C’è da non crederci. Che l’effetto maggiore e più
palpitante lo si sia verificato nel bel paese e non tanto nella austera
“perfida” terra di Albione. E non tanto per le repentine dimissioni dei leader
sconfitti dall’altezzoso Cameron. Nient’affatto. Ché di quelle dimissioni nel
bel paese non ne avvengono mai. Anzi, gli sconfitti sono al pari vincitori.
Nessuno che sia sconfitto, quindi tutti vincitori. Il massimo delle ambiguità.
È potuto accadere così che nel bel paese l’esito di quelle elezioni abbiamo scatenato
gli istinti più reconditi e sorprendenti. Ascoltate la mia storia. La
conviviale serata è segnata da un chiacchiericcio d’occasione, stanco e senza
pretese alcune. Pensate voi che tutto potesse procedere lungo quella china che
immancabilmente avrebbe condotto all’abbiocco post-prandiale? C’è sempre e
comunque l’eroe della serata. Quello che di volta in volta diviene l’animatore
del gruppo. Ed il nostro animatore è del tipo “sui generis”. Uomo della
sinistra da sempre, dicesi. Animatore e diffusore, al tempo andato, del
cosiddetto “pensiero complesso”. Fine disquisitore, del tipo “spacco il
capello in quattro”. Lontano, al tempo, quindi dalle semplificazioni del
pensiero. La sorpresa è sta tutta qui. Ascoltarlo e scoprirne l’avvenuta,
perfetta, completa, scarnificazione del suo pensiero “politico”. Onde, osannare
a Cameron gli vien facile, è un tutt’uno. Scanzonato abbastanza – stante forse l’abbondante
“beverage”
della serata -, politicamente ora disincantato secondo la sua autoanalisi, divenuto
disinvolto al punto d’essere senza freno alcuno tanto da sciorinare – anche se
non richiesti - il per come, il per quanto e l’infinità dei “percento”
che nel resto del mondo libero consentirebbero di governare anche con la più
sparuta delle maggioranze ottenibili, ovvero con la più robusta delle minoranze.
Un delirio. Andati perduti tutte le remore ed i “sacri” riferimenti
storico-politici di un tempo, il nostro non trova di meglio che avvalersi e
riportare, a conforto delle sue elaborazioni scarnificate, quegli autori a lui un
tempo invisi, poiché allocati su altre sponde, ai quali non avrebbe mai e poi
mai acceduto. Ebbene, nell’ora tarda e sonnacchiosa e tra la generale sorpresa
tira fuori il bianco coniglio dal suo cappello magico per citare l’Eugenio nazionale.
Il delirio è evidente. Gli occhi dei convenuti strabuzzano. Poiché l’Eugenio
nazionale ha scritto, nel Suo domenicale di ieri 10 di maggio – “L'Inghilterra, l'Europa, Ciampi,
Napolitano e Narciso” –, quanto segue:
(…). …per Renzi uomo di governo o statista
che dir si voglia non ho grande stima anzi ho dentro di me un sottile ma
persistente e crescente sentimento di antipatia. Cerco di vincerlo ma finora
non ci sono riuscito anche perché le motivazioni non mancano e mi sforzo di
verificare che siano obiettive. (…). …il mio dissenso permane e anzi direi che
è in fase di ulteriore aumento: sulla legge elettorale, sulla riforma del
Senato, sui pericoli d'una tentazione autoritaria che da quelle leggi promana,
sulla mancanza di leggi concernenti la creazione di nuovi posti di lavoro e
quindi di nuova occupazione, sulla mancanza di contatti con i sindacati dei
lavoratori, sulla legge per la riforma della scuola. Infine, essendo lui anche
segretario del suo partito, sulla spaccatura del Pd a causa della cancellazione
dei valori della sinistra per la tutela dei quali il Pd è nato. Il partito di
Renzi è ormai di centro e si propone come tale; aspira a monopolizzare il
potere. Marc Lazar, politologo francese e nostro collaboratore, in un articolo
di giovedì ha definito queste riforme dello Stato di stampo renziano ma in
corso anche in altri Paesi europei, come democrazia esecutiva anziché
parlamentare. Perfettamente esatto secondo me. Non c'è un pericolo per la
democrazia ma una sua trasformazione da parlamentare ad esecutiva. Il potere
esecutivo stabilisce i fini e appronta i mezzi. E in quella parlamentare i fini
li stabilivano il Parlamento e il governo possedeva gli strumenti per
realizzarli. Ebbene, questa trasformazione a me non piace affatto e debbo dire
che non è neppure più una democrazia, a rifletterci bene. Una democrazia
esecutiva è un gioco di parole perché demos significa popolo sovrano e come si
esprime il popolo sovrano se non con una rappresentanza proporzionale in un
Parlamento che non sia una dépendance del potere esecutivo? Molte persone e
anche rappresentative di forze politiche e sindacali, stanno pensando di
astenersi dal voto o di votare scheda bianca sperando che nel frattempo rinasca
una sinistra moderna, cambiata, ma ancora legata ai valori di libertà ed
eguaglianza. Spero anch'io che questo avvenga o che Renzi torni sui suoi passi
sconsiderati. Altrimenti non saranno i democratici ad abbandonarlo, ma lui ad
averli abbandonati. A volte Narciso può giocare pessimi scherzi. (…). Questa
è tutta la storia che ho voluto raccontare. Che parte sì dalla vittoria di
