Da “Da
grande voglio fare il black bloc” di Marco Travaglio, su “il Fatto
Quotidiano” del 3 di maggio 2015: (…). Scusate, ma che altro han mai fatto i
servizi segreti italiani dagli anni 60 a oggi se non infiltrare i gruppi
antigovernativi di destra e di sinistra? Nel 1969 sapevano che i fascisti
avrebbero piazzato la bomba in piazza Fontana, e gliela lasciarono piazzare.
Nel 1978 sapevano che le Br avrebbero rapito Moro, e glielo lasciarono rapire.
Nel 2001 sapevano che avremmo distrutto Genova, e ce la lasciarono distruggere.
È una tecnica vecchia come l’Italia: si chiama “destabilizzare per
stabilizzare”. E funziona ancora: dopo 50 anni, la “pista anarchica è un
evergreen. L’altroieri lo sapevano benissimo che avremmo fatto quei danni a
Milano, e ce li hanno lasciati fare.
Non parlo dei poveri e ignari poliziotti da strada, mandati allo
sbaraglio con l’ordine di non caricare (…). Parlo di chi, dietro e sopra di
loro, sapeva da mesi del nostro arrivo, e l’ha pure fatto scrivere dai giornali
e dire dai tg per fare bella figura, poi ci ha spianato la strada come sempre.
Con la differenza che con Berlusconi l’ordine era di menare qualcuno
purchessia, a caso (esclusi noi, ci mancherebbe). Ora invece, dopo la sentenza
di Strasburgo sulle torture alla Diaz, la consegna è non menare più nessuno:
prenderle e basta. Così poi le vostre solite teste di Twitter possono dare la
colpa a Fedez (un rapper mandante nostro? Uahahahahah). E quel genio di Alfano
può dire che “abbiamo evitato il peggio”. Ma come si permette di svilire così
il nostro onesto lavoro? Che si aspettava, i bombardamenti di Dresda? Comunque,
messaggio recepito: al prossimo grande evento, faremo meglio.
Da “Stati Uniti e noi, perché sta vincendo la violenza” di Furio Colombo, su “il Fatto Quotidiano” del 3 di maggio 2015: (…). …si sta verificando un distacco, forse di più, una spaccatura, anche nei paesi tradizionalmente più uniti. Si notano faglie che sembrano più fisiologiche che politiche, qualcosa come nei terremoti, grave e imprevisto, ma fra la gente. La risposta di molti sociologi, anche negli Usa, è che la massa ha smesso di essere massa, con bandiere, slogan, striscioni e un certo legame che permetteva di regolare le varie fasi di una protesta, ed è diventata folla. Ciò è accaduto un po’ per l’influenza della Rete, che trasforma ciascuno in protagonista solitario, e molto per la perdita di autorevolezza di partiti e sindacati e anche di leader politici. (…). Il risultato è un risentimento che tende a salire perché sempre più decisioni appaiono lontane e arbitrarie, e le tensioni tendono a scaricarsi sul corpo organizzato più vicino, la Polizia. D’altra parte un po’ tutte le polizie del mondo democratico, sentendosi controparte quasi esclusiva di uno scontro sempre più ripetuto e ogni volta più pericoloso, hanno cominciato a militarizzarsi: armi da guerra e un’aggressività solitaria, da soldati in un altro Paese, tanto grande ed estranea quanto la folla dove ciascuno è stato convocato da solo on line, non sa niente dell’altro e non viene dalla strada, che dovrebbe essere l’habitat (ma non lo è più, né qui né in America) dei rivoltosi. Credo che gli episodi di scontro “antagonista” (la parola è giustamente imprecisa) intorno all’Expo di Milano siano di questa natura: una guerra spaziale fra gruppi provenienti da pianeti diversi senza alcun filo o legame di riferimento comune, dunque disponibili a violenze anche estreme. Il fatto è che il nuovo tipo di comunicazioni e un modo (o la presunta necessità) di governare, e dunque di decidere questioni che riguardano tutti, senza alcun coinvolgimento dei cittadini, ha eliminato il contesto che rende compatibili, sia pure nella contrapposizione politica, vite e visioni diverse. Senza un contesto (che è anche il segno dei limiti) sia gli antagonisti di ogni tipo sia i governi tendono ad aumentare la forza mentre si abbassa la soglia critica. Esplodono conflitti, a volte gravissimi, fra folle accorse solo per poco tempo (per poi formarsi e riformarsi e sciogliersi e ricomparire altrove) e apparati poderosi di polizia che sono sempre più preparati a trattare allo stesso modo distruttori violenti e militarizzati e la folla composta, tra gli altri, da quel ragazzino nero di Baltimora inseguito e acciuffato dalla madre decisa a riportarlo fuori dal sogno febbrile di combattere. In queste sequenze possiamo forse vedere di che cosa si sono private le nostre democrazie. (…). La violenza, anche dentro la vita democratica quotidiana, è destinata a salire e a diventare sempre più guerra. Le madri non possono inseguire i figli che vanno a combattere da una parte o dall’altra. E la nonviolenza resta una disapprovata debolezza. Peccato, ci resta tutto ciò che avviene nella parte peggiore della vita. L’altra, quella dei diritti, del rispetto e delle persone salve e integre, resta confinata nel credo di una fede (laica) o dell’altra.
