"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 1 giugno 2012

Storiedallitalia. 15 L’allievo di Prodi folgorato da Bossi.


Ha dichiarato l’imprenditore Maurizio Zamparini a www.sportnews.eu: «Monti dice solo delle stupidaggini. Dovrebbe pensare prima di parlare. Prima di dire che bisogna “chiudere” il gioco del calcio, dovrebbe pensare ai suoi problemi e a tutto quello che sta distruggendo e facendo chiudere lui con i suoi provvedimenti. Monti inoltre non si rende conto che, se chiude il calcio, chiude anche lo Stato perché verrebbero meno più di 900 milioni di euro di tasse all’anno. Per questo dico che dovrebbe pensarci bene prima di dire certe cose. (…). 2-3 anni dovrebbe essere sospeso il calcio? Ma 2-3 anni sospenderei Monti e il parlamento. Il calcio coinvolge milioni di persone, per alcune decine di responsabili vuole fermare il calcio? Lui che non ha mai ripianato un bilancio con i soldi di contribuenti, sento amici che chiudono le aziende dopo 40 anni di lavoro, e quello va a demonizzare il mondo del calcio. Incapace e ignorante! La sua è stupida demagogia». Bene. Anche la mafia contribuisce al Pil del bel paese. Anche le “morti bianche” sono un amaro tributo al Pil del bel paese. Anche il lavoro sommerso o pagato in nero. Per tale motivo bisognerebbe conviverci, per come suggerito “lunardianamente” in passato? Ma che discorsi sono? Chi delinque delinque e non ha alcun merito, neanche fiscalmente parlando. Punto. È questo il bel paese che ci siamo ritrovati dopo un quindicennio abbondante del signor B e dintorni. A questo punto propongo una lettura che ha dello straordinario. La ricavo da “il Fatto Quotidiano” del 30 di maggio a firma di Giorgio Meletti. Tanto per riquadrare o inquadrare il tutto. Mi capita spesso, interloquendo con carissimi amici in quel di ******, di rimproverare loro un certo “vezzo” da intellettualoidi per il quale la “mafia” e le altre cortigianerie delinquenziali hanno rappresentato un “antistato” accettabile poiché  esso si procurava di creare ricchezza e distribuire stipendi e garanzie economiche e/o d’altro genere. Interloquendo con essi mi è parso giusto dissentire, anche fortemente od aspramente, per un “vezzo” che rendeva complici del malaffare che attanaglia intere regioni del bel paese, dal Nord industrializzato al Sud un tempo agricolo ed ora ridotto ad una sacca di pubblica sussistenza. Non sono per nulla convinto che il mio discorso abbia avuto interessati ascoltatori. Titolo della lettura proposta: “L’allievo di Prodi folgorato da Bossi”, quello inquisito, caso recente, per le disavventure della Banca Popolare di Milano. Uno specchio dell’Italia rampante.

