"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 8 maggio 2015

Cosecosì. 96 “Tremenda inutile pietà”.



“Untitled 4” (2009) di Luca Viapiana. Oil on Thermal Paper applied on Canvas. Cm 120x80. 

Ho felicemente incontrato il “compagno” Giovanni Torres La Torre – artista e poeta - nella biblioteca comunale di Capo d’Orlando ai piedi dei Nebrodi boscosi l’11 di aprile ultimo scorso, in occasione della presentazione della Sua ultima fatica letteraria “Luna visionaria” – “Prova d’Autore” editore (2015) -. Cadeva quella presentazione nella cosiddetta “Giornata della Poesia”. Quale migliore occasione per re-incontrarlo ed ascoltare dalla Sua voce i Suoi versi “baciati”, come non mai, da una carica emotiva, da una commozione sempre più forte, sempre più intensa. E nel corso della magnifica serata in quella sala gremita si sono susseguiti, da parte degli oratori intervenuti, i riconoscimenti alla Sua generosità ed a quell’impegno umano, civile e sociale che permeano tutta la Sua attività di uomo e di artista. Un riconoscimento ed un richiamo che sono stati unanimi, a quella generosità espressa anche nella e dalla Sua creatività pittorica e letteraria. È che per una forma insospettata di “gelosia” d’appartenenza o meglio di una improvvisa emotiva “avarizia” - come a volerne per sempre serbare il magnifico ricordo -, “gelosia” d’appartenenza ed emotiva “avarizia” che oggi mi sento di riconoscere chiaramente e lealmente, è potuto accadere che in quella occasione non mi sia unito al coro dei laudatori per tenermi come serbato un particolare “cameo” di quella Sua grandissima umana generosità, “cameo” che segna in forme profondissime il vissuto del “compagno” Giovanni Torres La Torre. Un “cameo” che sta tutto a testimoniare di una Sua generosità che si è saputa esprimere anche oltre la Sua attività d’artista e di poeta. È quasi a volermi liberare da quella innocente, insospettata forma di emotiva “avarizia” e da quella ingiustificata “gelosia” d’appartenenza che scrivo oggi di quando Giovanni, parlandomi tanto tempo addietro della Sua giovinezza in quel di San Piero Patti, ebbe a ricordare, lui ancora giovanetto, il soccorso Suo agli analfabeti lavoratori edili di quel siculo borgo, ansiosi di riscattarsi dalla propria condizione umana e lavorativa, all’indomani del secondo conflitto mondiale, offrendo loro la Sua opera di lettore del quotidiano l’Unità in cambio di una sigaretta, prova iniziatica per un’adolescente di allora. La generosità di Giovanni conosciuta in quello episodio della Sua vita giovanile è tornata a farsi da me riconoscere in questi giorni di maggio che mi hanno regalato un Suo nuovo “cameo”. Un “cameo” nuovo ed inaspettato, ovvero la Sua stupenda nuova lirica che ha dedicato ai tanti tantissimi “morti del Mediterraneo”  e che ha per titolo “Tremenda e inutile pietà”:
A lume spento
l’antica bellezza si confonde
con nuove trasfigurazioni
ma la luna
non svela incanti di orizzonti
e si costerna per l’inutile dote.
Nessuno risponde
al lamento delle onde
e i colori dei pittori
che in un tempo generoso
diedero volto ad angeli e madonne
hanno smarrito quel contorno di volti
e i mari e i cieli di celeste biancore
sicché, anche la nostra voce
al cospetto della fatica di chi muore
per confidare un sogno,
volge ora al torpore.
II
La luna ha già spento
il suo languore pietoso
e noi pure, così
avvolti in quel cono d’ombra
ci nascondiamo nel tepore di nidi
alti sugli olmi
o tra altre chiome
di tremenda e inutile pietà
lontani dall’occhio solenne
della spina in fronte
che geme.
III
Indefinita memoria
un suono, forse
che torna su ala di vento
intrepido e a soccorso
mentre trasecola l’indolenza
mite del giorno,
ma quando del tutto smuore
il languore dell’anima
cerca il fiore lasciato
tra pagine dimenticate.
IV
È una voce di speranza
dall’orizzonte che sconfina
-- verso Lampedusa
o altre terre di poemi e leggende --
che chiama
lasciando in dote, a pelo d’acqua
il suo vestitino turchese
che finge ala di farfalla
il cui nome è Tesfaye.
V
È pensosa l’acqua che sgorga
dal mascherone della fontana
dell’antico paese siciliano,
un piacere di primavera
a sentirla nel candore
del suono che misura a onde
il bordo muschioso della conchiglia.
La ragazza venuta dall’Africa
con labbra di sete
ristora il suo nome
sporgendo la bellezza del petto innocente
e con occhi luminosi di splendore
accarezza il volto nudo e generoso
del mascherone
e lo bacia in fronte
ove le mani hanno cancellato
i lunghi affanni dei nostri giorni.
VI
Trilli febbrili nell’azzurro delle rondini
del cielo di Lampedusa
ossessivi nel gioco di rincorrersi
nella trasparenza che li confonde
e un suono di voce chiama ancora Tesfaya.
Trilli del tempo dei nidi
sotto le ascelle dei balconi
sui fili delle luminarie
che ricordano amate stagioni
voci di bambini che si rincorrono nel gioco
e delle madri che non li hanno dimenticati,
altre ali di farfalle,
indumenti azzurrini sul pelo dell’acqua
del Mediterraneo.

