Quando mai lo Stato va alle feste
dei partiti politici? È una cosa impensabile in qualsiasi Paese democratico
occidentale. Alla festa di un partito, in questo caso il partito
all’opposizione (Pd), eventualmente, se invitato (il che negli altri Paesi
accade raramente), ci può andare il primo ministro del partito al governo, non
certo lo Stato. Il grossolano e inquietante equivoco (se di equivoco si tratta)
è dunque prima di tutto l’invito di un partito politico, il Pd (nella persona
dell’onorevole Fassino) che chiama lo Stato (nella persona del senatore
Schifani) alla propria festa annuale facendo credere ai cittadini che sta
invitando il rappresentante del partito avversario per “dialogare” con lui. Ma
è altrettanto inquietante che lo Stato (nella persona del senatore Schifani)
accetti come se egli fosse ancora un rappresentante del partito di governo che
andando alla festa per discutere con l’onorevole Fassino ricambia il fair play
del partito avversario. Ma il senatore Schifani non rappresenta il Partito
della libertà di Silvio Berlusconi, è lo Stato; e accettando l’invito così
equivocamente offertogli diventa portatore di un enorme conflitto di interessi
istituzionale, perché lascia intendere di essere effettivamente l’avversario.
Ora lo Stato italiano (nella persona del sen. Schifani) non può essere l’“avversario”
di nessun partito politico rappresentato in Parlamento, tantomeno quello di cui
è esponente l’onorevole Fassino. Il rappresentante dello Stato e il deputato di
un qualsiasi partito non hanno niente da dirsi e niente da discutere in
pubblico, né nelle piazze italiane, né in televisione. L’unico luogo loro
consentito è il Parlamento. In quella sede l’onorevole Fassino può fare al
rappresentante dello Stato tutte le domande e magari tutte le interpellanze che
desidera; solo in quella sede può dire allo Stato (nella persona del senatore
Schifani) le parole che desidera (affettuose o severe, questo è un problema
suo). È vero che il conflitto di interessi che Berlusconi con la sua persona ha
introdotto in Italia si è ormai esteso per contagio. Di un parlamentare non sai
più se è un deputato o un affarista, un onorevole o un banchiere, un portavoce
politico o un faccendiere, un imputato o un avvocato difensore, un esponente
dell’antimafia o un difensore dei mafiosi. Molti di loro ormai sono tre o
quattro persone allo stesso tempo. Ed è anche vero che l’equivoco (continuo a
chiamarlo così) provocato dall’onorevole Fassino nel proporsi quale
interlocutore festaiolo con lo Stato, rivela una stupefacente misconoscenza
delle più elementari regole istituzionali, facendoci domandare cosa costui ci
faccia in Parlamento da una vita. Ma nel caso dell’invito siamo al di là della
mancanza di una basica grammatica democratica, si è raggiunto qualcosa di
preoccupante. (…). Ma quello che è più preoccupante in questa equivoca vicenda
è l’intervento del presidente della Repubblica. Invece di far notare alla
seconda carica dello Stato che lo Stato non può andare a chiacchierare con chicchessia
a feste o sagre di paese, redarguisce aspramente la piazza perché ha mostrato
il suo dissenso. È imbarazzante dover ricordare che lo Stato andava alle feste
di partito negli ex Paesi comunisti perché lo Stato e il partito erano la stessa cosa. Oggi il colonnello Gheddafi,
che è lo Stato libico, partecipa alle feste di partito, perché quel partito
coincide con lo Stato libico; e in quelle piazze, è sicuro, non è contestato da
nessuno. Ma l’Italia (e l’Europa) non è l’ex Germania dell’Est o l’ex Ungheria.
E non è ancora la Libia. Se lo Stato italiano va in piazza a chiacchierare con
i politici, i cittadini possono risentirsi; è nel loro diritto. Del resto mi
risulta che il senatore Schifani non sia stato fischiato perché amico di
Berlusconi, ma perché rappresentante dello Stato, e la frase utilizzata era
“fuori la mafia dallo Stato”. Frase per altro plausibile, essendo noto anche ai
bambini che la mafia nello Stato, nel caso che attualmente non ci fosse, non si
esclude che ci sia stata più di una volta, come non si esclude che lo Stato
abbia stipulato con essa patti nefandi. Se ne sta occupando la magistratura,
perché se gli italiani aspettano che la verità della nostra tragica storia
venga dalla bocca dei politici, si possono mettere l’animo in pace. (…). Certo
ci sono luoghi e momenti in cui lo Stato sarebbe opportunamente presente o
addirittura ben visto nelle piazze italiane: all’anniversario dell’assassinio
del giudice Borsellino, all’anniversario della strage alla stazione di Bologna,
all’anniversario della strage di Piazza della Loggia di Brescia. Ma lì lo Stato
non si vede. Questo stato confusionale in cui lo Stato italiano si trova ci
induce a credere che più di una crisi della democrazia, di cui molto si parla,
si tratti di una crisi delle istituzioni e dello stesso Stato. E mi pare
possibile che un Paese in uno stato simile sia disponibile a qualsiasi avventura
e a qualsiasi salto nel buio. (…). La luce è al minimo, e a qualcuno potrebbe
venir voglia di spegnere l’interruttore. “Doveravatetutti” è un
richiamo costante alla memoria di ciò che è stato, quando distrattamente si
pensava e si faceva dell’altro. La distrazione colpevole dei tanti. In questo “doveravatetutti”,
che avete appena letto e che risale all’8 di settembre dell’anno 2010, il compianto
Antonio Tabucchi scriveva della allora – come lo è tuttora - seconda carica
dello Stato. Titolo del Suo pezzo: “Se
lo Stato è Schifani” – su “il Fatto Quotidiano” - , che ho ripreso in parte. Sulla insensibilità “istituzionale”
del nostro non si hanno dubbi; ne ha scritto sul quotidiano l’Unità Emanuele
Macaluso col titolo “La Costituzione
secondo Schifani” - a seguito della boutade del signor B - in questi
termini: Il Corriere, con un gran titolo, ci informa che il presidente del
Senato Renato Schifani «ritiene ammissibile presentare in aula il
semipresidenzialismo alla francese proposto dal Pdl attraverso un emendamento
alla riforma Costituzionale già all'esame di Palazzo Madama». Quindi, secondo
Schifani, basta un emendamento per cambiare la Repubblica parlamentare in
Repubblica semipresidenziale . I costituenti che discussero il tema lavorarono
mesi. Fra loro c'erano Costantino Mortati, Giorgio La Pira, Palmiro Togliatti,
Aldo Moro, Vezio Crisafulli, Bozzi, Petrassi, Dossetti, Calamandrei, Gaspare
Ambrosini, Vittorio Emanuele Orlando, Nitti, Paolo Rossi, Meuccio Ruini. Potrei
continuare ad elencare i grandi costituzionalisti e uomini politici che
affrontarono con competenza e rigore l'assetto politico-costituzionale da dare
allo Stato. E lo fecero con coerenza, per cui ciò che segue alla scelta del
sistema parlamentare ha una logica spiegazione. Se bisogna cambiare, occorre
cambiare tutto l'assetto dato dai costituenti. E chi può assolvere a questo
compito se non un'assemblea eletta dal popolo con il mandato di rifare la
Costituzione? Invece, dopo una penosa conferenza stampa di Berlusconi e Alfano,
i quali affannati da un tracollo elettorale fanno proposte che serviranno solo
per la prossima campagna elettorale, c'è chi, senza sapere di cosa si parla
(penso a Montezemolo e soci), si mettono in pista per correre dietro il
Cavaliere disarcionato. Ormai non mi stupisco di nulla: l'attuale scena
politica ci offre spettacoli e spettacolini di ogni genere. Ma che il
presidente del Senato comunichi agli italiani che con un emendamento a una
legge in discussione, in una assemblea di nominati, alla scadenza della
legislatura, si possa cambiare la forma della Stato, è enorme. Incredibile, ma
è avvenuto. La confusione è regnata sovrana; la nebbia non si è ancora
diradata. Si brancola. “Doveravatetutti” quando il grande,
compianto Antonio Tabucchi ne scriveva?
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
martedì 29 maggio 2012
lunedì 28 maggio 2012
UominieDio. 2 Delitti e castighi sul soglio di Pietro.
