"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 23 maggio 2015

Uominiedio. 18 “Óscar Arnulfo Romero y Galdámez”.



Di Menochio, mugnaio friulano che volò in cielo, tra le scintille del suo rogo, per la mano caritatevole assai della chiesa di Roma. Di Michele Serveto, fine intellettuale del suo tempo, volato in cielo per volontà della chiesa di Calvino, tanto per rendere la pariglia. Bartolomeo Carranza de Miranda, invece, salvò la pelle dal rogo ma ebbe vita dura e travagliata. Aveva visto la luce in quel di Spagna nell’anno del signore 1503 da nobile e ricca famiglia. Rapito dalla voce del signore divenne domenicano e fu professore di teologia a Valladolid. Fu inviato al concilio di Trento ed ebbe l’onore di essere spedito in Inghilterra per presenziare al matrimonio di Filippo di Spagna con la Maria Tudor. Come sempre avviene agli uomini di buona volontà peccò, ovvero prese a pensare e ad esternare i suoi convincimenti in un peccaminoso volume dal titolo “Commentarios sobre el catechismo cristiano”. Mal gl’incolse. Ché pensare in proprio è peccato grave assai. Salvò la pelle sua dal rogo ma la sempre caritatevole chiesa di Roma lo tenne lontano dalle tentazioni del pensiero dal 1558 al 1576. Si direbbe oggi, un processo breve. Dopo tanti anni di cattività fu riconosciuto non colpevole di eresia ma dopo aver abiurato ben sedici sue proposizioni. Ebbe una sola fortuna: di trapassare il 2 di maggio dell’anno del signore 1576 per un male di quelli incurabili. Della tragica esistenza del dotto domenicano ne ha scritto nel suo “La quiete del manovratore” Franco Cordero, mirabile lavoro pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 20 di luglio dell’anno 2008:
(…). Bartolomé de Carranza y Miranda, teologo domenicano attivo nella censura editoriale: è confuso, sconnesso, volatile, grafomane, zelante, integerrimo, gaffeur, rissoso; rifiuta una sede arcivescovile e incarichi ambiti;consultore al Concilio tridentino,raccoglie antipatie; accompagna in Inghilterra Filippo, principe ereditario marito della regina Bloody Mary, Maria Sanguinaria; nella riconversione cattolica racconta d´avere salvato milioni d´anime colpendo solo 30 mila corpi. Stavolta non può esimersi quando il futuro Re Cattolico lo nomina arcivescovo primate: Toledo è sede ricchissima, concupita dall´Inquisitore generale Fernando Valdès; e lo stupido Bartolomeo gli cade nelle fauci, condotto per mano dal confratello Melchior Cano. Morto Carlo V, ha perso l´unico possibile patrono. (…). Dopo i soliti passi striscianti (…), l´arrestano all´alba, 22 agosto 1559: scompare, quasi la terra l´avesse inghiottito; e finirebbe sul rogo se dopo otto anni Pio V non lo reclamasse. Ne passa nove confortevoli in Castel Sant´Angelo, uscendo ogni tanto: a Valladolid era carne da ardere; una mite sentenza 14 aprile 1576 gl´impone l´abiura, più 5 anni nella quiete d´un monastero orvietano. Lunedì dopo Pasqua adempie la penitenza visitando sette chiese e celebra messa in San Giovanni. Epilogo lieto, ma dalla sera ritiene urina. Otto giorni dopo rende l´anima. L´autopsia scopre lesioni d´un rene, tre calcoli, escrescenze carnose nell´uretra. Morte tempestiva, notano i soliti elucubratori del sospetto, e viene comoda al re spagnolo. (…). Di “roghi” e “beatificazioni” ne è pieno il cielo. Secondo le esigenze dei tempi. E della “politica”. Giunge or ultima la beatificazione di Óscar Arnulfo Romero y Galdámez, salvadoregno di Ciudad Barrios - 15 di agosto 1917 – fatto tacere con la violenza dei tempi nuovi in quella Sua San Salvador il 24 di marzo 1980. Arcivescovo che sceglie di stare dalla parte dei deboli e dei miseri. Un’eresia che gli costa la vita. Al pari di quel Menochio e di quel Michele Serveto. Ci