Da «La mia
odissea lunga tre anni. Oggi guadagno 5 euro al giorno e per la prima volta
sono felice» di Attilio Bolzoni, dal “diario” di Django Sissoukuo
“migrante” dal Mali all’Italia - (distanza percorsa 7800 chilometri, tempo
impiegato tre anni, due mesi e quattro giorni) - pubblicato sul
quotidiano la Repubblica del 23 di aprile 2015: 1 Gennaio 2012. «Questa mattina
mi sono sdraiato sul cassone di un camion con i miei due amici Manade e Fasi.
Sul camion siamo più di trenta. Io e i miei amici abbiamo un sogno: andare in
Europa e lasciare la miseria e la violenza del nostro quartiere di
Badalabougou, è un luogo infelice alla periferia di Bamako, la capitale del
Mali. Ho perso mio padre Madi nel 2002 e mia madre Gari nel 2003, sono orfano
dei miei due genitori da quando avevo 14 anni. Non ho fratelli e non ho
sorelle. Sono solo al mondo. Lavoro in un’officina come aiuto meccanico ma non
ho sempre soldi per mangiare. Dove voglio andare – Italia, Germania,
Inghilterra – non lo so ancora. So che voglio un’esistenza lontano da qua. Io,
Django Sissoukuo, a 23 anni voglio cominciare a vivere». (…).
4 Febbraio 2013. «Oggi mi hanno detto che ci vogliono molti dinari per
l’Europa. Ho chiesto quanti, ma non mi hanno saputo dire niente. Mi hanno detto
però che c’è un camion che ci può portare in Libia e poi davanti al mare
dell’Europa». 15 Ottobre 2013. «Sono rimasto un’altra
volta solo. Manade e Fasi sono tornati indietro. Sono tornati a casa, a
Bamako». 26 Marzo 2014. «Per la prima volta ho pregato in piedi, non c’era
spazio per inginocchiarmi questa mattina dentro il camion. Eravamo più di 30,
avevamo poca acqua e quasi niente cibo. Dopo quattro giorni – un incubo, ho
sofferto tanto – oltrepassando il deserto sono arrivato finalmente in Libia. Ho
visto tanti cadaveri lungo la pista del deserto. Tutti neri. Credo che siano
morti di sete o di fame, li hanno abbandonati nella sabbia. Erano tutti come
me: neri». (…). 9 Giugno 2014. «Mi hanno detto che devo tenermi pronto, che da un
momento all’altro mi portano a Tripoli». (…). 4 Dicembre 2014. «Per la
prima volta ho sentito la parola Italia. Uno dei neri che sta al campo mi ha
assicurato che possiamo andare dall’altra parte del mare: in Italia. Mi ha
anche chiesto: quanti dinari hai? Non mi piacciono quelli che parlano solo di
soldi». (…). 7 Gennaio 2015. «Non so dove mi trovo, è un villaggio a sei o
sette ore da Tripoli. Un altro camion ci ha portati in questo posto dove per la
prima volta ho visto il mare. Mi fa paura, è grande». 13
Gennaio 2015. «Sto salendo sul battello, siamo in 106». 18
Gennaio 2015. «Sono vivo, sono ancora vivo. Ho avuto terrore del mare e ho
visto morire gli altri che stavano sul secondo barcone. Quattro giorni fa siamo
partiti in più di duecento, 106 sul nostro battello e cento su quell’altro. A
un certo punto si sono rotti i motori di tutte e due le barche. La seconda
barca è scomparsa fra le onde, c’erano uomini e donne, ma anche molti bambini.
Li abbiamo visti affogare. Noi ci siamo salvati perché una nave si è avvicinata
e gente che aveva addosso una divisa ci ha trascinato fino a un’isola che si
chiama Lampedusa. Mi hanno detto che ero già in Italia». 20
Gennaio 2015. «Mi hanno fatto tante domande su chi guidava la barca. Io gli ho
risposto subito, ho detto la verità: era uno del Camerun. Da due notti dormo in
un letto dentro un campo a Lampedusa. Mi hanno dato scarpe nuove, un paio di
pantaloni puliti, una maglia, un giubbotto nero molto bello. E da mangiare,
tanto da mangiare. Questa è l’Italia. Io sapevo dell’Italia solo del Milan e
dell’Inter, del calcio che vedevo ogni tanto alla tivù. Io non fumo, ma a molti
danno anche le sigarette. Questa è l’Italia. Fino a pochi giorni fa pensavo di
morire e adesso invece forse sono felice». 24 Gennaio 2015. «Dopo tanto
tempo ho giocato a pallone. Il paese dove sono si chiama Siculiana, siamo più
di centocinquanta e dormiamo tutti in un bel posto che è pulito e tutti sono
gentili». 28 Gennaio 2015. «Alle tre del pomeriggio è arrivato un autobus e un
uomo ci ha detto che dovevano salirci sopra. C’erano tanti poliziotti e ho
cambiato casa un’altra volta. Adesso abito in un paese dove si vede sempre il
mare. È Pozzallo, è un’isola dell’Italia anche questa. Come Lampedusa».
8
Marzo 2015. «Qui mi trovo molto bene perché qui non sono razzisti. Mangio tanto
e mangio bene. Sono contento, divento triste soltanto quando penso a mio padre
e a mia madre che non ci sono più. Dormo in un posto che ha un numero, il 1062.