(…). Uno degli esempi più antichi
di violenza e tradimento consumati per la conquista del soglio di Pietro è
quello di cui fu protagonista Benedetto Caetani che costrinse il suo
predecessore Celestino V (Pietro da Morrone) ad abdicare per l´impazienza di
salire al trono dove regnerà col nome, famigerato, di Bonifacio VIII
(1235-1303). Il povero Celestino era un uomo umile e pio, certamente inadatto
all´incarico. Ma la violenza con la quale il futuro Bonifacio lo scalzò rimane
degna delle più sinistre tradizioni del potere. Dante infatti lo caccerà,
ancora vivo, all´inferno. Il periodo più fecondo dal punto di vista narrativo è
quello rinascimentale quando la corte di Alessandro VI Borgia divenne sede di
intrighi e di delitti commessi a volte alla stessa presenza del papa. Celebre
l´episodio di quando Cesare, figlio del papa e fratello di Lucrezia, assalì nei
corridoi vaticani un tal Pedro Caldes, detto Perotto, 22 anni, primo cameriere
del pontefice (…). Perotto si tratteneva affettuosamente con Lucrezia cosa che
rischiava di compromettere il matrimonio al quale la bellissima donna era stata
destinata. Un giorno che Perotto passava per un corridoio s´imbatté casualmente
in Cesare. Intuì da uno sguardo ciò che stava per accadere e cominciò a correre
gridando a perdifiato, inseguito dall´altro che aveva estratto il pugnale. La
corsa ebbe termine nella sala delle udienze dove Perotto si gettò ai piedi del
pontefice implorando protezione. Non bastò. Cesare si avventò su di lui
trafiggendolo con tale impeto che “il sangue saltò in faccia al papa”
macchiandogli di rosso la bianca tonaca. Non solo delitti ma anche orge
caratterizzavano in quegli anni la corte. Preti e cardinali mantenevano una o
più concubine “a maggior gloria di Dio”, come scrive sarcastico lo storico
Infessura, mentre il maestro di cerimonie pontificio Jacob Burchkardt nota che
i monasteri di donne erano ormai “quasi tutti lupanari” poco o nulla
distinguendo le religiose dalle “meretrices”. Cronache vivacissime ha lasciato
il protonotario apostolico Johannes Burchard. Racconta ad esempio che una sera,
a una delle consuete feste date dal papa: «Presero parte cinquanta meretrici
oneste, di quelle che si chiamano cortigiane e non sono della feccia del
popolo. Dopo la cena esse danzarono con i servi e con altri che vi erano, da
principio coi loro abiti indosso, poi nude». (…). Per venire ad anni a noi
vicini, una vasta eco ha sollevato una mossa assai ambigua dell´allora
segretario di Stato Eugenio Pacelli. Nel 1939, papa Pio XI avrebbe voluto
pronunciare un discorso nel decennale del Concordato dove tra l´altro avrebbe
denunciato le violenze del regime fascista e la persecuzione razziale dei
nazisti contro gli ebrei. Alla vigilia dell´importante allocuzione papa Ratti
venne però a morte e Pacelli, che sarebbe stato suo successore, fece
prontamente sparire il discorso avendo in mente un diverso tipo di rapporti con
le due dittature. Divenuto papa a sua volta col nome di Pio XII, lo dimostrerà.
Intrighi e tradimenti all´ombra del trono di Pietro sono tutti accomunati da
elementi rimasti invariati nel tempo: ritrosia a dare informazioni e
addirittura a collaborare ad eventuali indagini, ostinati silenzi a costo di
alimentare le ipotesi peggiori.Se n´è avuta una prova in occasione della morte,
altrettanto repentina, di Giovanni Paolo I, papa Luciani. Ancora una volta
l´evento si verificò alla vigilia di una decisione importante con la quale il
papa avrebbe riorganizzato la famigerata banca vaticana, in sigla Ior. Così
oscure le circostanze dell´evento che i media anglo-sassoni avanzarono
apertamente l´ipotesi di un assassinio. L´autopsia avrebbe probabilmente fugato
le voci ma le gerarchie vaticane la rifiutarono preferendo mantenere un
silenzio che le ha ulteriormente alimentate. Il caso più grave di reticenza si
è però avuto quando, la sera del 4 maggio 1998, tre cadaveri vennero trovati in
una palazzina a pochi metri dagli appartamenti pontifici. Il colonnello Alois
Estermann, 44 anni, comandante delle “guardie svizzere”; sua moglie, Gladys
Meza Romero di origine venezuelana; il vice-caporale Cédric Tornay, nato a
Monthey (Svizzera), 24 anni. Poche ore dopo il portavoce vaticano Joaquin
Navarro Valls dette ai giornalisti questa versione: il caporale, in un accesso
di collera incontrollata, aveva ucciso il colonnello e sua moglie per poi
togliersi la vita. Invano l´avvocato francese Luc Brossolet ha fatto eseguire
(in Svizzera) perizie che dimostrano l´incongruenza grossolana di quella
versione. Da allora non è più stata cambiata. Avete appena finito di
leggere l’interessante narrazione di quella che è stata la “storia” della
chiesa di Roma nei secoli. Alcuni tratti di quella “storia” in verità, ma che
la dicono lunga di come una religione, fattasi chiesa e stato al contempo,
abbia abbandonato gli insegnamenti dell’uomo di Nazareth per dedicarsi, anche nella
sua struttura centrale, ad altre ignominiose imprese. Lo ha raccontato, come
sempre magistralmente, lo scrittore e giornalista Corrado Augias nel Suo pezzo “Delitti e castighi sul soglio di Pietro”
pubblicato sul quotidiano la Repubblica, che ho ripreso solo in parte. Nello
stesso numero del quotidiano ha dichiarato il teologo Hans Kung in
un’intervista ad Andrea Tarquini: (…). «…la struttura e l´organizzazione della
Curia romana cerca facilmente ma invano di ingannarci, di nascondere il
fatto-chiave: che il Vaticano nel suo nocciolo è restato ancora oggi una Corte.
Una Corte al cui vertice siede ancora un regnante assoluto, con costumi e riti
medievali, barocchi e a volte moderni e tradizioni cristallizzate,
consuetudini. Nel suo cuore il Vaticano è rimasto una società di Corte,
dominata e segnata dal celibato maschile, che si governa con un suo proprio
codice di etichette e atmosfere. E quanto più ti avvicini al principe regnante
salendo nella carriera ecclesiastica, tanto più in prima linea non vale e non
conta più la tua competenza, la tua forza di carattere, le tue capacità e
talenti, bensì conta che tu abbia un carattere duttile con una capacità di
adattarsi soprattutto ai voleri del regnante. È lui solo, il regnante, a
stabilire se tu sei persona grata o invece persona non grata». (…). È
la storia di sempre, che ha una immutabilità che non è consentita ad alcuna
altra creazione degli umani. Sarà che il dio che ispira e guida quella chiesa-stato
si sia distratto. Trova ben altra spiegazione il professor Umberto Galimberti
nel Suo Perché la ricchezza non é più
peccato?, pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano la Repubblica: È più
facile che un cammello entri nella cruna di un ago che un ricco in
paradiso" (Matteo, 19, 24). Che significa essere cristiani oggi?
Condividere una fede che ha nel magistero ecclesiastico il suo punto di
riferimento dottrinale ed etico. Questa dottrina e questa etica si ispirano al
Vangelo che il cristianesimo assume come suo Libro fondativo? (…). La Chiesa
perse il suo contatto col Vangelo quando, con il declino dell'Impero Romano,
prese a governare il mondo, la "città terrena", per usare le parole
di Agostino, dove nobiltà e alto clero si dividevano le ricchezze, e i poveri,
che erano la gran massa della popolazione, restavano in attesa della promessa
"città celeste" a compenso delle sofferenze patite quaggiù. Questa
situazione durò fino alla Rivoluzione francese del XVIII secolo che pronunciò
quelle tre parole: libertà, uguaglianza e fraternità. Dalla libertà nacque
nell'Ottocento il pensiero fondamentalmente anticlericale, dall'uguaglianza
nacque il socialismo nella sua versione prima riformista e poi marxista. Le due
correnti di pensiero divennero due pratiche politiche entrambe avversate dalla
Chiesa. Della fraternità, che è poi la versione laica del precetto evangelico
della carità, si persero le tracce. Nell'America latina ci fu nel secolo scorso
un tentativo di dare attenzione a questo comandamento con la teologia della
liberazione, che però fu condannata dalla Chiesa. La dottrina sociale
cattolica, inaugurata da Leone XIII con l'enciclica Rerum Novarum del 1891, non
contiene alcuna condanna della ricchezza, ma si limita ad auspicare una
riduzione dei conflitti di classe in vista di una migliore pace sociale. E il
Vangelo? E i moniti di Gesù? Già il grande inquisitore di Dostoevskij,
incontrando Gesù tornato sulla terra per richiamare col suo silenzio il
Grande Inquisitore al dettato evangelico, questi gli fa presente che, se non
fosse stato per la Chiesa, di Gesù nessuno ne porterebbe memoria. La Storia ha
di fatto esautorato il Libro. È la ricerca della ricchezza terrena,
come sempre nella storia degli umani, a guidare i passi dei singoli e delle
comunità. Anche di quelle ispirate dall’alto, ma che con facilità sorprendente
riescono a tacitare la “vocina” flebile dell’impertinente “grillo
parlante”. Ha dichiarato il cardinale Carlo Maria Martini sulla vicenda
del “corvo”
del Vaticano: “La Chiesa perda i denari ma non perda se stessa”. Ecco, per
l’appunto: i “denari”, la ricchezza di questo mondo. Completo la narrazione
di Johannes Burchard: Terminata la cena, i candelieri che erano
sulla mensa furono posati a terra, e tra i candelieri furono gettate delle
castagne che le cortigiane nude raccoglievano muovendosi carponi, a quattro
zampe. Il Papa, il duca e Lucrezia erano presenti e osservavano. Infine furono
esposti mantelli di seta, calzature, berrette e altri oggetti, da assegnare in
premio a coloro che avessero conosciuto carnalmente più volte le dette
cortigiane, ed esse, nella medesima sala, furono pubblicamente godute.
domenica 27 maggio 2012
Storiedallitalia. 14 Abuso di potere.
