Parla ovviamente Corrado Stajano,
nella sua analisi apparsa sul quotidiano l’Unità e che dà il titolo alla
rilettura, di ben altri personaggi storici, di un livello di coscienza molto
alto, di un’etica politica che ben difficilmente potrà essere rinverdita e
dimenticata, etica politica sopravvissuta all’indomani della catastrofe del
ventennio. Erano leggeri gli animi di allora, pur nella consapevolezza delle
difficoltà del momento, dopo una guerra che aveva visto il mondo progredito
dilaniarsi su fronti opposti in nome di una civiltà dell’uomo da recuperare,
salvare, tramandare. Ben altri sono i “costituenti dell’oggi”, dimentichi o
acerrimi avversari dei costituenti precedenti, senza uno spirito leggero come
lo fu lo spirito dei padri della costituzione della repubblica italiana. Questi
sono purtroppo i tempi e questi sono gli uomini “nuovi” che impongono una
visione distorta della democrazia, con gli immaginabili cattivi frutti che la “costituzione”
così rinnovata saprà dare per la convivenza sociale e politica del bel paese. Ed
il bel paese assiste inerte allo sfascio imminente, quasi distratto,
narcotizzato da un “regime mediatico” monopolizzatore delle coscienze, che
alimenta le inclinazioni meno nobili del popolo del bel paese, sfoderando la
sicumera dei regimi più consolidati ed accentratori. Si domanda Giorgio Bocca
nel suo ultimo lavoro “L’Italia l’è
malada“: come si vive nel regime? E offre una risposta che pare proprio
interpretare e rappresentare lo spirito che aleggia sul bel paese. (…). La risposta giusta è: da stanchi.
Stanchi di non capire, di essere presi in giro, del dire e disdire, delle
menzogne plateali, del cattivo gusto che monta, delle facce dei servi della
commedia dell’arte che ogni giorno ripetono che il regime non c’è, è
un’invenzione dei disfattisti, dei comunisti. Adesso il padrone vuole diminuire le tasse. È una follia in un paese dissestato. Che senso
ha? Nessuno, è panna montata, aria fritta, ma anche di questo il regime campa.
(…).Leggiamo quanto ha scritto Corrado Stajano con il meritorio impegno di
ricordare le parole dei padri della costituzione italiana, al cospetto dei
quali i “padrini” dell’oggi assolvono alla operosa arte di becchini della
democrazia: (…). Nasce (…) in modo abnorme
questa revisione costituzionale e l’ha ben spiegato (…) Gustavo Zagrebelsky,
presidente della Corte Costituzionale fino al 13 settembre 2004: «Non c’è
Costituzione se la sua base di consenso non trascende le divisioni della
politica comune, non trascende cioè, innanzitutto, la divisione
maggioranza-opposizione.Una Costituzione del governo non è una Costituzione
perché non ne ha la legittimità necessaria. Questa mancanza iniziale si
rifletterà sugli atti che saranno compiuti in futuro, sulla sua base. Invece
che pacificare, alimentare il conflitto. Un bel risultato “costituzionale”, non
c’è che dire». I momenti delle
costituzioni nascenti (e anche di parti rilevanti, come in questo caso)
dovrebbero conciliare, unire. Accadde nel 1947 quando l’Assemblea Costituente
discusse il modello della Costituzione, promulgata, dopo i disastri del
fascismo e della guerra, il 27 dicembre di quell’anno ed entrata in vigore il
primo gennaio 1948. Fu un periodo di
intensa drammaticità. Nel maggio 1947 i socialisti e i comunisti furono
sbarcati dal nuovo governo De Gasperi, ma la crisi era già iniziata in gennaio
con il viaggio del presidente del Consiglio negli Stati Uniti. Il clima di
restaurazione si era fatto via via più pesante, ma i lavori della Costituente
andarono ugualmente avanti in nome dell’interesse del Paese. Uno spirito
unitario si rivelò allora possibile perché, a differenza di oggi, pur tra
avversari, non venivano negati i princìpi della comunità e della politica. Ma,
bisogna ricordare che della Commissione dei 75, motore giuridico, politico e