“Tremenda inutile pietà per i morti del Mediterraneo”. Così ha scritto il “compagno” Giovanni Torres La Torre. Ha scritto Furio Colombo su “il Fatto Quotidiano” del 26 di aprile – “Un Paese a civiltà sospesa che odia perfino i morti” -: (…). Una tremenda disgrazia in mare (…), la barca da soccorrere si è rovesciata e quasi tutti (…) sono scivolati in fondo al mare, dove è impossibile trovare persino i corpi. In quel momento è esplosa in Italia una rabbia feroce, una cattiveria che ha perso ogni appartenenza politica e ogni limite. Un vero impeto di violenza, repulsione, rigetto, presa di distanza non contro i persecutori o la guerra. No, contro le vittime, divenute di colpo colpevoli. Queste e quelle che verranno. Non so se un fatto simile sia mai avvenuto. Ma proprio mentre i migranti abbandonati per risparmiare sull’operazione Mare Nostrum sono affogati (…) i nostri concittadini hanno cominciato a odiare non l’abolizione dei soccorsi, non il risparmio che equivale (…) a una serie di condanne capitali. Ha cominciato a odiare i morti, come nelle esecuzioni medievali, in cui la folla urlava insulti al condannato, di cui non sapeva nulla, fino al patibolo. Per una ragione che forse neppure gli esperti di psichiatria e di comportamenti di massa ha ancora decifrato, la questione “troppi morti in mare”, che avrebbe dovuto portare, almeno nei comportamenti pubblici, lutto, dolore, partecipazione, cordoglio, ha istantaneamente creato tre curve di ultras. Nella prima si chiedeva di creare delle tendopoli “sul posto”, diciamo dalla Somalia alla Libia, impedendo ai fuggiaschi di diventare invasori, inchiodandoli al loro disperato Paese (…). La seconda, in piedi e scalmanata, avvertiva che i migranti già pronti a venire e già schierati in spiaggia con i bagagli, erano più di un milione (…) e avrebbero portato, oltre l’ingente ingombro fisico, le loro malattie (…) e il terrorismo. Dunque un danno spaventoso a noi, alla Sindone, all’Expo e alle nostre opere d’arte. La terza ha urlato e continua a urlare la nuova idea: bombardare. Con alcune variazioni: la Libia, i porti, le barche prima che partano. (…). …il problema non sono i morti, che non richiedono neppure la fatica del seppellimento o lo spazio di un cimitero. Il problema sono i migranti vivi, che non devono arrivare. Il problema dei migranti si risolve stroncando i viaggi (…) e bloccando il mare, che è una permanente operazione di guerra. Più facile, perché suddiviso in episodi necessari, bombardare la Libia, i porti, le barche. L’idea è comunque il mare chiuso e la sospensione della civiltà. (…).

Nessun commento:

Posta un commento