È tornata sul proscenio del bel
paese la nobile e benemerita compagnia della “commedia dell’arte all’italiana”.
All’italiana. Sono i tardi seguaci di Melpemone e Talìa. Che all’italiana
divagano, saltimbancano, con stupefacente facilità, dalla prima, che è la musa
della tragedia, alla seconda, che è la musa della commedia. Della commedia
all’italiana però, nella variante della farsa. Con l’ultima boutade del signor
B, della benemerita corporation B&G. Con l’epocale scelta resa nota al
popolo colto ed incolto di fare del bel paese un paese del presidente. Come
dire: sino a che il dottore “studìa”, il malato l’è bello e
morto. Il malato in questione è il bel paese. E così ci si ritroverà, alla
primavera dell’anno 2013, con il “porcellum” come legge elettorale. Ché
del resto sta bene assai alla corporation B&G, con i loro partiti, partiti
tra virgolette, padronale o personale. Entro i quali si entra o dai quali si
esce secondo l’umore tragicomico del duo B&G. Intanto avviene che nel bel
paese si trasformi la Carta sotto il naso dell’ignaro uomo della strada. Anzi,
senza che all’uomo della strada se ne sia dato un minimo di sapere. Scrive
Stefano Rodotà sul quotidiano la Repubblica un pezzo che ha tutta l’aria di un “appello
all’attenzione democratica”. Ché “vigilanza” sarebbe stato dire
troppo, come in una condizione pre-rivoluzionaria o golpista. Titolo del
pezzo/appello “La maschera del
populista”: (…). Stiamo vivendo una fase costituente senza averne adeguata
consapevolezza, senza la necessaria discussione pubblica, senza la capacità di
guardare oltre l´emergenza. Per comprendere quel che sta accadendo, è un intero
contesto a dover essere considerato. È stato modificato l´articolo 81 della
Costituzione, introducendo il pareggio di bilancio con pregiudizio grave per la
tutela dei diritti sociali e per la stessa azione di governo. Un decreto legge
dell´agosto dell´anno scorso e uno del gennaio di quest´anno hanno
illegittimamente messo tra parentesi l´articolo 41. E il Senato sta discutendo
una revisione costituzionale che incide profondamente su Parlamento, governo,
ruolo del presidente della Repubblica. Non siamo di fronte alla buona
“manutenzione” della Costituzione, ma a modifiche sostanziali della forma di
Stato e di governo. Le poche voci critiche non sono ascoltate, vengono
sopraffatte da richiami all´emergenza così perentori che ogni invito alla
riflessione configura il delitto di lesa economia. In tutto questo non è
arbitrario cogliere un altro segno della incapacità delle forze politiche di
intrattenere un giusto rapporto con i cittadini che, negli ultimi tempi, sono
tornati a guardare con fiducia alla Costituzione e non possono essere messi di
fronte a fatti compiuti. Proprio perché s´invocano condivisione e coesione, non
si può poi procedere come se la revisione costituzionale fosse affare di pochi,
da chiudere negli spazi ristretti d´una commissione del Senato, senza che i
partiti promuovano essi stessi quella indispensabile discussione pubblica che,
finora, è mancata. E invece siamo di nuovo a un continuo cambiare le carte in
tavola, ai segnali di fumo tra oligarchie, alla considerazione della
Costituzione come oggetto manipolabile secondo le convenienze.(…). Quanto
basta per dire della scarsa considerazione che la “casta” della politica ha
del cosiddetto “uomo della strada”. Che concorre a formare la pubblica
opinione. Che risulta, secondo i populisti di sempre, essere il “popolo
sovrano”. Sovrano di cosa? Sarei tentato di dire che la “casta”
si stia rendendo responsabile di quell’”abuso di potere” del quale ha scritto, molto dottamente, Nadia
Urbinati in una Sua riflessione del 4 di novembre dell’anno 2010 col titolo,
per l’appunto, di “Abuso di potere”,
riflessione pubblicata sul quotidiano la Repubblica che di seguito trascrivo in
parte. Giusto per non far cadere nel vuoto il pezzo/appello di Stefano Rodotà. Per
rifletterci con forza e serenità.
(…). L'abuso di potere è un fatto
gravissimo perché distrugge una comunità politica trasformando i cittadini in
sudditi, facendone oggetto di raggiro, mettendoli nella condizione di non
sapere e quindi di non poter giudicare con competenza, lasciando chi governa
nella straordinaria libertà di fare ciò che vuole. L'abuso mina alla radice la
fiducia senza la quale non si danno relazioni politiche in una società fondata
sul diritto. Il liberalismo ha colto al meglio questo problema, poiché ha da un
lato assunto che il potere è necessario, e dall'altro che il suo esercizio
stimola negli uomini la propensione a non averne mai abbastanza e quindi ad
abusarne. Il potere alimenta la passione per il potere con un'escalation fatale
verso il monopolio. Le costituzioni moderne partono tutte dalla premessa che ci
si debba sempre attendere la violazione e l'abuso da parte di chi esercita il
potere e per questo istituzionalizzano le funzioni pubbliche e stringono il
potere politico dentro norme rigide e chiare. Da questa concezione liberale ha
preso forma l'idea che l'unica legittimità che il potere politico può acquisire
è quella che viene dal rispetto delle garanzie di libertà individuale e,
quindi, dalla limitazione e dal controllo del potere (limitazione nella durata
e nell'intensità grazie alle elezioni, ai controlli di costituzionalità e alla
divisione dei poteri) attraverso vincoli che chi governa non può manomettere.
Violare i limiti che la difesa di questa libertà impone equivale a mettersi
fuori della legge (un fatto di sedizione che indusse John Locke a giustificare
la disobbedienza e la ribellione, aggiungendo con toni sconsolati che purtroppo
i popoli hanno più capacità a subire gli abusi che a ribellarsi ad essi). Il
potere che opera d'arbitrio non è più potere politico, quindi, ma é dominio
assoluto e dunque nuda forza che fa di chi lo subisce un servo a tutti gli
effetti. La differenza fra dominio e governo sta tutta qui. (…). In una
democrazia costituzionale il Presidente del Consiglio e i ministri (il potere
esecutivo) ricevono legittimità dal patto fondativo che detta le regole della
loro designazione e della loro durata e, se necessario, della loro destituzione
per la possibilità di essere sottoposti alla giustizia ordinaria "per i
reati commessi nell'esercizio delle loro funzioni" in seguito
all'autorizzazione del Senato della Repubblica o della Camera dei deputati
(Art. 96, il quale nella formulazione originaria del 1947, poi sottoposta a
revisione nel 1989, era molto più severo e prevedeva la possibilitá della messa
in "stato d'accusa", una formula simile all'impeachment americano).
Queste regole e questi limiti definiscono quello politico come agire pubblico,
stabilendo che esso appartiene alla comunità politica e non a chi lo esercita,
il quale non può sostituire il suo personale giudizio su come relazionarsi alle
istituzioni a quello definito dalla legge, dalla quale egli dipende. L'abuso
blocca proprio la dimensione pubblica del potere rendendone l'esercizio un
fatto tutto privato; è a questo punto che il potere si fa nuda forza,
discrezione nella mani di chi lo maneggia, come strumento di privilegio. Il
governante che viola le norme che regolano il suo operato si impossessa del
potere e lo piega ai suoi interessi.
venerdì 25 maggio 2012
Storiedallitalia. 13 Cronache di ordinaria furbizia.
Quadro primo. Da Il
sacrificio con il trucco di Curzio Maltese, pubblicato sul quotidiano la
Repubblica.
(…). Il primo trucco consiste nel
creare una commissione ad hoc per controllare le spese dei partiti, togliendo
il compito all’organo naturale di controllo, la Corte dei Conti. Si tratta, per
cominciare, di un espediente anticostituzionale, come ha rilevato la stessa Corte in una lettera letta in
Parlamento dal radicale Maurizio Turco. In secondo luogo, è un modo di fingere di non capire che la causa
principale di scandalo non è solo o
tanto l’entità del danaro pubblico
ricevuto, ma il modo in cui è stato impiegato dai partiti, dalla Margherita alla Lega. I
controlli dunque andrebbero aumentati al
massimo livello e non dirottati verso
una commissione di dubbia competenza e
autorità. Il secondo trucco
consiste nella trovata di compensare il
dimezzamento dei fondi pubblici rendendo
molto convenienti i finanziamenti privati, attraverso una serie di favori fiscali. In pratica, da
domani chi darà soldi ai partiti godrà di esenzioni maggiori di chi oggi offre
danaro a una onlus, a un’associazione di volontari o alla ricerca contro il
cancro. Si pongono alcune domande
(retoriche). Perché, i partiti sono più importanti della lotta ai tumori? E chi ne approfitterà,
i militanti, ormai in via di estinzione,
oppure i soliti noti, le banche, i
costruttori, gli appaltatori pubblici? In cambio di che cosa? Siamo, come si
vede, a un passo dal legalizzare la
mazzetta. Fra i battimani del populismo
“anticasta”. Un terzo trucco, (…) per cui i soldi andrebbero soltanto ai
partiti dotati di uno statuto. Ovvero
tutti, tranne uno, (…). (…). Con maggiore onestà, i leader dei partiti
del Parlamento dovrebbe occuparsi di
quello che c’è scritto nei loro statuti,
confrontarlo con la Costituzione e
notare alcune contraddizioni. La più colossale è che soltanto in Italia i partiti sono
associazioni private e non soggetti di
diritto pubblico, com’è nel resto d’Europa.