Da “Sui
disordini di Milano” di Salvatore Palidda, pubblicato su “alfabeta2”
del 4 di maggio 2015: Tanto per cambiare tutti i commentatori o
pseudo-esperti si sono subito improvvisati analisti dell’ordine pubblico per
commentare i disordini e danneggiamenti provocati il giorno dell’inaugurazione
dell’Expo a Milano dai cosiddetti black bloc. (…). Proviamo a fare il punto su
quanto è successo e sui diversi attori nella scena del primo maggio milanese
2015. 1. (…). È sin troppo banale osservare che a Milano, prima ancora dei
black bloc, c’erano tanti che volevano “sfogarsi” visto che l’Italia ha un
tasso di disoccupazione senza pari, e visto che i governi che si sono succeduti
hanno aggravato le condizioni di vita della stragrande maggioranza della
popolazione e le condizioni di lavoro da semi-schiavi o neo-schiavi di circa
otto milioni di persone (in maggioranza italiani), mentre è costantemente
aumentata la distanza fra ricchezza e povertà, mentre si spendono somme enormi
per aerei da guerra come gli F35, missioni militari (…) e mentre si elargiscono
sempre più risorse alle banche e per opere inutili come la TAV. 2. I black bloc
possono essere considerati una sorta di network di forse un migliaio di
militanti europei postmoderni a modo loro antiliberisti che puntano su alcuni
eventi abbastanza mediatizzati per proporre l’esempio di una pratica
distruttiva secondo loro unica risposta oggi possibile. Nei fatti, si tratta di
una ribellione marchiata dall’impotenza oggi prodotta dall’erosione liberista
delle possibilità e capacità di agire politico collettivo. (…). Considerare i
black bloc e i casseurs “antagonismo insurrezionalista” è alquanto ridicolo, ma
fa comodo all’intelligence e a chi cerca sempre di giocare con la “distrazione
di massa” agitando l’allarme per il nemico di turno. Allora, prima domanda ai
dirigenti dell’O.P.: fra i vostri grandi esperti analisti avete qualcuno capace
di decriptare le comunicazioni delle cerchie black bloc? Se sì, avreste dovuto
sapere abbastanza per stimare quanti sarebbero venuti a Milano e come sarebbero
arrivati e dove si sarebbero dislocati ecc. (…). Seconda domanda: con tutti gli
undercover o agenti sotto-copertura che hanno tutte le polizie nonché i servizi
segreti dei vari paesi europei come mai non è possibile seguirli e fermarli in
tempo? Bisogna sospettare che qualcuno preferisce lasciarli fare secondo
l’adagio che un po’ di casino fa sempre comodo a qualche dirigente di polizia
se non a tutte le istituzioni deputate a garantire l’O.P.? Terza domanda: sin
da Delamare, von Justi, Turquet de la Marenne, Peel (…) e altri, si sa che la
polizia dello stato moderno viene creata perché non si può usare l’esercito per
sedare le rivolte che inevitabilmente si riproducono a causa dell’aumento delle
ingiustizie economiche e sociali oltre che delle angherie (…). L’esercito spara,
come fece Bava Beccaris che nel 1898 sparò cannonate contro la folla della
“protesta dello stomaco” (per “brillante” operazione ricevette dal re grandi
riconoscimenti, un po’ come è stato per De Gennaro per la sua performance al G8
di Genova). Per definizione, l’azione militare è contro un nemico che deve
essere sopraffatto o annientato e costretto alla resa. Lo sviluppo capitalista
non può sempre trattare le “classi laboriose” come “classi pericolose” (come le
chiamava Louis Chevalier), cioè come i sovversivi perché la guerra civile
permanente “non fa bene” all’economia. Perciò lo stato borghese un po’
illuminato creò la polizia come istituzione che avrebbe dovuto essere capace di
separare i facinorosi dai semplici manifestanti. Si tratta quindi di quella che
si chiama “chirurgia sociale”. Per realizzare questa la polizia si dota di
quella che diventa la “squadra politica” e che oggi dovrebbe essere la Digos,
oltre che i servizi e unità simili (vedi i ROS). Dovrebbero essere questi gli
agenti in borghese infiltrati o che seguono e conoscono i cosiddetti
“sovversivi”. E dovrebbero essere questi “poliziotti politici” in grado di
mantenere rapporti di collaborazione con i leader dei manifestanti pacifici
(sindacalisti, leader di partiti o associazioni ecc.) e quindi con i “servizi
d’ordine” dei manifestanti (come s’è sempre fatto in passato, esplicitamente o
tacitamente). Ne consegue che in caso di provocatori infiltrati nei cortei sono
i “poliziotti politici” e i militanti dei servizi d’ordine a isolare e a volte
arrestare il provocatore di turno. Allora perché a Milano tutto ciò non è
successo? E, peggio, perché ancora una volta come a Genova, i veri black bloc
non sono stati isolati e intrappolati? È ovvio che questo non si deve e non si
può chiedere alle unità mobili di agenti che palesemente sono sembrati alquanto
allo sbando E anche qui: che formazione hanno in particolare i loro capi? Dove
hanno imparato la gestione del disordine? (…).
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