Ci sono altri ragazzi come me. Ho un nuovo amico, Dankre, anche lui è del Mali.
Ci vediamo ogni sera, passeggiamo in questo campo di Mineo dove tutti mi
rispettano. Ci vivo da quattro giorni e mi sembra molto lontana la mia città,
molto lontane anche la Libia e l’Algeria». 19 Marzo 2015. «Ho trovato un
lavoro ma non ogni giorno. C’è Sebastiano che mi fa raccogliere arance.
Guadagno 5 euro almeno due o tre volte la settimana. Cinque euro, comincio a
raccoglierle alle 8 del mattino e finisco alle 13. Poi vengo alla mensa.
Sebastiano mi regala le arance per mangiarle anche al campo». 25
Marzo 2015. «Mi sono comprato una bicicletta, è costata 10 euro. Così è più
facile andare da Sebastiano e anche più distante, verso Palagonia dove altri mi
fanno raccogliere arance». 2 Aprile 2015. «Non voglio più cambiare
casa. L’Italia mi piace, mi aiutano tutti. Devo trovare un lavoro nuovo e
aspettare la carta per diventare libero davvero. Mi piacerebbe trovare una
ragazza da sposare, anche se è italiana. Ma prima devo trovare il lavoro per
pagarmi la casa». (…). 22 Aprile 2015. «Mi piacerebbe non
lasciare mai l’Italia. Una volta sono andato a Catania, vorrei viverci lì a
Catania. Ma il mio amico Dankre mi ha detto che si può andare un giorno anche a
Milano. Però a me Catania piace tanto».
Da “Sono un
italiano, così umano che quasi quasi li ammazzerei tutti” di Alessandro
Robecchi, su “il Fatto Quotidiano del 13 di maggio 2015”: C’è un’emergenza nazionale
(un’altra!) di cui nessuno sentiva il bisogno, ma soprattutto che pochissimi
paiono notare, il che la rende ancora più emergenza e anche molto nazionale
(non vedere i muri prima di andarci a sbattere è una specialità di queste
parti). Si chiama cattivismo. Si esprime con un rumore di fondo, un rombo
sottotraccia, e contiene parole, frasi, espressioni, minacce che solo fino a
qualche tempo fa parevano inimmaginabili. Eppure. Eppure come accendi la tivù,
o apri una finestra del browser, ti imbatti in qualcosa di impietoso e trucido
fino alla caricatura. Una lingua approssimativa e splatter fatta di “Io ci
taglierei la testa con la roncola… io meno male che affondano nel mare… io ci
passerei sopra con la ruspa”. Niente che non abbiano già detto certi sceriffi
del Nordest negli anni Novanta, certi leader convinti della supremazia della
razza padana (ahahah! questa fa sempre ridere). Certo trasformare Matteo
Salvini in una specie di inquadratura fissa a reti unificate ha aiutato. Ma
attenzione, non si tratta solo di politica chiacchiere e distintivo. Il
problema è che ora quelle parole tracimano nella vita di tutti, chi più chi
meno. Tra la buona e brava gente della Nazione il refrain “Io li ammazzerei
tutti”, con le sue mille varianti, alcune vergognosamente travestite da intento
umanitario, è diventato un mormorio accettato, diffuso, come i gattini su
Facebook, come le notizie sceme nelle colonnine a destra dei giornali. Il
cattivismo è in un certo senso diventato pre-politico: c’è il cane che sa
contare fino a otto, la bellona con le tette a mongolfiera e il “Signora mia io
a quelli lì ci spezzerei le braccia col martello”. Tutto uguale, tutto
indistinto, tutto sfuggente all’indignazione e allo scandalo. Alla fine, tutto
spaventosamente normale. Chi siano poi “quelli lì” a cui fare del male e per
cui si sprecano parole di odio assoluto, vai a sapere, una volta i poveracci
che attraversano il mare, la volta dopo il rom, o “quelli dei centri sociali”,
o i barboni, i richiedenti asilo, in realtà il destinatario non conta. Che poi
si sa che la lingua precede, non solo il pensiero (spesso) ma anche l’azione.
(…). È come se trovandosi stretti in una situazione di crisi e – peggio – di
paura del futuro, molti italiani si scelgano un nemico facile, molto visibile,
chiaramente minoritario e indifeso. Insomma, se c’è la crisi e hai una fifa blu
per il tuo domani, sei angosciato, adotti come terapia quella di menare (in
metafora, ma purtroppo non sempre) gli unici che stanno peggio di te.
Meccanismo elementare con sfondo cattivista che chiede sacrifici umani. Perché
prendersela con chi conta niente e soffre di più è facile, comodo, rilassa, e
soprattutto è fortemente incoraggiato: finché chiedi la testa dei deboli, i
forti brindano. Politiche economiche, scelte sbagliate, riduzione dei diritti,
tagli di qui e di là, strategie industriali miopi, che palle, tutta roba
complicata, uno deve studiare, pensarci. Vuoi mettere la comodità di un
punching ball nero, o rom, o rumeno? È l’odio-à-porter, è il cattivismo, è la
vecchia storia dell’”italiano brava gente” che però “io a quelli lì ci sparerei
a tutti”. Un imbarbarimento politico, sociale, culturale che non diventerà
emergenza per un solo motivo: lo è già.
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