Il vero problema sta proprio qui, anche se
nessuno lo dice. Perché non conviene a nessuno sollevare la questione, non alla nomenclatura
ufficiale, ma neppure ai moralisti Di
Pietro e Grillo, che sono proprietari
dei rispettivi partiti. (…). In quanto associazioni private, i partiti possono
disporre del danaro che ricevono, dal
pubblico o dal privato, come vogliono,
senza controlli e senza incorrere in
reati. Con questo scudo legale sarà infatti assai complicato, nei processi per le vicende della Margherita
e della Lega, provare i reati di
appropriazione indebita e truffa ai
danni dello Stato, perfino sulla «paghetta» ai
figli di Bossi. Esiste anzi il rischio concreto che tutto finisca in nulla e i corrotti festeggino un’altra
finta assoluzione. (…). L’autentica riforma oggi non è abolire il
finanziamento pubblico, che esiste in
molte democrazie, sia pure con cifre più
ridotte e controlli assai maggiori, ma
cambiare lo status giuridico dei partiti. L’Unione europea lo ha chiesto con una norma del 2004,
formalmente accolta dal Parlamento
italiano nel 2006, mai applicata. A
parte questo, ci sarebbe la vecchia cara
Costituzione con l’articolo 49, dove i partiti sono chiamati a concorrere alla politica nazionale “con
metodo democratico”. Ora, quale metodo
democratico applicano i nostri partiti
padronali, blindati all’esterno come
associazioni private? Certo sostenere che bisogna cambiare lo status giuridico non è adatto a
strappare l’applauso come dire «basta soldi ai partiti». Il gioco del populismo è sempre lo stesso: dare al
popolo soluzioni semplici. Che con il
tempo naturalmente si riveleranno
catastrofiche. (…). In questo
modo si conserva il terreno sul quale è cresciuta in questi anni la mala pianta della corruzione.
Quadro secondo. Da Il
peccato originale dello scandalo Lusi di Gad Lerner, pubblicato sul
quotidiano la Repubblica del 6 di febbraio dell’anno 2012.
Ora che lo scandalo dei
bilanci-fantasma le ha rese evidenti, sarà bene ricordare le indicibili
motivazioni patrimoniali che suggerirono nel 2006 ai dirigenti della Margherita
e della Quercia la scelta autolesionistica di presentarsi uniti alla Camera, ma
separati al Senato, a costo di disorientare gli elettori e mutilare così la
vittoria del centrosinistra: lo fecero per ragioni di cassa. L´unità del
nascente Pd, ma soprattutto il progetto di rinnovamento del Paese dopo una
fallimentare legislatura berlusconiana, furono sacrificati al vil denaro. Vil
denaro ritenuto indispensabile alla conservazione di strutture organizzative
separate. Come andò a finire, lo ricordiamo bene: l´astruso marchingegno dei
simboli differenziati fra le due schede, determinò com´era prevedibile un calo
di voti al Senato, trasformando l´aula di Palazzo Madama in un campo minato per
la risicata maggioranza di centrosinistra. Il governo Prodi nasceva già
azzoppato e durò solo due anni. Ad approfittare dell´insperato regalo fu
Berlusconi che sopravvisse alla probabile fine del suo ciclo politico e nel
2008 ritornò al governo per tre lunghi, inutili anni. Costati assai cari al
Paese. Nessuno seppe spiegarci perché la lista unitaria dell´Ulivo dovesse
andar bene alla Camera ma non al Senato, contro ogni logica di marketing
elettorale oltre che di linea politica. “Tanto vinciamo lo stesso”, era la miope
risposta fornita in privato dai tesorieri Luigi Lusi e Ugo Sposetti a chi gli
chiedeva di destinare maggiori risorse alla campagna unitaria. E difatti,
l´anno successivo, lo stesso Partito democratico fu concepito (con esiziale
ritardo) in regime di “separazione dei beni”: i partiti fondatori venivano
“sospesi” e non disciolti, di modo che i rispettivi dirigenti potessero
usufruire fino a oggi non di due, ma addirittura di tre bilanci separati. (…). Non
basta che la magistratura faccia giustizia dell´appropriazione indebita di
tredici milioni perpetrata da Luigi Lusi (eventualmente con il concorso di
altri) ai danni della fu Margherita. Gli elettori del Partito democratico hanno
il diritto di sapere se le risorse accantonate grazie ai simboli dei partiti
“sospesi” vengano oggi usufruite con una discrezionalità che, seppure non
determini infrazioni di legge, risulta gravemente impropria. Opaca. Nascosta
nelle pieghe di bilanci alimentati in ogni caso da troppo denaro pubblico.
Naturalmente ciò vale anche per i partiti della destra; quanti cittadini sono
al corrente della lucrosa sopravvivenza di Forza Italia e Alleanza nazionale
con i loro tesoretti scaturiti dai rimborsi elettorali? E i fondi esteri
costituiti dal “cerchio magico” della Lega Nord non sono forse la
rappresentazione plastica di come l´attuale normativa favorisca la creazione di
invisibili centri di potere, detentori di risorse che assegnano un controllo
sempiterno a pochi capipartito? Che dire, poi, dei partitini personali in cui
il denaro pubblico è soggetto a una gestione para-familiare? La somma micidiale
fra la legge vigente sui rimborsi elettorali e la legge “porcellum” che riserva
a pochi oligarchi il potere di scelta sulle candidature, sembra fatta apposta
per screditare la nostra democrazia parlamentare. (…). La storia non si fa con
i “se”, ma resta l´amarezza per quella scelta del 2006 che tanti danni ha
procurato all´Italia; senza la quale forse ci saremmo risparmiati l´ultimo
colpo di coda del regime berlusconiano. La perpetuazione di strutture
rispettabili ma obsolete, funzionali solo al mantenimento di centrali di potere
correntizio, fu fatta letteralmente pagare ai cittadini. Il denaro si è
mangiato la politica?
Al tempo – febbraio 2012 - ben
poca cosa si sapeva dello scandalo delle “paghette” della Lega. E delle
lauree del figli del Bossi. E di tutto il resto. È un paese strano e disastrato
il nostro, nel quale si grida spesso e volentieri “al lupo al lupo”, anzi “al
ladro al ladro”, senza che ne sortisca cosa nuova alcuna. È che in
tanti ambirebbero a trovarsi dalla parte del “ladro”. Colpa della
Controriforma, che ha fatto dei cittadini del bel paese solamente degli
impenitenti “peccatori” e non dei “rei”?
Ché tanto, con la devozione dovuta, il lavaggio dei peccati è assicurato al
chiuso del confessionale. E per il tale motivo si torna, impenitentemente, a
peccare.
giovedì 24 maggio 2012
Cosecosì. 20 Una sinistra a misura d’uomo.
La notte, il giorno. La verità,
la menzogna. La ricchezza, la povertà. Vivere, morire. Come nel mondo fisico,
così nella vita degli umani gli opposti è come se si inseguissero in una gara
senza fine. E se gli opposti stanno scritti nelle cose proprie della natura non
di meno essi fanno parte della natura propria degli umani. E questo
inseguimento continuo, con un arretrare ed un avanzare, ha fatto la Storia
degli umani. È stato forse il tentativo di annullarli, gli opposti, di
disinnescarli, che ha condotto allo smarrimento dell’oggi ed alla diffusione di
quella indistinta melassa sociale – la poltiglia del sociologo De Rita - che ha
fatto da comodo paravento affinché si realizzassero le politiche proprie di una
“lotta
di classe” all’incontrario, all’interno della quale i privilegiati hanno
ridotto e riducono diritti e conquiste di quella parte della società meno
tutelata. Ha scritto Alain Touraine – MicroMega n° 8/2011 pag. 33 - che “l’era
della democrazia sociale trionfante si è conclusa da tempo, e per diverse
ragioni: la più evidente è l’affermarsi, a partire dagli anni Settanta, di un
neoliberismo che ha indebolito il potere degli Stati, incoraggiato la
globalizzazione dell’economia e soprattutto delle Borse internazionali,
costretto i governi a fare marcia indietro su molte conquiste della politica
sociale”. Questo ultimo tentativo di depredare dei diritti e delle
conquiste le classi meno abbienti è tuttora in corso, non ha perduto vigore e
ad esso necessita contrapporre argini robusti affinché conquiste sociali
divenute irrinunciabili non abbiano a finire nel libro dei ricordi. Ma il punto
è anche altro. È che la proclamazione a tutto campo della fine delle ideologie
ha contribuito a disinnescare, ma solo apparentemente, quel rincorrersi degli
opposti che da sempre ha determinato le cose proprie della vita degli umani e della
politica stessa, che rappresenta l’essenza più alta del processo di
umanizzazione. Destra, sinistra. Per alcuni un falso problema. I risultati
stanno sotto gli occhi di tutti. Ha scritto – alla pag. 75 – del numero della
rivista MicroMega prima citato Cinzia Sciuto: “Le grandi utopie collettive
erano possibili perché gli individui si riconoscevano nei gruppi sociali di
riferimento. All’interno della classe, per fare un esempio, l’individuo era
integro e poteva dunque proiettare se stesso in un progetto di emancipazione
collettiva. Oggi l’identità individuale è messa duramente alla prova e, senza
una definita consapevolezza di sé, è impossibile proiettarsi in un progetto
comune: comune a chi? Chi è in grado oggi di individuare i propri compagni?