culturale della Costituente, facevano parte uomini come Lelio Basso, Piero
Calamandrei, Giuseppe Dossetti, Luigi Einaudi, Giorgio La Pira, Emilio Lussu, Concetto
Marchesi, Umberto Terracini, Palmiro Togliatti. «La Costituzione deve
essere presbite, deve vedere lontano, non essere miope», disse Calamandrei in
un discorso alla Costituente il 31 gennaio 1947. Citò Dante, i versi del
Purgatorio - «facesti come quei che va di notte» - per dire che non bisogna
illuminare la strada a se stessi, ma a coloro che vengono dopo. Era sua
costante preoccupazione cercare di far capire che nel preparare il testo
impegnativo di una Costituzione democratica fosse opportuno, per una
maggioranza, collocarsi secondo il punto di vista di quella che domani potrà
essere la minoranza, «in modo che le garanzie costituzionali siano soprattutto
studiate per difendere i diritti di questa minoranza». (…). Ancora Calamandrei,
sul Ponte (9 settembre 1952): «La schiettezza di una democrazia è data dalla lealtà
con cui il partito che è al potere è disposto a lasciarlo: la lealtà del gioco
democratico è soprattutto nel “saper perdere”. Ma la democrazia diventa una
vuota parola quando il partito che si è servito dei metodi democratici per
salire al potere è disposto a violarli pur di rimanervi». E poi: «Un sintomo
preoccupante di una siffatta tendenza potrebbe ravvisarsi nella leggerezza con
cui (...) si è parlato di “revisionismo costituzionale” come di una faccenda di
ordinaria amministrazione. È vero che nella nostra Costituzione è previsto uno
speciale procedimento per rivederla; ma è anche vero che, nello spirito
dell’Assemblea Costituente, questo procedimento, particolarmente lento e
solenne, è stato dettato non per invogliare i posteri alle revisioni costituzionali,
ma al contrario per ammonirli a non dimenticare che la nostra è una
Costituzione “rigida”, le cui modificazioni saranno sempre da considerarsi come
una exstrema ratio straordinaria ed eccezionale, da affrontarsi con prudente
diffidenza. (...). Fa pena sentire autorevoli parlamentari della maggioranza
parlare con sì scarso senso di responsabilità della opportunità di rivedere la Costituzione per
comodità del loro partito». È anche profetico, Piero Calamandrei, 53 anni fa,
quando scrive dei costituzionalisti del partito di maggioranza che hanno osato
sostenere che siccome «la maggioranza può tutto, essa potrebbe intanto
cominciare a “smobilitare” dalla Costituzione queste fastidiose garanzie di
controllo costituzionale che sono il referendum e la Corte Costituzionale,
e (perché no?) la indipendenza della magistratura». Ecco fatto. Il tentativo è
in corso, rabbioso, nella XIV legislatura del Parlamento repubblicano. Sono
proprio le fastidiose garanzie il nemico da abbattere, l’inciampo che non deve più
dar noia. Pare che i neocostituenti si siano impegnati soprattutto a creare
squilibri tra i diversi poteri. Il presidente della Repubblica viene ridotto al
lumicino di una rappresentanza formale. La Corte Costituzionale
perde il delicato bilanciamento della sua composizione: il Parlamento può
nominare infatti due giudici in più togliendo questo diritto al Quirinale e
alle Magistrature. I partiti, così, possono meglio giostrare e condizionare la Corte. Il primo ministro
viene a godere di un potere sovrabbondante. Ha scritto una illustre
costituzionalista, Lorenza Carlassare, che «la combinazione automatica
sfiducia/scioglimento (della Camera dei deputati) mette nelle mani di una sola
persona un potere di ricatto senza uscita, chiudendo egregiamente un cerchio
davvero perverso». (…). E poi la devolution, l’attribuzione alle Regioni di
competenze che creeranno disuguaglianze, spese incontrollabili, conflitti tra
Stato ed Enti locali, turbamento dell’unità nazionale. Dopo la seconda lettura
del «Disegno di legge costituzionale» che sarà obbligatoriamente fatta dalle
