Da “Il
Partito della Nazione da Gramsci a Renzi” di Massimo L. Salvadori, sul
quotidiano la Repubblica del 12 di maggio 2015: (…). Quale male (…) se uno
specifico partito, il Pd, intende presentarsi nelle vesti di Partito della Nazione?
Devo dire di considerare questo un indirizzo sbagliato, una sconcertante
ingenuità ideologica, un errore da cui (…) tenersi a distanza di sicurezza. Nel
clima intorbidito della politica italiana — caratterizzata dalla presenza di
una molteplicità di partiti che fanno mestiere di una conflittualità miseranda
dentro e fuori di sé, sono preda di robusti tarli roditori, vedono i propri
leader contestarsi reciprocamente e malamente; colpita ogni giorno dalle
bombarde dei populismi; invelenita dai contrasti in tema di riforme
istituzionali e costituzionali — l’invito al Pd a farsi esso coraggiosamente e
orgogliosamente carico dei destini complessivi del Paese indossando i panni di
Partito della Nazione può apparire una ventata di aria fresca. Sennonché occorre
ragionare, avvalendosi di qualche riflessione sulla storia italiana, su ciò che
in quell’invito non funziona. In tutti i momenti di più grave crisi dello Stato
unitario, quando i contrasti tra i partiti politici superarono una certa
soglia, si è fatta avanti l’idea che, contro la divisività negativa e
inconcludente, spettasse ad un soggetto privilegiato assumere l’onere e l’onore
di rigenerare il paese come, appunto, “Partito della Nazione”. Fu il caso sia
del partito, stretto intorno alla monarchia, che nella crisi di fine Ottocento
Sonnino invocò contro i rossi e i neri; sia del partito fascista che nel primo
dopoguerra si propose di unire il popolo intorno a sé, potando i rami secchi.
Vi era in questi nemici della sinistra la convinzione di poter essi soli
rappresentare il bene dell’Italia. Ma anche a sinistra si è nutrita una analoga
ambizione. Si leggano le Tesi di Lione del 1926 stese da Gramsci e Togliatti, e
si vedrà che lo scopo additato al Partito comunista era fondare lo Stato del
futuro, anche in questo caso tagliando i rami secchi, avendo in mano le chiavi
per unire intorno a sé tutte le forze sane del popolo. Dopo la caduta del
fascismo, Togliatti teorizzò senza posa che la missione storica del Partito
comunista era strappare dalle mani della borghesia la bandiera del vero
progresso della nazione, di cui esso rivendicava di essere l’unico interprete,
assumendo — affermò — «una funzione di guida in tutti i campi della vita
politica e sociale». Ecco comparire ancora una volta il soggetto preposto a
compiere la rinascita nazionale. (…). Nel concetto di Partito della Nazione è
di fatto implicita una pretesa totalizzante, boriosa, inopportuna e dannosa. I
precedenti non sono di buon auspicio. I sistemi liberaldemocratici riconoscono
unicamente “partiti nella nazione”. Il Pd aspiri ad essere una attiva forza
riformatrice all’altezza delle sfide che è chiamata ad affrontare. Non indossi
i panni di chi guarda i suoi competitori dall’alto di un salvifico primato; e
non ambisca a fare gli interessi di tutti, poiché le società moderne sono la
scena dell’inevitabile scontro dei diversi interessi politici e sociali. Non
inalberi una bandiera di parole e lasci perdere la vacua, altisonante etichetta
di “Partito della Nazione”.
Da “Il Partito Unico della Nazione” di Maurizio Viroli, su “il Fatto Quotidiano” del 16 di maggio 2015: (…). Se le parole hanno ancora un senso nel dibattito politico italiano, del che è lecito dubitare, “partito della nazione” vuol dire molto di più di un partito che aspira a raccogliere ampi consensi. Deve essere un partito che si propone di rappresentare tutta la nazione, di esserne la più vera espressione, la sua guida sicura. Ma in questo caso gli altri partiti diventerebbero degli inutili intralci. A considerarla con un minimo di attenzione, l’idea del partito della nazione nasce dalla malcelata ambizione a essere partito unico. (…). In regime repubblicano e democratico i partiti devono rimanere parti. Parti che rappresentano interessi diversi, con diverse visioni della società, con diversi progetti per il futuro e diverse memorie rispetto al passato. Parti che cercano accordi e compromessi per il bene comune e si sforzano di convincere il maggior numero possibile di cittadini della bontà delle loro proposte. Parti che si sentono sinceramente leali alla Costituzione repubblicana e operano per mandare in Parlamento cittadini che sanno e vogliono rappresentare la nazione. Ma sempre parti rimangono e non aspirano a diventare il tutto. Nella storia dell’Italia repubblicana, il partito che meglio degli altri ha saputo rappresentare interessi e culture diverse è stato la Democrazia cristiana, maestra nell’arte della mediazione e del compromesso. In questo senso è stato un partito nazionale. In modo diverso anche il Pci ha cercato fin dal ritorno di Togliatti di essere partito di classe e nazionale, vale a dire capace di raccogliere attorno al nucleo fondamentale della classe operaia, contadini, intellettuali, ceti medi produttivi e le forze più sane dell’imprenditoria. Ma né l’una né l’altro hanno mai accarezzato l’idea di proclamarsi ‘partito della nazione’. Non l’hanno fatto perché erano orgogliosi della propria identità ed erano consapevoli del carattere inevitabilmente autoritario di qualsiasi partito che vuol essere il tutto. Il partito che diventa il tutto, d’altra parte, lo conoscevano bene: era il partito nazionale fascista. Ha ragione Ferruccio de Bortoli quando sostiene, su questo giornale, che “il partito della Nazione è il trionfo del trasformismo”. Aggiungo che con l’Italicum e una sola camera elettiva avrebbe di fatto il monopolio del potere politico: ricetta infallibile per avere una classe politica ancora più corrotta e incompetente di quella attuale.