Cameron ma approda inverosimilmente sulle nostre spiagge. E che lo scanzonato
commensale sia approdato alla “democrazia esecutiva”,
mostrandosene sommamente entusiasta, la dice lunga sulla parabola che lo
scanzonato commensale e tanta buona parte della cosiddetta “sinistra” hanno o stanno
percorrendo nel bel paese. Poiché di “democrazia esecutiva”, a parte il
buon Lazar che tanto ha entusiasmato il nostro, ne aveva di già parlato, sul
quotidiano la Repubblica del 25 di febbraio ultimo scorso, Gustavo Zagrebelsky –
“La politica al tempo dell’esecutivo”
- che è ben altra “cosa”. Da leggere e da rileggere infinite volte sol che la
si voglia intendere: (…). Il tempo esecutivo è (…), innanzitutto,
un tempo in cui la politica è messa in disparte. Chi parla di politica è
sospettato d’ideologia. La politica è innanzitutto discussione e scelta dei
fini in comune. Il tempo esecutivo annulla il discorso sui fini e si concentra
sui soli mezzi. Concentrarsi sui soli mezzi significa assumere come dato
indiscutibile ciò che c’è, l’esistente, il presente. Il fine unico del momento
esecutivo è la necessità che obbliga. Le parole seduttive e di per sé vuote
come “innovazione”, “riforme”, “modernizzazione”, “crescita” sono parole non di
libertà, ma di necessità, necessità che non lascia spazio alla scelta del
perché, ma solo del percome. Gli esecutivi del tempo attuale dove dominano gli
interessi finanziari, nelle posizioni-chiave sono occupati da uomini d’affari e
di finanza perché essi, con tutti i mezzi, anche con i più amari per i
cittadini e per le loro condizioni di vita, devono essere garanti di assetti ed
equilibri che s’impongono perentoriamente come se fossero fatalità. Sono
anch’essi, a modo loro, vittime della necessità. Il tempo esecutivo e
nonpolitico è anche tempo della tecnica che soppianta la democrazia. Gli esecutivi “tecnici” che, in forma più o
meno esplicita, hanno preso piede negli ultimi decenni non sono anomalie, ma
conseguenze funzionali a questo stato di cose che è il mantenimento dello
status quo o, come anche è stato detto, la dittatura del presente che si
autoriproduce e aspira a crescere sempre di più su se stessa. La tecnica è in
sé, per sua natura, conservatrice. Quando si richiede l’intervento di un
tecnico su un manufatto, ciò è per ripararlo in caso di guasto o per
potenziarne le possibilità, non certo per cambiarlo. La stessa cosa è per la
tecnica che prende il posto della politica. Se si pongono questioni di
giustizia, non è in vista di riforme sociali, come quelle programmaticamente
indicate dalla Costituzione, ma è solo per dare sfogo alla pressione delle
ingiustizie quando diventano pericolose per la stabilità degli equilibri che
devono essere preservati. Si può facilmente constatare la connessione che
naturalmente si crea tra i governi tecnici e l’occultamento della politica. C’è
una coerenza, ma una coerenza inquietante. Lo schiacciamento sulla
perpetuazione del presente coincide con l’assenza di discorsi sui fini,
condannati a priori come irresponsabili o, nella migliore delle ipotesi, come
vaneggiamenti impossibili. Una delle espressioni più in uso e più violentatrici
della politica è “non ci sono alternative”. Non ci si accorge che chi soggiace
alla forza intimidatrice di quest’espressione si fa sostenitore di nichilismo
politico, la forma più perfetta di anti-politica conservatrice. Del nichilismo
politico, il corollario è la tecnocrazia: i tecnocrati rifuggono da ogni
discorso sui fini che bollano come “ideologia”, come se il loro realismo cinico
non sia esso stesso un’(altra) ideologia. Il nichilismo è il regno del nulla.
Poiché la vita pubblica si alimenta con la “comunicazione”, si comunica il
nulla. O, meglio: si comunicano le misure tecniche, e con molta enfasi. Ma le
idee politiche svaniscono entro un linguaggio allusivo che non ha nulla di
politico. Così, in assenza di discorsi effettivamente politici, i contrasti
vengono ridotti alla contrapposizione tra il voler fare e il volere impedire di
fare. Il tempo tecnico è il tempo delle banalità politiche e, parallelamente,
dei “politici” banali. La politica, per gli Antichi, era l’arte del buon
governo: il buon politico era colui che conosceva le regole pratiche della sua
azione. La politica, per i Moderni, è un’altra cosa: è innanzitutto confronto e
competizione tra visioni diverse della società, cui segue — segue per
conseguenza — l’azione tecnico-esecutiva. Solo questa concezione della politica
è compatibile con la visione costituzionale della democrazia, cioè con il
pluralismo delle idee e il libero dibattito tra chi se ne fa portatore,
l’organizzazione delle opinioni in partiti e movimenti politici, il rispetto
dei diritti di tutti e specialmente delle minoranze, le libere elezioni, il
confronto tra maggioranza e opposizione, la possibilità riconosciuta
all’opposizione di diventare maggioranza secondo regole elettorali imparziali.