Possiamo tutt’al più cercare dei compagni transitori, qualcuno con cui
condividere singole battaglie o precisi progetti, con cui fare un pezzo di
strada insieme, difficile trovare qualcuno con cui condividere il proprio
destino”. Si impone, alle forze della sinistra, ridare quella “identità
individuale” al suo popolo
poiché “senza una definita consapevolezza di sé, è impossibile proiettarsi in
un progetto comune”. Impegno improbo, ma che vale la pena d’affrontare
a rischio di un grave e rovinoso arretramento sul piano della difesa, ad
oltranza, dei diritti e delle conquiste sociali conseguite dalle classi sociali
meno abbienti. Della “destra” e della “sinistra”
ne ha scritto, magistralmente, sul quotidiano la Repubblica – il 21 di dicembre
dell’anno 2011 - Alain Touraine col titolo Una
sinistra a misura d’uomo. Diritti e valori, la politica è questa”. Di
seguito lo trascrivo in parte.
Il teorema da tempo accettato
secondo cui il centro della vita sociale è il sistema economico, cioè la
stretta corrispondenza delle categorie della vita economica con quelle della
vita sociale, non è più accettabile. L´economia si è separata dalla vita
sociale: è questo il significato profondo della globalizzazione. Il mondo delle
istituzioni sociali, politiche e giuridiche sta crollando. La costruzione dei
giudizi sociali non può più avere altri fondamenti se non morali. Qual è il
posto del lavoro nella vita individuale e collettiva: questo è il tema che
meglio definisce lo spirito di una concezione “morale” della vita sociale;
l´unione di una politica di questo genere con la repressione delle condizioni
economiche illegali trasformerebbe in modo fondamentale la vita sociale di
tutti. (…). Non esiste (…) altra sinistra se non quella che prende la parola o
se ne impadronisce, come già avevano fatto i movimenti pionieristici degli anni
Sessanta del secolo scorso, soprattutto negli Stati Uniti e in Francia.
Sinistra o destra sono prima di tutto delle concezioni della società, delle
definizioni del Bene da difendere e del Male da combattere. La sinistra o la
destra si possono definire anche a livello sociale dal punto di vista delle
categorie sociali a cui appartengono gli elettori o i simpatizzanti, ma la
posta in gioco e la natura del conflitto non si possono più definire in termini
sociali. Non sono più i contadini poveri o gli operai della grande industria a
costituire la sinistra. Lo vediamo tutti i giorni, più o meno chiaramente a
seconda del paese che osserviamo e delle categorie che analizziamo. Ma noi
abbiamo bisogno di identificare le nuove categorie che condividono la visione
appena evocata. Dobbiamo individuare negli ambiti principali della vita sociale
– produzione, distribuzione, finanziamento, educazione, salute, occupazione del
territorio, politica culturale eccetera – le scelte che permettono di collocare
la destra e la sinistra e di contrapporre l´una all´altra, compito immenso ma
che è tuttavia indispensabile almeno iniziare a intraprendere. L´elemento di
definizione che per primo viene alla mente è che la destra pensa in termini di
oggetti e di rapporti tra gli oggetti, e che definisce gli attori tramite le
loro situazioni oggettive. (…). Ciò che definisce, all´opposto, la sinistra, è
che pensa e agisce in termini di diritti. Il populismo di destra, che lamenta
le deplorevoli condizioni dell´infanzia, dei poveri, delle donne e dei
prigionieri è sempre esistito. Ma il pensiero e l´azione diventano di sinistra
solo quando il pensiero si interroga sulle ragioni della disuguaglianza, o
della dipendenza e della violenza, cercando nelle vittime i possibili
protagonisti di volontà e desiderio d´azione. (…). Le nostre società sono
ancora in effetti, (…), in stragrande maggioranza di destra. Se ciò che meglio
definisce la sinistra è il giudizio sulla condizione della donna, la destra si
definisce meglio per l´importanza attribuita all´identità, che si traduce nella
paura delle minoranze, soprattutto quelle di recente formazione. Le politiche
dell´identità sono politiche di destra. Il che non significa che alcuni
orientamenti di sinistra non possano identificarsi con un ideale nazionale o
religioso, cosa ovviamente innegabile. Questo è il cammino che occorre seguire
per dare un contenuto reale alle idee di destra e di sinistra. (…).
martedì 22 maggio 2012
Storiedallitalia. 12 B&G e l’esilio della politica.
Ho ritrovato, tra i miei preziosi
ritagli di quotidiani e settimanali, un articolo di Guido Carandini che ha per
titolo L’esilio della politica.
L’articolo è stato pubblicato sul quotidiano la Repubblica il 26 di agosto
dell’anno 2011. Di seguito lo trascrivo in parte. Ho avuto premura a
rintracciarlo poiché ricordavo di quel titolo che la dice lunga anche sugli
aspetti meno nobili della politica “esiliata” del bel paese. È pur vero
che, con il Suo preziosissimo articolo, il valente saggista solleva lo sguardo
in un ambito che abbraccia l’intero scenario planetario avvolto ancor’oggi dalla
“crisi”
che è sistemica e non più congiunturale e che dura oramai da un lustro
abbondante. Ma me ne ha dato lo spunto, per il ricercarlo tra i miei ritagli,
gli ultimi avvenimenti elettorali nel bel paese. Ve ne traccio lo scenario. Di
un giovane cittadino-elettore che mi raggiunge per occupare un posto a me
vicino. E della sua sincera esultanza per gli imprevisti risultati elettorali
delle amministrative di questa primavera. Ho avuto timore di infastidirlo, con
le mie osservazioni, anche perché non mi andava di guastargli il godimento
indottogli dai risultati di quei ballottaggi. Ma mi è venuto di pensare, ed
amaramente, che ancora nel circolo profondo del bel paese continuano ad
esistere le “tossine” che il quindicennio e passa del signor B ha inoculato
nelle sue arterie profonde. Se ne pagano ancor’oggi le conseguenze. Poiché è
fuor di ogni dubbio che B&G siano uomini dello spettacolo, uomini della
televisione. E come tali interpretano i ruoli che si sono assegnati, da soli.
Ambedue prediligono una politica di declamazioni, di effetti mediatici, di
parole gridate; il primo osservando ossessivamente una precettistica che gli
imponeva (ed ancora gli impone?) una cura del proprio corpo da ostentare ai
sudditi-elettori per indurre negli stessi una venerazione quasi della sua “carcassa”
di vivente. L’altro, sapientemente, se ne discosta, e propone, in sostituzione
di quell’arte mediatica, un far “politica” che si appella alle smorfie, allo
strabuzzamento degli occhi, ai sollazzi, prendendo impietosamente di mira,
della corporalità degli avversari, i difetti e le anomalie che ai suoi occhi di
guru della televisione rivestono il ruolo di gravi manchevolezze. È quindi tutto
un fiorire di insulti e di derisioni di tutto ciò che riguarda gli aspetti
fisici degli avversari politici. Ma B&G sono accomunati, peraltro, dalla
concezione che essi hanno delle loro improvvisate formazioni politiche; un “partito”
del padrone per il signor B, un “partito” personale per il signor G. Ne
discende l’idea di un fare “politica” per proclami, emessi in solitudine, e
senza confronto alcuno. Non è ammesso il contraddittorio. È “l’esilio
della politica”, per l’appunto. Ecco perché mi premesse tanto ritrovare
il bel pezzo di Guido Carandini. Avverrà anche per il signor G quanto è di già
avvenuto per il signor B? Non posseggo una sfera di cristallo. Nella
circostanza andrà molto a “pesare” lo svolgersi della “crisi” ed il suo esito
per il quale i tempi non sono ancora maturi. B&G sono e restano uomini
della televisione poiché ambedue provengono da quel mondo dell’effimero.
B&G, in forme e ruoli diversi, hanno concorso e concorrono a che la
politica venga “esiliata” nel bel paese. La politica è altro; innanzitutto
partecipazione e decisioni condivise. E B&G, all’interno dei loro “partiti”,
“padronale” l’uno, “personale” l’altro, poco spazio hanno concesso e concedono
alla partecipazione che non sia di un rigido asservimento alle idee di un “primus
super partes” di “pecorelliana” memoria. Tutto ciò avviene in una
“provincia” profonda e smarrita di quel pianeta chiamato Terra.