Massimo Ponzellini è nato ricco, ma ricco veramente. Sua padre, Giulio, era il facoltoso imprenditore che sostenne a Bologna la nascita del Mulino e della scuola economica di Nino Andreatta prima e Romano Prodi poi. Sua madre è Marisa Castelli dell’Anonima Castelli, colosso dei mobili per ufficio. Poi si è sposato con Maria Segafredo della famiglia del caffè. “Da ragazzo avevo diverse Ferrari, adesso ne ho una sola”, spiegava un anno fa a un’attonita Daria Bignardi per descrivere la sobrietà raggiunta con i 60 anni. Corpulento, chiacchierone, fiero del suo dongiovannismo, Ponzellini merita un posto nel Pantheon dell’Italia in declino. Nato prodiano, è diventato un simbolo dello spirito del tempo berlusconiano. Al suo attivo alcuni record, tra cui quello di aver insegnato all’Università Bocconi senza essersi mai laureato. Un testimonial dell’Italia dove studiare non serve a niente se sei pieno di amicizie. Ed eccolo ventottenne, già amministratore delegato nell’azienda del padre, che però non è contento di lui e chiede al giovane professore Romano Prodi di fargli fare qualcosa di utile per sé e magari per il prossimo. Prodi, nominato ministro dell’Industria, se lo porta a Roma come assistente. È il novembre del 1978, Aldo Moro è stato ucciso dalle Br appena sei mesi prima, ma Ponzellini non si fa scrupolo di arrivare sotto il ministero, in via Veneto, sgommando in Ferrari. Segue poi Prodi all’Iri dove fa una certa carriera. Quando il Professore viene fatto fuori, e sostituito con l’andreottiano Franco Nobili, Ponzellini deve cambiare aria, e si piazza a Londra, nella nascente Bers, la banca europea per la rinascita economica dell’Est Europa. Ponzellini solennizza il momento comprandosi la Bentley, preferibile alla Rolls Royce, spiegherà in seguito, perché te la guidi da solo mentre la Rolls senza autista è improponibile. A Londra il giovane banchiere rileva un certo traffico. Si sposta poi alla Bei, Banca europea per gli investimenti, dove resta fino al 2003 come vice presidente e amministratore delegato. Come molti cervelli in fuga, Ponzellini prepara il ritorno in Italia. La sua rete di relazioni si infittisce. Nel 2001 è tra gli azionisti della nuova Unità riportata in edicola da Furio Colombo e Antonio Padellaro, e affianca la campagna elettorale di Francesco Rutelli candidato premier. Vince Berlusconi, e allora Ponzellini decide (e dichiara, perché l’uomo è schietto) che quelli come lui, che vogliono bene all’Italia, devono stare vicini a chi vuole il bene del Paese. Per esempio, Silvio Berlusconi. Per esempio Luigi Bisignani. Ma anche e soprattutto il ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Che nel 2002 gli affida la neonata Patrimonio Spa, che deve censire e dismettere gli immobili pubblici. Se oggi tra gli obiettivi del governo Monti c’è ancora il miraggio di vendere un po’ di beni demaniali il merito è tutto di Ponzellini che non ha combinato niente. Però il banchiere senza laurea piace a Tremonti, che lo promuove alla guida del Poligrafico dello Stato. Veloce nei movimenti, sia geografici che politici, Ponzellini comincia a fare acrobazie. Tra una barzelletta, un affare e un complimento alla bellezza di passaggio, diventa nel 2007 anche presidente dell’Impregilo, la più grande società di costruzioni italiana, in crisi nera dopo la gestione Romiti. Si affida a lui il gruppo Gavio, che è in ottimi rapporti con il presidente della provincia di Milano Filippo Penati. Ponzellini finisce indagato per un finanziamento a Faremetropoli, l’associazione di Penati, ma sostiene di non saperne niente. Da berlusconiano, il ragazzo vuole rimanere anche prodiano, tanto che il Professore si stufa e affida al portavoce Silvio Sircana una feroce lettera al Corriere della Sera: chiede di non scrivere più che il banchiere “è vicino” a Prodi, perché i due sono solo vicini di casa a Bologna, per cui “sarebbe più opportuno parlare di vicinato e non di vicinanza”. Ponzellini però è oltre. Riscopre le origini varesine della famiglia e diventa amico di Umberto Bossi, “persona per bene”. Fa l’accordo con la Cisl di Raffaele Bonanni e i dipendenti della Banca popolare di Milano lo eleggono presidente, nel 2009. Bossi dice che Ponzellini è un suo uomo. Alla domanda se preferisca la compagnia di Bossi o di Prodi, il ragazzaccio dice che è come chiedere se preferisci stare a casa con i genitori o al bar con gli amici. Prodi è il padre palloso, Bossi l’amico scoppiettante. Gusti. Però alla fine dalla Bpm lo cacciano e Ponzellini si trova sotto indagine per la storia che ieri l’ha portato agli arresti domiciliari. Ma ha di che consolarsi. Il presidente Napolitano proprio l’anno scorso l’ha fatto cavaliere del Lavoro. E perché no?

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