pensano a non farlo più “pensare” quelli dello “Squadrone della morte” mentre celebra messa nella cappella di un ospedale per i derelitti in carne e spirito. Or giunge, dopo ben 35 anni, un atto di “misericordia” affinché l’Uomo amato dal Suo Dio ma odiato dai consimili possa essere ricordato come uno dei “martiri” di quella che dicesi Chiesa di Roma. Ha scritto Vito Mancuso sul quotidiano la Repubblica del 21 di maggio - “Oscar Romero e il lungo silenzio del Vaticano”: (…). Quando il 3 febbraio 1977 lo nominarono arcivescovo di San Salvador in Vaticano erano convinti di aver trovato la persona giusta per moderare l’impostazione troppo progressista data alla Chiesa salvadoregna dal predicente arcivescovo Chàvez y Gonzáles. Romero infatti, nato 59 anni prima in un paese di montagna, era un presule conservatore che diffidava di tutto ciò che avesse a che fare con il concetto di liberazione. Poi, però, qualcosa accadde. Nel libro Romero martire di Cristo e degli oppressi pubblicato dall’Editrice Missionaria il teologo gesuita Jon Sobrino parla di una “conversione” avvenuta il 12 marzo 1977: «Credo che l’assassinio di Rutilio Grande sia stato l’occasione della conversione; monsignor Romero conosceva molto bene Rutilio, lo considerava un sacerdote esemplare e un amico… ma troppo politicizzato… credo che davanti al cadavere di Rutilio a monsignor Romero siano cadute le bende dagli occhi». Molti altri, tra cui Leonardo Boff ed Ettore Masina, forniscono tale lettura. Ma anche chi non ama parlare di conversione, come Roberto Morozzo della Rocca autore della più ampia biografia di Romero in lingua italiana (Primero Dios, Mondadori), non può evitare di notare che «Romero arcivescovo era diverso dal Romero precedente, questo è certo». Conversione o no, sta di fatto che coloro che prima erano i nemici di Romero (la sinistra politica e la sinistra ecclesiastica dei gesuiti e del vescovo Rivera y Damas) divennero suoi amici, e viceversa coloro che erano i suoi amici (la destra politica e la destra ecclesiastica del nunzio e della maggioranza degli alti prelati) divennero suoi nemici. Così il nunzio e il cardinale guatemalteco Casariego si rammaricavano di averlo segnalato quale arcivescovo e inviavano a Roma velenosi rapporti. Da qui le pesanti pressioni subite da Romero nei tre anni di episcopato, tra cui una “visita apostolica” (espressione canonica che sta per ispezione ufficiale) condotta da monsignor Antonio Quarracino, poi arcivescovo di Buenos Aires e predecessore di Jorge Mario Bergoglio, che diede un parere molto negativo su Romero consigliando di affiancargli un amministratore apostolico sede plena, cioè praticamente di esautorarlo di ogni potere. A quel tempo in Salvador oltre all’esercito e ai corpi di sicurezza, imperversavano gli squadroni della morte, gruppi paramilitari assoldati dall’oligarchia, ufficialmente illegali ma in realtà strettamente legati al potere. A sinistra operavano formazioni diverse, talora altrettanto sanguinose, poi confluite nel Fronte Farabundo Martí per la Liberazione Nazionale. Tradizionalmente la posizione della Chiesa era di equidistanza, ma Romero, accortosi della connivenza tra esercito e squadroni della morte e del fatto che tale equidistanza finiva in realtà per privilegiare i potenti a scapito degli oppressi, ruppe questa politica, prese le distanze dal governo e arrivò persino, come fa notare Sobrino, a considerare legittima la violenza di autodifesa perché i cittadini «davanti a una situazione così iniqua, spesso si sono visti obbligati ad autodifendersi, anche in forma violenta» (Quarta lettera pastorale, n. 117). (…). Cinque giorni prima della morte Romero dichiarò al Diario di Caracas: «Destra significa nettamente l’ingiustizia