Quella che viene spacciata per
una ciclica crisi economica e finanziaria è invece qualcosa di assai più serio
e storicamente inedito. È in realtà l´esito di una vera e propria
controrivoluzione del capitale che, divenuto globale, ha ridotto a brandelli i
poteri che le rivoluzioni dei secoli scorsi avevano conferito alle democrazie
nazionali, cioè i poteri di controllo sul mondo degli affari e la forza di
imporre agli Stati un generoso welfare a difesa delle classi più deboli. La
crisi attuale è dunque il crepuscolo della politica democratica delle nazioni
decaduta da baluardo dei diritti sociali a passivo strumento del nuovo potere
capitalista senza frontiere. (…). Ormai più che i governi eletti sono le
maggiori banche e i fondi privati della finanza mondiale a decidere le sorti
dell´economia, perché la politica ha smarrito la capacità di contrastare
l´ingordigia degli affari con una forza all´altezza dei tempi in cui viviamo.
Quelli cioè della transizione dall´era moderna all´era globale, l´immensa
metamorfosi che ha reso la politica una docile preda del capitale. Nell´era
globale il progressivo cadere delle barriere nazionali ha prodotto
l´unificazione mondiale dei mercati e con essa il parallelo tramonto delle
ideologie sia democratiche che autoritarie (nazionalismo, liberalismo,
socialismo, comunismo, ecc.). Al loro posto il capitalismo ha insinuato nelle
coscienze una pervasiva religione sociale ispirata all´etica del guadagno e al
culto del denaro. Per indebolire la democrazia il capitale non l´ha attaccata
frontalmente, ma con una duplice sfida trasversale. In primo luogo, per
riprendersi il suo pieno potere, ha assunto la forma globale e la democrazia,
perdute le frontiere nazionali, ha smarrito il suo habitat naturale. In secondo
luogo ha minato il cuore stesso del sistema democratico insinuando di soppiatto
al suo interno un nuovo assolutismo, quello delle aristocrazie del capitale che
abrogano il potere dei governi eletti di imporre un limite alla rapacità del
mondo degli affari. Disarcionando la politica quelle aristocrazie hanno minato
il potere sia dei partiti di sinistra difensori dei bisogni e diritti
collettivi, sia dei partiti di destra fautori del liberalismo individualista,
riducendo entrambi a esercitare - i primi loro malgrado e i secondi a loro
vantaggio - un potere delegato dal sistema degli affari mondiali che mira
soltanto alla massimizzazione dei profitti. La restaurazione del predominio
capitalista sulla democrazia politica è inoltre la maggiore causa delle
perverse alleanze fra poteri di governo e poteri di affaristi, (…). Occorre (…)
una trasformazione che riguardi in primo luogo i soggetti della democrazia che,
prima della controrivoluzione del capitale, erano i singoli cittadini che
eleggevano parlamenti democraticamente attivi, mentre ora votano per assemblee
ridotte a casse di risonanza di interessi affaristici. Per ripristinare un
efficace potere di controllo sul capitalismo occorrono nuovi soggetti, nuove
forze collettive di giovani generazioni (…). …quelle forze devono liberarsi
dall´inquinamento culturale imposto dalla propaganda capitalista. Cioè
convincersi che la sopraffazione dei diritti democratici, da parte di un
capitalismo lasciato senza freni, è massimamente dovuta alle lusinghe di quella
onnipresente religione sociale che si ispira all´etica del guadagno e al culto
del denaro, inculcata dal mondo degli affari per raggiungere i suoi scopi. Che
sono principalmente i seguenti. Primo: legittimare nell´opinione pubblica
qualsiasi impresa, anche illegale, che favorendo l´occupazione genera redditi e
quindi soddisfa bisogni individuali spesso al prezzo della distruzione di
bisogni collettivi, come per esempio la sicurezza e la difesa dell´ambiente.
(…). Secondo: anestetizzare la protesta e le lotte delle classi sfruttate ed
emarginate, illudendole che la soluzione dei loro problemi si trovi solo nella
“crescita economica” e non esiga invece la preliminare difesa dei loro diritti
democratici, compreso quello di poter controllare se un dato tipo di crescita
sia benefico o nocivo per la collettività. Terzo: indebolire lo Stato facendolo
apparire come il responsabile delle crisi anziché come la maggiore risorsa per
superarle, come era stato dimostrato ampiamente in passato dall´intervento
della spesa pubblica nelle fasi di debole congiuntura economica. Occorrerà
dunque una vera e propria rivoluzione culturale democratica per sottrarre alla
religione del guadagno e del denaro la supremazia su ogni altro valore etico e
senso della vita, sia individuale che collettiva. Un compito immenso per le
nuove generazioni che dovranno recuperare la politica dal suo attuale forzato esilio
affinché nel mondo del capitale globalizzato non abbia il sopravvento una
crescita economica che sia principalmente basata sulla corruttrice brama dei
profitti, sulla speculazione finanziaria e immobiliare e sulla devastazione
dell´ambiente.
lunedì 21 maggio 2012
Cosecosì. 19 Il pino silvestre.
Scrivevo a quel tempo, alla
pagina 111 del mio lavoro editoriale I
professori – AndreaOppureEditore (2006) pagg. 194 € 8,00 -: (…). È lo scoramento profondo allorché si
avverte un rovinare improvviso di una costruzione ideale, ancorché
organizzativa, quale è per l’appunto la scuola pubblica italiana. È
lo scoprire l’impari lotta tra il mondo chiuso, a volte autoreferenziale
della scuola, e il travolgente e periglioso andare del mondo ad essa esterno,
con le inevitabili ricadute sulle giovani generazioni, con il loro smarrirsi al
pari degli adulti genitori o educatori di fronte ai rivolgimenti storici,
politici, economici e di costume che al giorno d’oggi, fagocitati in un
processo di globalizzazione irrefrenabile, non concedono tempo alcuno per una loro
meditata acquisizione e metabolizzazione.
E si impone il problema della lingua, e perché no, il problema dirompente e
totalizzante dei moderni mezzi di comunicazione di massa. Nei miei ricordi di
insegnante non potranno in alcun modo essere cancellate le amenità dei miei
preadolescenti che a ben precise domande – “fatemi l’esempio di un pesce”,
molto ingenuamente e candidamente mi solevano rispondere “Bastoncini Findus” -
o allorquando si richiedeva una parolina con la lettera “d” come iniziale rispondevano, quasi all’unisono, con
uno squillante “Super dash”. Così come molto brillantemente ha descritto
quei tali rivolgimenti “antropologici” – ché tali li
definisce – Francesca Graziani nel Suo Dal
diario di una prof – Pratiche Editrici, Milano (2000) -: “(…).
Io insegno e lo so perché il mio mestiere mi colloca in un punto strategico di
avvistamento, dato che ho sotto gli occhi ogni giorno un pezzo del futuro che
cresce, con le sue potenzialità e i suoi problemi, e devo soprattutto fare i
conti con il fatto che non siamo in presenza solo di un gap generazionale, ma
di una vera e propria mutazione antropologica. Almeno la metà dei ragazzi e
delle ragazze che frequentano la scuola oggi sono figli unici: cresciuti per lo
più a manga giapponesi e Nintendo, hanno conversazioni telegrafiche con i
genitori e vivono in un mondo velocissimo, bombardati da una massa di
informazioni che smarriscono subito o frullano tutte insieme. Sotto
un'apparente disinvoltura nascondono un senso di insicurezza e di smarrimento:
il loro immaginario, che non a caso trova rappresentazione nel cinema e nella
letteratura dell'orrore, è popolato di mostri che loro tentano di esorcizzare
con complicatissimi rituali di loro invenzione. Strappati dall'erba dei giardinetti
al tempo della nuvola radioattiva di Chernobyl (uno dei ricordi della loro
infanzia), cresciuti in un mondo a gambe all'aria dopo la caduta del muro di
Berlino, un mondo in cui anche gli/le adulti/e faticano a orientarsi, sono
incapaci di immaginarsi un futuro e quasi per nulla interessati al passato.
(…)”. Come non rinvenire in quelle nostre “impressioni” di
educatori, vissute in tempi ancora non “sospetti” con la “crisi”
ancora da venire, lo “smarrimento” esistenziale dell’oggi
caratterizzato dalla mancanza di futuro e dalla precarietà del lavoro che
consuma le vite ed i sogni delle giovani generazioni? Ed i miei preadolescenti
di allora, divenuti nel frattempo gli adulti dell’oggi, hanno contezza del
proprio trascorso vissuto speso in massima parte in preda del piccolo mostro
domestico? Ché se ne avessero contezza potrebbero bene disporsi ad essere
cittadini e genitori riflessivi e responsabili. Cittadini a pieno titolo e non
solamente consumatori. E della “segnatura” della quale le
generazioni più o meno giovani, vissute al tempo del consumismo più feroce, sono
state cavie inconsapevoli e forse incolpevoli, come in una collettiva e
vastissima operazione di “imprinting”, come per le oche del
grande Lorenz, ne ha scritto sull’ultimo numero del settimanale “D” del
quotidiano la Repubblica Giacomo Papi in un pezzo di analisi che ha per titolo Il pino silvestre, che di seguito
trascrivo in parte.