Questi elementi minimi, costitutivi della democrazia, si svuotano di
significato, quando il governo delle società è conservazione attraverso misure
tecniche. Le forme della democrazia possono anche non essere eliminate ma,
allora, la sostanza si restringe e rinsecchisce, come un guscio svuotato. Le
idee generali e i progetti si inaridiscono; i partiti si cristallizzano attorno
alle loro oligarchie; il conformismo politico alimenta il cosiddetto pensiero
unico e il pensiero unico alimenta a sua volta il conformismo politico. La
competizione tra i partiti solo illusoriamente ha una posta politica. In realtà
si trasforma in lotta per ottenere posti. Quando si denuncia il deficit di
democrazia si vuole riassumere il rattrappimento della vita pubblica
sull’esistente, presentato come unica possibilità, cioè — per usare uno slogan
— come “dittatura del presente”. Per usare un terribile linguaggio filosofico,
l’ente viene presentato e imposto come se fosse l’essere, e l’essere è ciò che
necessariamente è. Tutto il resto, tutto ciò che non vi rientra, nel caso
migliore è bollato come futilità e, in quello peggiore, impedimento o
sabotaggio. Il tempo esecutivo è incompatibile con il dissenso operante. Per
questo, nel governo esecutivo i diversi soggetti della vita pubblica devono
progressivamente livellarsi e sincronizzarsi. In una parola: devono
egualizzarsi e mettersi in linea, la “linea nazionale”. (…). …il luogo
istituzionale in cui consenso e dissenso politico e sociale dovrebbero
esprimersi con compiutezza è un parlamento risultante da libere elezioni.
Questo dovrebbe essere il punto di riferimento della democrazia, la sede che al
massimo livello rappresenta — come dicevano i costituzionalisti d’un tempo — la
coscienza civile della Nazione tutta intera, non però come un intero, ma come
componenti di un “intero confronto” tra loro. Un tale parlamento sarebbe precisamente
il primo ostacolo che incontra il governo esecutivo. Questa spiega perché lo si
umili spesso con procedure del tipo “prendere o lasciare” e perché coloro —
deputati e senatori — che collaborano al progetto del governo esecutivo si
umilino essi stessi accettando senza lamentarsi, o con deboli lamenti, la
minaccia dello scioglimento che viene ventilata, come se fosse prerogativa del
presidente del Consiglio e non del presidente della Repubblica. Sotto
quest’aspetto dovrebbero principalmente valutarsi le riforme istituzionali:
aumentano o diminuiscono la capacità rappresentativa del Parlamento? Le
espressioni verbali che usiamo sono spesso rivelatrici. Della legge elettorale
si dice ch’essa deve consentire ai cittadini di conoscere il vincitore “la sera
stessa”. Ma la politica democratica non conosce vincitori e vinti. Dalle
elezioni risulterà il partito che è più forte degli altri numericamente, ma non
certo il partito che, per i successivi cinque anni della legislatura, “ha
sempre ragione”. Non ci si rende conto di che cosa trascina con sé questa
espressione, tanto disinvoltamente usata nel dibattito politico: implica
disprezzo per i partiti minori che formano le opposizioni e l’insofferenza
verso i poteri di controllo, la magistratura in primo luogo. Nella democrazia
costituzionale — l’opposto della tirannia della maggioranza — non c’è posto per
strappi e “aventini”. Ma il partito che ha ottenuto il maggior successo nelle
elezioni, proprio per questa ragione, ha un onere particolare: governare senza
provocare fratture e strappi, onde chi risulta soccombente non abbia motivo di
ritenersi vinto, annientato, e non debba considerare la sua presenza nelle
istituzioni ormai superflua. (…). Per la qual “cosa”, intendo dire il “pensiero
complesso” dello Zagrebelsky, di quel “pensiero complesso” che al tempo il
nostro si faceva fautore e portatore, non ha potuto non meravigliarmi la
verifica dell’avvenuta scarnificazione del pensiero dello scanzonato commensale
che, per dirla con l’illustre Autore, è in linea con la novella dimensione
della “politica al tempo della democrazia esecutiva” che ha, tra i suoi
obiettivi massimi che le “idee generali e i progetti si inaridiscano;
i partiti si cristallizzino attorno alle loro oligarchie; il conformismo
politico alimenti il cosiddetto pensiero unico e il pensiero unico alimenti a
sua volta il conformismo politico”. I congiuntivi sono miei.
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