pubblicato
dall’Editrice Missionaria il teologo gesuita Jon Sobrino parla di una
“conversione” avvenuta il 12 marzo 1977: «Credo che l’assassinio di Rutilio
Grande sia stato l’occasione della conversione; monsignor Romero conosceva
molto bene Rutilio, lo considerava un sacerdote esemplare e un amico… ma troppo
politicizzato… credo che davanti al cadavere di Rutilio a monsignor Romero
siano cadute le bende dagli occhi». Molti altri, tra cui Leonardo Boff ed
Ettore Masina, forniscono tale lettura. Ma anche chi non ama parlare di conversione,
come Roberto Morozzo della Rocca autore della più ampia biografia di Romero in
lingua italiana (Primero Dios, Mondadori), non può evitare di notare che
«Romero arcivescovo era diverso dal Romero precedente, questo è certo». Conversione
o no, sta di fatto che coloro che prima erano i nemici di Romero (la sinistra
politica e la sinistra ecclesiastica dei gesuiti e del vescovo Rivera y Damas)
divennero suoi amici, e viceversa coloro che erano i suoi amici (la destra
politica e la destra ecclesiastica del nunzio e della maggioranza degli alti
prelati) divennero suoi nemici. Così il nunzio e il cardinale guatemalteco
Casariego si rammaricavano di averlo segnalato quale arcivescovo e inviavano a
Roma velenosi rapporti. Da qui le pesanti pressioni subite da Romero nei tre
anni di episcopato, tra cui una “visita apostolica” (espressione canonica che
sta per ispezione ufficiale) condotta da monsignor Antonio Quarracino, poi
arcivescovo di Buenos Aires e predecessore di Jorge Mario Bergoglio, che diede
un parere molto negativo su Romero consigliando di affiancargli un
amministratore apostolico sede plena, cioè praticamente di esautorarlo di ogni
potere. A quel tempo in Salvador oltre all’esercito e ai corpi di sicurezza,
imperversavano gli squadroni della morte, gruppi paramilitari assoldati
dall’oligarchia, ufficialmente illegali ma in realtà strettamente legati al
potere. A sinistra operavano formazioni diverse, talora altrettanto sanguinose,
poi confluite nel Fronte Farabundo Martí per la Liberazione Nazionale. Tradizionalmente
la posizione della Chiesa era di equidistanza, ma Romero, accortosi della
connivenza tra esercito e squadroni della morte e del fatto che tale
equidistanza finiva in realtà per privilegiare i potenti a scapito degli
oppressi, ruppe questa politica, prese le distanze dal governo e arrivò
persino, come fa notare Sobrino, a considerare legittima la violenza di
autodifesa perché i cittadini «davanti a una situazione così iniqua, spesso si
sono visti obbligati ad autodifendersi, anche in forma violenta» (Quarta
lettera pastorale, n. 117). (…). Cinque giorni prima della morte Romero
dichiarò al Diario di Caracas: «Destra significa nettamente l’ingiustizia
sociale e quindi non è mai giusto mantenere una linea di destra». Ricordando
tali parole, Sobrino cita anche queste altre: «Il Partito democratico cristiano
si sta facendo complice dell’oppressione del popolo». Naturalmente tutto ciò
fece di lui l’oggetto di un odio da parte delle oligarchie economiche, militari
e anche ecclesiastiche. Le minacce di morte erano sempre più numerose, ma Romero
rifiutò la scorta. Gustavo Gutiérrez, uno dei padri della teologia della
liberazione, ricorda di avergli telefonato prima della morte: «Terminai la
nostra amichevole conversazione con un’espressione forse ingenua, gli dissi:
“Monseñor, devo andare. Abbi cura di te”; dopo un breve silenzio che a me parve
lunghissimo rispose: “Gustavo, per aver cura di me dovrei andarmene dal mio
paese”» (da Perché Dio preferisce i poveri, Editrice Missionaria). Romero
sapeva bene che prima o poi l’avrebbero ucciso ma non indietreggiò mai. Un
giorno disse: «Se mi ammazzeranno, risusciterò nel popolo salvadoregno». È
esattamente quello che avvenne. Com’è stato possibile allora che per 35 lunghi
anni si dubitasse che la sua morte fosse un martirio a servizio del Vangelo? Ha
dichiarato monsignor Vincenzo Paglia, il postulatore della causa di
beatificazione: «Romero ha avuto scontri con il nunzio, con il Vaticano, con i
poteri locali che lo definivano comunista solo perché aveva scelto di sporcarsi
le mani dedicandosi all’aspetto sociale del dogma». Ma che cos’è questo aspetto
sociale del dogma? È il bene concreto, cioè l’unico vero senso del Vangelo, cui
tutti gli altri sono funzionali. Che a essere contro Romero siano stati la
destra e i militari per interessi economici e politici si spiega; ma che lo sia
stata una parte della Chiesa, tra cui la maggioranza dei vescovi salvadoregni e
a Roma i cardinali López Trujillo e Castrillón Hoyos, tanto potenti sotto
Woityla e Ratzinger, è il segnale di qualcosa di strutturalmente pericolante
nel sistema ecclesiastico. Sabato sarà un giorno di grande gioia per la causa
del Vangelo, ma per alcuni nella Chiesa anche di inevitabile vergogna. Di
questa “inevitabile vergogna” ne aveva scritto il professor Galimberti
in “Wojtyla: anche i santi sbagliano” pubblicato
sul settimanale “D” del 10 di maggio dell’anno 2014: (…). Da parte mia posso solo
aggiungere che nonostante l'esposizione mediatica e i frequenti bagni di folla,
Giovanni Paolo II fu un papa medioevale che non capì quasi nulla della
modernità. Subordinando, come voleva Tommaso d'Aquino, la ragione alla fede,
dimostrò una sfiducia radicale nell'uomo, che non sarebbe in grado di governare
se stesso se non attraverso la tutela della fede. Una fede assunta come
"verità assoluta", rendendo di fatto impossibile un dialogo con le
altre fedi. Con questa premessa, l'ecumenismo con le altre religioni tanto
ostentato si risolveva in un rapporto di buona educazione. (…). Avverso alla
teologia della liberazione dell'America latina che si batteva per il riscatto
dei poveri, non esitò a sostenere l'Opus Dei di cui santificò il fondatore. Sul
piano politico, dopo aver dedicato i primi due anni di pontificato alla causa polacca,
non esitò ad apparire sul balcone col dittatore cileno Pinochet. E a
beatificare il cardinale Stepinac, che pur essendone a conoscenza non disse una
parola sui campi di concentramento in Croazia in cui erano rinchiusi i
comunisti della Serbia. Dopo la dissoluzione della Jugoslavia non esitò a
promuovere, con Khol, il riconoscimento dei due paesi cattolici Slovenia e
Croazia, senza riconoscere il paese ortodosso, e forse comunista, che era la
Serbia. Scelte di campo che, a mio parere, non si addicono propriamente a un
Pastore universale. (…).
Grazie, Aldo Ettore, di questa memoria. Un abbraccio. Franca.
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