due Camere, senza la possibilità di modificare il testo, non resta che il
referendum popolare, ultima frontiera della democrazia. I sondaggi rilevano che
i cittadini sanno poco di quanto sta accadendo: un tentativo autoritario, privo
di ogni volontà di dialogo, capace di stravolgere la struttura costituzionale
dello Stato. Ma bisogna dire che finora a muoversi, a spiegare, a propagandare
maggiormente e con passione il pericolo grave che incombe sulla Repubblica sono
stati, più che i partiti di opposizione, le associazioni, i gruppi, i circoli
nutriti dalla società civile. La “sfogliatura” che avete
appena letto è stata scritta e postata su questo blog il 1° di aprile dell’anno
2005. Ben due lustri addietro. Troppi o troppo pochi per una qualsivoglia
democrazia? Il referendum popolare rigettò. Cambiati in parte i personaggi
della rappresentazione non sono cambiati gli scenari. Ha scritto ieri, domenica
18 di maggio 2015, Eugenio Scalfari sul quotidiano la Repubblica – “Chi comanda da solo piace a molti, ma
ferisce la democrazia” -: (…). ...poiché ormai da molti mesi il
protagonista è uno soltanto, la domanda ricorrente è: "Che cosa pensa di
Renzi?". Le risposte sono varie ma la domanda è sempre questa, a tal punto
ripetuta da essere ormai diventata noiosa anche perché è almeno in parte
sbagliata. Il problema e quindi le domande che debbono esser poste sono:
"Che cosa è il popolo italiano? Che cos'è la destra e cos'è la
sinistra?". (…). …sono (…) domande che hanno radici lontane, storiche,
perché un popolo, la sua mentalità, i suoi comportamenti, la sua sensibilità e
infine il suo amor di patria (se c'è) non si formano da un giorno all'altro e
neppure da un anno all'altro; ci vogliono secoli per farne un popolo che merita
d'esser chiamato sovrano; c'è una storia che l'ha scolpito di virtù e di vizi.
È un percorso molto complesso. (…). Il nostro Stato compare sulla scena europea
con un ritardo di tre secoli rispetto agli altri. (…). Fino ai primi del
Novecento la massa degli italiani era contadina, lavorava nelle campagne di
proprietà dei latifondisti. Figliava e lavorava, si nutriva di fagioli o di
polenta, arava, seminava, zappava, potava, per il padrone. Non aveva diritto al
voto. Non era popolo, erano plebi e servitù della gleba. Per sottrarsi a questa
situazione di servaggio e di fame, nella seconda metà dell'Ottocento e fino
allo scoppio della guerra del 1915 emigrarono 29 milioni di italiani. Giovani
soprattutto, in prevalenza dalle terre del Sud, ma non soltanto. Poi si scatenò
la grande guerra, 600 mila morti, un milione i feriti. E molte cose cambiarono,
ma il nocciolo del problema rimase e c'è ancora: la profonda diseguaglianza tra
il Nord e il Sud, il disprezzo per lo Stato, una visione assai pallida del bene
comune, una corruzione a tutti i livelli, le mafie ricche e potenti, clientele
numerose e di basso conio. E soprattutto il desiderio diffuso, ossessivo,
dominante, di comandare. A qualunque prezzo. Comandare anche al prezzo di
essere comandati. Non sembri paradossale: ognuno vuole comandare da solo, al
proprio livello. Se ad un livello superiore al suo qualcuno vuole il suo
appoggio per comandare da solo, io glielo do incondizionatamente, purché io a
mia volta sia autorizzato a comandare da solo. E così via, da livelli alti fino
ai più bassi. Alla base c'è la plebe, alla quale non puoi dare diritto di
comando perché è plebe. Ne hai bisogno però in un'epoca di diritti generali.
Hai bisogno che ti voti, localmente e poi su su fino al comando del Capo.
Quella plebe te la conquisti con la demagogia e qualche tozzo di pane in più.
Questa, a guardarla e studiarla senza occhiali scuri che ti falsino la vista, è
la situazione. Se fosse diversa non saremmo in testa nelle classifiche della
corruzione e in coda in quelle dell'efficienza e della produttività. (…).
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