Da “Le
conseguenze dell’italicum” di Franco Cordero, sul quotidiano la Repubblica 12
di maggio 2015: (…). L’Italicum vuol garantire una premiership a vita o quasi. Nel
nuovo sistema monocamerale l’apparato ha mano pesante: crea i deputati
manovrando capilista e candidature multiple; avendone 340 su 630 (tanti ne
porta il premio a chi supera il 40% o prevale nel secondo turno), l’installato
a Palazzo Chigi risulta de facto inamovibile. Capitava sub l. 19 gennaio 1939.
Il fascismo trionfante liquida l’ultimo residuo formalmente democratico
abolendo la Camera dei deputati: quella dei Fasci e Corporazioni è consesso
fluido, continuamente rinnovato; i mille componenti vi figurano in virtù della
carica nel partito o in una delle ventidue corporazioni. La meccanica
elettorale assicura al premier un dominio che ai bei tempi Giolitti fondava
sull’ascendente personale: la fiducia diventa obbedienza; vi saranno crisi solo
quando lui voglia. Succeduto a Luigi Facta, 31 ottobre 1922, Mussolini riempie
la scena fino al 25 luglio 1943, capo assoluto d’un governo i cui ministri e
sottosegretari vanno e vengono: se li sceglie; Sua Maestà li nomina; i banchi
applaudono o ringhiano, secondo gli ordini; e sarebbe un potere sine die, a
termine biologico, se Dux non fosse così malaccorto da legarsi al folle Adolf
Hitler. Fattori eversivi esterni disintegrano una macchina perfetta. (…). Il
futuro è indeterminato, qualcosa però s’intravede. Svaniscono parole d’ordine
d’una sinistra estinta dal vuoto d’idee, e l’homo novus ha degli argomenti,
visto lo squallido centrosinistra governativo negl’intervalli del ventennio.
Parlatore incauto, lancia la sigla d’un «partito nazionale», simile
all’«unico», mussoliniano. La «profonda sintonia» non lascia tranquilli. Era
sincero nel confessare un’affinità epurata. In dinamismo pragmatico somiglia
all’Olonese. L’aspettavano colletti bianchi compunti, patrioti, moderati,
quindi intransigenti sulle barriere sociali: votavano B. faute de mieux, male
sopportando le volgarità; a colpo d’occhio riconoscono l’agonista senza tare,
possibile Baiardo del moderatismo. Non esiste confronto con gli esponenti forzaitalioti,
verosimilmente ostili. Pulsione reciproca. Sa d’estro dionisiaco l’abbraccio
col quale Angelino Alfano e Maria Elena Boschi, macchinista delle riforme
costituzionali, salutano i 334 sì raccolti dall’Italicum. Meno incline alle
effusioni, lo stratega tira i conti. Sia detto forte, «la gente è con noi». (…).
Ma anche ridenominato «partito nazionale», il Pd non può continuare linee
berlusconiane senza perdere voti sull’altro versante. I moderati esigono
favori. Ora, vigono equazioni d’economia: i parassiti portano miseria, Paese
arretrato, ritardo intellettuale, vita incivile; le due anime implicano
difficoltà insolubili; non è malattia medicabile con formule retoriche o gesti
da palcoscenico. Esistendo macchine elettorali perfette nel riprodurre i 630
deliberanti, niente garantisce un sèguito indefinito; può anche darsi che
l’evento scatenante della crisi lieviti dall’aula parlamentare: nella notte tra
sabato e domenica 25 luglio 1943 Mussolini cade sull’odg presentato da Dino
Grandi, moderatissimo presidente a Montecitorio.
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