Ha dichiarato l’imprenditore
Maurizio Zamparini a www.sportnews.eu: «Monti
dice solo delle stupidaggini. Dovrebbe pensare prima di parlare. Prima di dire
che bisogna “chiudere” il gioco del calcio, dovrebbe pensare ai suoi problemi e
a tutto quello che sta distruggendo e facendo chiudere lui con i suoi
provvedimenti. Monti inoltre non si rende conto che, se chiude il calcio,
chiude anche lo Stato perché verrebbero meno più di 900 milioni di euro di
tasse all’anno. Per questo dico che dovrebbe pensarci bene prima di dire certe
cose. (…). 2-3 anni dovrebbe essere sospeso il calcio? Ma 2-3 anni sospenderei
Monti e il parlamento. Il calcio coinvolge milioni di persone, per alcune
decine di responsabili vuole fermare il calcio? Lui che non ha mai ripianato un
bilancio con i soldi di contribuenti, sento amici che chiudono le aziende dopo
40 anni di lavoro, e quello va a demonizzare il mondo del calcio. Incapace e ignorante!
La sua è stupida demagogia». Bene. Anche la mafia contribuisce al Pil
del bel paese. Anche le “morti bianche” sono un amaro
tributo al Pil del bel paese. Anche il lavoro sommerso o pagato in nero. Per
tale motivo bisognerebbe conviverci, per come suggerito “lunardianamente” in
passato? Ma che discorsi sono? Chi delinque delinque e non ha alcun merito, neanche
fiscalmente parlando. Punto. È questo il bel paese che ci siamo ritrovati dopo
un quindicennio abbondante del signor B e dintorni. A questo punto propongo una
lettura che ha dello straordinario. La ricavo da “il Fatto Quotidiano” del 30
di maggio a firma di Giorgio Meletti. Tanto per riquadrare o inquadrare il
tutto. Mi capita spesso, interloquendo con carissimi amici in quel di ******,
di rimproverare loro un certo “vezzo” da intellettualoidi per il
quale la “mafia” e le altre cortigianerie delinquenziali hanno
rappresentato un “antistato” accettabile poiché
esso si procurava di creare ricchezza e distribuire stipendi e garanzie
economiche e/o d’altro genere. Interloquendo con essi mi è parso giusto
dissentire, anche fortemente od aspramente, per un “vezzo” che rendeva
complici del malaffare che attanaglia intere regioni del bel paese, dal Nord
industrializzato al Sud un tempo agricolo ed ora ridotto ad una sacca di
pubblica sussistenza. Non sono per nulla convinto che il mio discorso abbia
avuto interessati ascoltatori. Titolo della lettura proposta: “L’allievo di Prodi folgorato da Bossi”, quello
inquisito, caso recente, per le disavventure della Banca Popolare di Milano.
Uno specchio dell’Italia rampante.
Massimo Ponzellini è nato ricco,
ma ricco veramente. Sua padre, Giulio, era il facoltoso imprenditore che
sostenne a Bologna la nascita del Mulino e della scuola economica di Nino
Andreatta prima e Romano Prodi poi. Sua madre è Marisa Castelli dell’Anonima
Castelli, colosso dei mobili per ufficio. Poi si è sposato con Maria Segafredo
della famiglia del caffè. “Da ragazzo avevo diverse Ferrari, adesso ne ho una
sola”, spiegava un anno fa a un’attonita Daria Bignardi per descrivere la
sobrietà raggiunta con i 60 anni. Corpulento, chiacchierone, fiero del suo
dongiovannismo, Ponzellini merita un posto nel Pantheon dell’Italia in declino.