(…). Non ero sicuro che sarebbero
piaciute. Sono state divorate. Anche i più diffidenti - quelli che al primo assaggio
facevano la faccia disgustata - non riuscivano a resistere a quel sapore di
bagnoschiuma al pino silvestre. Sembrava una droga in grado di fare viaggiare
nel tempo. Riprecipitavamo negli anni Settanta. Quell'aroma sintetico
riconnetteva a un'idea di natura incontaminata, popolata di cavalli bianchi
selvaggi al galoppo su una spiaggia o alla freschezza delle primavere in
Scandinavia. Era una sensazione artificiale creata dalla pubblicità che però
sembrava innata e istintiva, legata com'era alla certezza dei sensi, invece che
al ragionamento e all'apprendimento. Il suo carattere culturale e innaturale,
insomma, era nascosto, sepolto sotto l'evidenza sensoriale. Per chi è stato
bambino negli anni Settanta, la natura profumerà per sempre di pino silvestre,
perché questo ha voluto e insegnato uno spot. È in questo trucco prospettico
che si annida la potenza della pubblicità. La sua prepotenza culturale e la sua
pericolosa bellezza. La sua capacità di persuasione e il suo essere
intrinsecamente subliminale, anche quando non lo è. La pubblicità costruisce
sinestesie, riflessi condizionati, ammaestra i consumatori nello stesso modo in
cui il signor Pavlov ammaestrava i suoi cani, costruendo catene di sensazioni
che culminano nel prodotto da vendere. La sequenza cavallobianco -
famigliafelice - pinosilvestre - bagnoschiumavidal ricomincia a ritroso. Il
profumo reale di pino silvestre (anche se è in una caramella gommosa) rimanderà
per sempre all'idea di natura incontaminata e selvaggia sintetizzata molti
decenni fa da un creativo probabilmente defunto da tempo. Nessun'altra arte ha
toccato l'uomo, il suo corpo e la sua memoria, con altrettanta efficacia.
Nessun'altra arte è riuscita a essere così profondamente politica da invadere e
forgiare la nostra cultura, fingendosi natura. Nessun'altra arte è così
prepotente. Te ne accorgi quando i pubblicitari utilizzano musiche che ami. Per
quanto tempo ancora gli italiani non potranno ascoltare la romanza per violino
in Fa maggiore di Beethoven senza pensare allo spot Vecchia Romagna Etichetta
nera? Iniziava con l'immagine di uno sciatore, poi partiva la musica e una voce
maschile suadente: "... E dopo, a casa" il calore di un caminetto
acceso si miscelava a quello del "brandy che crea un'atmosfera". Per
alcuni è la dimostrazione del valore pedagogico delle réclame: grazie a Vecchia
Romagna il popolo conosceva un capolavoro immortale. È vero. Però lo ha anche
neutralizzato e requisito rendendolo nullo da un punto di vista emotivo ed
estetico. Nessuno, se non è ubriaco di Vecchia Romagna, potrà mai più
commuoversi ascoltandolo. Mi rendo conto che proporre di regolamentare
l'utilizzo commerciale di ciò che appartiene all'umanità intera ha un sapore
moralista. Da Minculpop. Però la tentazione è forte. Perché a volte è forte si
sente di essere stati depredati di una bisogno essenziale di bellezza. La
musica più bella del mondo è per me l'adagio del concerto per pianoforte e
orchestra 23 K 488 di Mozart. L'hanno scelta per uno spot dell'Air France. Un
tempo mi faceva pensare, con tristezza e pace, a chi è morto e mi manca. Forse,
in futuro, mi evocherà un aereoplano.
domenica 20 maggio 2012
Dell’essere. 7 Lo specchio della vita.
Ha scritto Cinzia Sciuto
nell’ultimo numero della rivista MicroMega – pagg. 74/75 - dell’anno 2011 nel
Suo pezzo che ha per titolo Imparare
dalle anime belle: (…). Le grandi lotte collettive erano
possibili in tempi solidi, in cui l’identità individuale non era messa in
discussione e in cui, quindi, a partire da una precisa coscienza di sé
(costruita eventualmente anche in opposizione ai modelli sociali di
riferimento), era possibile condividere anche una coscienza di classe o di
gruppo. L’individuo, nella sua integrità e autonomia, è l’apriori di qualunque
azione collettiva e lavorare per ritrovare se stessi, lungi dall’essere il
contrario dell’impegno politico, ne è la condizione di possibilità. Quale
politica è possibile, infatti, in un mondo di meri consumatori, di clienti?
(…). C’è molto da riflettere sulle tragiche vicende di questi mesi.
Operai, lavoratori autonomi, piccoli e medi imprenditori che, nell’assoluta
solitudine delle loro coscienze, decidono di farla finita con la propria
esistenza. Non sfugge che l’impoverimento della propria condizione di vita sia
motivo di grandissima turbativa dello spirito e dell’equilibrio psichico dei
singoli che, per una azione di “effetto alone” riesce a
coinvolgere, nei tragici avvenimenti, numeri che suscitano legittimo allarme
sociale. Ma non minore forza, nei tragici avvenimenti di questi mesi, avrebbe
una coscienza di sé che fosse stata costruita su di una solida “coscienza
di classe o di gruppo” che rendesse tetragoni a fronte delle situazioni
difficili che la “crisi” dispiega nel suo irrefrenabile avanzare. Non
se ne viene fuori dalla “crisi” se non con i numeri
allarmanti dell’oggi solo perché la politica, quella delle idee e delle
idealità, non è più “possibile,(…), in un mondo di meri consumatori, di clienti”. Dei
fatti tragici che le cronache continuano a porre drammaticamente alle nostre
coscienze ne ha scritto sul quotidiano la Repubblica lo psicoanalista Massimo
Recalcati col titolo Lo specchio della
vita. Di seguito lo trascrivo in parte. (…). L'immagine di sé non è l'immagine
che restituisce lo specchio ma quella che restituisce il corpo sociale, le
persone che amiamo e che stimiamo; lo specchio che conta è lo specchio che ci
restituisce la dignità del nostro essere uomini. Coloro che decidono per il
suicidio sono uomini che hanno perduto la loro immagine, che hanno incontrato
uno specchio in frantumi. Non possono più riconoscersi in nulla. Sono stati
spogliati della loro stessa immagine perché hanno perduto la possibilità del
lavoro come possibilità che umanizza e assegna valore alla vita. Il suicidio è
il tentavo disperato di trovare una dignità smarrita. (…). Non solo di pane
vive l'uomo, recita, com'è noto, la celebre massima evangelica. Gli
psicoanalisti non sono certo i soli a verificarne la verità: la vita umana non
si realizza solo attraverso l'appagamento dei bisogni primari, naturali,
istintuali. La vita si umanizza attraverso l'acquisizione di una dignità
simbolica che la rende unica e insostituibile. La vita si umanizza attraverso
il suo essere riconosciuta dalla propria famiglia e dal corpo sociale di
appartenenza. Di fronte alla tragedia dei suicidi causati dalla perdita del
lavoro, da fallimenti professionali o dall'angoscia di non riuscire a
sopportare l'aumento continuo dei debiti e l'onda sismica della crisi economica
che stiamo vivendo, torna alla mente la potenza della massima evangelica. Non
perché il pane non abbia importanza. E chi potrebbe negarlo, soprattutto in
tempi di crisi, dove la stessa sopravvivenza degli individui e delle loro
famiglie è messa a repentaglio? Eppure il dramma del suicidio è propriamente
umano - e solo umano - perché in gioco non c'è solo il pane. La mancanza del
pane può generare indignazione, lotta, contrasto, rivendicazione legittima di
giustizia sociale, anche disperazione, frustrazione, scoramento. Ma non è la
mancanza del pane in sé che può condurre una vita alla decisione di uscire dal
mondo. Cosa motiva davvero i suicidi che riempiono drammaticamente le cronache
di questi mesi? Marx aveva assolutamente ragione a rifiutarsi di considerare il
lavoro un mero mezzo di sostentamento. Egli pensava che l'uomo trovasse in esso
non solo il mezzo per guadagnare il pane necessario, ma anche e soprattutto la
possibilità di dare senso alla propria vita, di renderla diversa da quella
dell'animale, di renderla umana. È il lavoro che dà una forma al mondo, che
trasforma la materia, che realizza impresa, costruzione, progetto, che sa
generare futuro. È ciò che portava Marx a conferire al lavoro umano una dignità
fondamentale. Per questa ragione il lavoro non è innanzitutto fonte di
alienazione, ma possibilità di realizzazione della vita come umana. Non è ciò
che deruba la vita ma ciò che la costituisce. Eppure abbiamo conosciuto stagioni
culturali dove il lavoro in quanto tale - e non la sua espropriazione
capitalista secondo la tesi classica di Marx - veniva rigettato come fonte di
alienazione e di abbrutimento della vita. Parlo ovviamente del lavoro e non
delle sue condizioni materiali che possono effettivamente animalizzare la vita,
insultarla, sfruttarla barbaramente. La tesi del lavoro contrapposto alla vita
e non come condizione della sua umanizzazione attraversa un certa ideologia
marcusiana che ha condizionato il movimento del '68 e che è giunta sino a noi attraverso
gli anni Settanta. L'umanità dell'uomo non si esprime attraverso il lavoro ma
nel tempo della vita sottratto al lavoro. Il culto del tempo libero dall'oppressione
del lavoro avvia una nuova retorica, assai pericolosa, che finisce oggi - come
aveva indicato con chiaroveggenza il liberale-conservatore Jacques Lacan - per
colludere fatalmente con l'iperedonismo di cui si nutre il capitalismo
occidentale: il lavoro è solo un limite, un peso, un'afflizione, un male.