sociale e quindi non è mai giusto mantenere una linea di destra». Ricordando tali parole, Sobrino cita anche queste altre: «Il Partito democratico cristiano si sta facendo complice dell’oppressione del popolo». Naturalmente tutto ciò fece di lui l’oggetto di un odio da parte delle oligarchie economiche, militari e anche ecclesiastiche. Le minacce di morte erano sempre più numerose, ma Romero rifiutò la scorta. Gustavo Gutiérrez, uno dei padri della teologia della liberazione, ricorda di avergli telefonato prima della morte: «Terminai la nostra amichevole conversazione con un’espressione forse ingenua, gli dissi: “Monseñor, devo andare. Abbi cura di te”; dopo un breve silenzio che a me parve lunghissimo rispose: “Gustavo, per aver cura di me dovrei andarmene dal mio paese”» (da Perché Dio preferisce i poveri, Editrice Missionaria). Romero sapeva bene che prima o poi l’avrebbero ucciso ma non indietreggiò mai. Un giorno disse: «Se mi ammazzeranno, risusciterò nel popolo salvadoregno». È esattamente quello che avvenne. Com’è stato possibile allora che per 35 lunghi anni si dubitasse che la sua morte fosse un martirio a servizio del Vangelo? Ha dichiarato monsignor Vincenzo Paglia, il postulatore della causa di beatificazione: «Romero ha avuto scontri con il nunzio, con il Vaticano, con i poteri locali che lo definivano comunista solo perché aveva scelto di sporcarsi le mani dedicandosi all’aspetto sociale del dogma». Ma che cos’è questo aspetto sociale del dogma? È il bene concreto, cioè l’unico vero senso del Vangelo, cui tutti gli altri sono funzionali. Che a essere contro Romero siano stati la destra e i militari per interessi economici e politici si spiega; ma che lo sia stata una parte della Chiesa, tra cui la maggioranza dei vescovi salvadoregni e a Roma i cardinali López Trujillo e Castrillón Hoyos, tanto potenti sotto Woityla e Ratzinger, è il segnale di qualcosa di strutturalmente pericolante nel sistema ecclesiastico. Sabato sarà un giorno di grande gioia per la causa del Vangelo, ma per alcuni nella Chiesa anche di inevitabile vergogna. Di questa “inevitabile vergogna” ne aveva scritto il professor Galimberti in “Wojtyla: anche i santi sbagliano” pubblicato sul settimanale “D” del 10 di maggio dell’anno 2014: (…). Da parte mia posso solo aggiungere che nonostante l'esposizione mediatica e i frequenti bagni di folla, Giovanni Paolo II fu un papa medioevale che non capì quasi nulla della modernità. Subordinando, come voleva Tommaso d'Aquino, la ragione alla fede, dimostrò una sfiducia radicale nell'uomo, che non sarebbe in grado di governare se stesso se non attraverso la tutela della fede. Una fede assunta come "verità assoluta", rendendo di fatto impossibile un dialogo con le altre fedi. Con questa premessa, l'ecumenismo con le altre religioni tanto ostentato si risolveva in un rapporto di buona educazione. (…). Avverso alla teologia della liberazione dell'America latina che si batteva per il riscatto dei poveri, non esitò a sostenere l'Opus Dei di cui santificò il fondatore. Sul piano politico, dopo aver dedicato i primi due anni di pontificato alla causa polacca, non esitò ad apparire sul balcone col dittatore cileno Pinochet. E a beatificare il cardinale Stepinac, che pur essendone a conoscenza non disse una parola sui campi di concentramento in Croazia in cui erano rinchiusi i comunisti della Serbia. Dopo la dissoluzione della Jugoslavia non esitò a promuovere, con Khol, il riconoscimento dei due paesi cattolici Slovenia e Croazia, senza riconoscere il paese ortodosso, e forse comunista, che era la Serbia. Scelte di campo che, a mio parere, non si addicono propriamente a un Pastore universale. (…).

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