Nato prodiano, è diventato un simbolo dello spirito del tempo berlusconiano. Al
suo attivo alcuni record, tra cui quello di aver insegnato all’Università
Bocconi senza essersi mai laureato. Un testimonial dell’Italia dove studiare
non serve a niente se sei pieno di amicizie. Ed eccolo ventottenne, già
amministratore delegato nell’azienda del padre, che però non è contento di lui
e chiede al giovane professore Romano Prodi di fargli fare qualcosa di utile
per sé e magari per il prossimo. Prodi, nominato ministro dell’Industria, se lo
porta a Roma come assistente. È il novembre del 1978, Aldo Moro è stato ucciso
dalle Br appena sei mesi prima, ma Ponzellini non si fa scrupolo di arrivare
sotto il ministero, in via Veneto, sgommando in Ferrari. Segue poi Prodi
all’Iri dove fa una certa carriera. Quando il Professore viene fatto fuori, e
sostituito con l’andreottiano Franco Nobili, Ponzellini deve cambiare aria, e
si piazza a Londra, nella nascente Bers, la banca europea per la rinascita
economica dell’Est Europa. Ponzellini solennizza il momento comprandosi la
Bentley, preferibile alla Rolls Royce, spiegherà in seguito, perché te la guidi
da solo mentre la Rolls senza autista è improponibile. A Londra il giovane
banchiere rileva un certo traffico. Si sposta poi alla Bei, Banca europea per
gli investimenti, dove resta fino al 2003 come vice presidente e amministratore
delegato. Come molti cervelli in fuga, Ponzellini prepara il ritorno in Italia.
La sua rete di relazioni si infittisce. Nel 2001 è tra gli azionisti della
nuova Unità riportata in edicola da Furio Colombo e Antonio Padellaro, e
affianca la campagna elettorale di Francesco Rutelli candidato premier. Vince
Berlusconi, e allora Ponzellini decide (e dichiara, perché l’uomo è schietto)
che quelli come lui, che vogliono bene all’Italia, devono stare vicini a chi vuole
il bene del Paese. Per esempio, Silvio Berlusconi. Per esempio Luigi Bisignani.
Ma anche e soprattutto il ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Che nel 2002
gli affida la neonata Patrimonio Spa, che deve censire e dismettere gli
immobili pubblici. Se oggi tra gli obiettivi del governo Monti c’è ancora il
miraggio di vendere un po’ di beni demaniali il merito è tutto di Ponzellini
che non ha combinato niente. Però il banchiere senza laurea piace a Tremonti,
che lo promuove alla guida del Poligrafico dello Stato. Veloce nei movimenti,
sia geografici che politici, Ponzellini comincia a fare acrobazie. Tra una
barzelletta, un affare e un complimento alla bellezza di passaggio, diventa nel
2007 anche presidente dell’Impregilo, la più grande società di costruzioni
italiana, in crisi nera dopo la gestione Romiti. Si affida a lui il gruppo
Gavio, che è in ottimi rapporti con il presidente della provincia di Milano
Filippo Penati. Ponzellini finisce indagato per un finanziamento a
Faremetropoli, l’associazione di Penati, ma sostiene di non saperne niente. Da
berlusconiano, il ragazzo vuole rimanere anche prodiano, tanto che il
Professore si stufa e affida al portavoce Silvio Sircana una feroce lettera al
Corriere della Sera: chiede di non scrivere più che il banchiere “è vicino” a
Prodi, perché i due sono solo vicini di casa a Bologna, per cui “sarebbe più
opportuno parlare di vicinato e non di vicinanza”. Ponzellini però è oltre.
Riscopre le origini varesine della famiglia e diventa amico di Umberto Bossi,
“persona per bene”. Fa l’accordo con la Cisl di Raffaele Bonanni e i dipendenti
della Banca popolare di Milano lo eleggono presidente, nel 2009. Bossi dice che
Ponzellini è un suo uomo. Alla domanda se preferisca la compagnia di Bossi o di
Prodi, il ragazzaccio dice che è come chiedere se preferisci stare a casa con i
genitori o al bar con gli amici. Prodi è il padre palloso, Bossi l’amico
scoppiettante. Gusti. Però alla fine dalla Bpm lo cacciano e Ponzellini si
trova sotto indagine per la storia che ieri l’ha portato agli arresti
domiciliari. Ma ha di che consolarsi. Il presidente Napolitano proprio l’anno
scorso l’ha fatto cavaliere del Lavoro. E perché no?
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