Meglio liberarsene, meglio fare soldi per altre vie, più rapide e meno
faticose. Meglio seguire la "via breve" di un'economia di carta,
finanziaria, speculativa, che non passare dalla "via lunga"e irta di
ostacoli come quella del lavoro. L'ideologia della liberazione del desiderio
conduce dritta dritta verso il rifiuto cieco del lavoro come forma di
abbrutimento dell'uomo. (…). Il rifiuto ideologico del lavoro come luogo di
mortificazione della vita contrasta oggi in tutta evidenza con la disperata
esigenza del suo diritto, della possibilità che vi sia e che si dia lavoro.
Mentre nel tempo che ha preceduto la crisi il lavoro era descritto come un
peso, l'esplosione della crisi rivela la centralità del lavoro nel processo di
umanizzazione della vita. Oggi le persone si ammazzano non per liberarsi dal
lavoro, ma per rivendicare - seppure in modo distruttivo - la loro dignità di
uomini, per poter realizzare la propria essenza umana attraverso il lavoro. È
questo - il diritto al lavoro - il solo specchio anti-suicidio efficace.
venerdì 18 maggio 2012
Capitalismoedemocrazia. 24 La fine della civiltà capitalistica?
L’interrogativo del titolo è mio.
Ha scritto Alfredo Reichlin sul quotidiano l’Unità, in un pezzo che ha per
titolo Il compito della sinistra: (…).
Il capitalismo, dopotutto, è stato una civiltà, si è retto anche su un
compromesso sociale. Certo, è stato lo sfruttamento del lavoro ma, insieme con
esso, la formazione della società del benessere. È stato la più grande macchina
per la ricchezza che ha consentito in due secoli di fare molto di più che nei
ventimila anni precedenti. Questo è stato, con tutte le sue ingiustizie ma
anche le sue conquiste di libertà. Adesso siamo di fronte a un’altra cosa.
Siamo alla crisi di questa civiltà: la civiltà del lavoro umano e della
valorizzazione delle capacità creative dell’imprenditore. Siamo alla riduzione
della ricchezza al denaro. Ma un denaro fasullo fatto col denaro. Siamo al
fatto che il mondo è stato inondato da una moneta fittizia la cui massa è ormai
diventata tale da superare di nove volte la produzione della ricchezza
mondiale. Chi paga? Devo ripeterlo perché è proprio così: l’economia di carta
si sta mangiando l’economia reale. (…). Fine della lunga citazione. Che
mi serve come “necssario” prologo alla interessante riflessione che Massimo
Giannini ha pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 27 di febbraio 2012 col
titolo La fine della civiltà
capitalistica, che di seguito trascrivo in parte. Sostiene l’economista Jean
Paul Fitoussi che “lo scandalo del capitalismo sta nella mondializzazione della povertà,
perfino nei Paesi più ricchi. E ancora di più in quel circolo di illegalità
insostenibile nei Paesi democratici”. Quindi, “povertà” e “illegalità
insostenibile”. Un binomio inscindibile. Laddove dilaghi la “povertà”
è l’”illegalità
insostenibile” a divenire costume diffuso del vivere. Era scritto nelle
cose. La fuga continua del capitale finanziario dai luoghi della Terra nei
quali i diritti del lavoro erano stati faticosamente conquistati e si erano
storicamente radicati e diffusi, erroneamente etichettata come “delocalizzazione”,
per il massimo del tornaconto del capitale, è stata la miopia epocale ed il
segnale allarmante, ma non debitamente considerato e valutato, che alla base
della rampante, vorace attività finanziaria globale era scritto l’imperativo
unico ed assoluto della ricerca del “tutto e subito”, senza neppure l’ombra
di una responsabilità sociale del capitale, senza un’etica della equità e della
riduzione delle enormi, vergognose differenze sociali che quell’azione avrebbe
inevitabilmente innescato. Quale modello di economia andrà a sostituire il
capitalismo del “denaro fasullo fatto col denaro”? Aspettando gli eventi.
(…). Per capire il fenomeno
capitalistico non basta più una sola dimensione, l'economia. Servono invece
tutte le dimensioni del vivere: filosofia e politica, scienza e religione.
Perché dal XII secolo in poi, tutte le sfere della società occidentale ricevono
l'impronta del capitale, che le marchia a fuoco. (…). …il capitalismo, per
questa parte di mondo, è molto più che un sistema di governo (o
"sgoverno"?) dell'economia. Molto più del mercato, della libera
competizione, del conflitto tra le forze concorrenti. Molto più della stessa
democrazia. È una vera e propria forma di "civilizzazione". Può
sembrare un'ovvietà, mutuata magari proprio dalla valutazione
"quantitativa" di Bloch, quando scrive che "tutte le fasi più
lunghe della storia si chiamano civilizzazioni". Otto secoli filati di
egemonia capitalista sono abbastanza, per confortare questa teoria. Ma è sul
piano "qualitativo" che l'operazione si fa più audace e suggestiva. Riconoscere
fino in fondo l'equazione capitalismo=civiltà ha implicazioni illuminanti, e
soprattutto inquietanti, nella rilettura della vicenda umana che ci porta alla
cosiddetta "modernità". (…). Ai suoi albori, il pre-capitalismo è una
versione basica dell'economia di mercato: vendere per comprare, scambiando per
soddisfare i bisogni di sostentamento e di consumo. Poi muta, si sofistica:
comprare per vendere, trasformando il denaro in merce e ritrasformando la merce
in denaro. Così l'economia di mercato diventa circolazione capitalista. La
nuova "civiltà" non è più ottimale soddisfazione dei bisogni
individuali e collettivi, ma perseguimento e accumulazione del massimo dei
profitti. (…). …la metamorfosi comincia molto prima di quanto si pensi. Almeno
cinque secoli in anticipo, rispetto alla Rivoluzione Industriale. Già nella
Venezia dei borghesi del 1200, come poi nell'Olanda dei mercanti, la
"potenza" del capitale contiene in nuce l'embrione delle sue
evoluzioni/involuzioni successive. Un filo rosso (o nero, fate voi) unisce quei
primordi al meglio e al peggio dei secoli a venire. C'è "potenza" (la
prima "leva") nei Padri Pellegrini che nel 1620 sbarcano con il
Mayflower nel Nuovo Mondo, propiziando il primo Boston Tea Party del 1773 e la
Dichiarazione d'Indipendenza del 4 luglio del 1776. C'è
"potenza" nella Rivoluzione Francese e nella Dichiarazione dei
Diritti del 1789. La "scoperta" dei diritti genera democrazia, la
democrazia genera libertà, la libertà genera "accumulazione". Questa
"leva" (la seconda) getta le basi per le future tragedie
novecentesche. La società massificata, nei consumi e nei costumi, è alla radice
dei fascismi europei. (…). Anche in Urss, in quell'abisso di Terrore, la logica
del capitalismo "era in agguato", e il socialismo occultamente e
inconsciamente era assoggettato a una logica dell'industrializzazione
tecnicamente imposta dal capitalismo occidentale. (…). La storia del
capitalismo, (…), è anche storia di commerci di rapina, di guerre sanguinose,
conquiste coloniali, schiavitù e sfruttamento. Spinta dalla
"potenza", giustificata dalla "religione" (scrive Max Weber
che "il capitalismo è una pratica religiosa di vita") e accelerata
dalla "scienza" e dall'innovazione tecnica e tecnologica, l'"accumulazione"
ad ogni costo permea le menti individuali e i comportamenti collettivi. Così il
capitalismo storico genera dentro se stesso la barbarie e la violenza. Fino al
nazismo e all'Olocausto. Fino alle mafie e alle criminalità organizzate. Più
banalmente, il capitalismo contemporaneo compie l'ultima mutazione, e si fa
"inciviltà". Sconfitte le avventure totalitarie, "domina oggi un
mondo diviso tra sprechi di ricchi e privazioni di poveri, un'etica cieca del
profitto acuisce il conflitto tra capitale e lavoro, e non colmerà l'abisso tra
la sazietà e la fame". (…). Weber si sbagliava, quando immaginava che la "brama
immoderata" non fosse l'essenza del capitalismo, e sognava che quest'ultimo
ne fosse il "razionale temperamento". "Greed is good", è il
motto di Wall Street, mentre a Main Street si soffre e di piange. "Solo la
forza della democrazia può imporre limiti all'avidità di oligarchie affariste e
promuovere una crescita più equa". Verissimo. Ma oggi c'è un problema,
gigantesco: le democrazie per il popolo hanno lasciato il campo alle
tecnocrazie senza popolo. E il vero scontro di civiltà, ormai, non è più tra
Islam e Occidente, e nemmeno più tra politica ed economia. È tra economia e
democrazia. (…). Per Francis Fukuyama la crisi del comunismo coincise con la
fine della storia. Da quel saggio famoso, uscito nel 1992, le cose sono andate
un po' diversamente. Oggi, con un criterio valutativo uguale e contrario,
possiamo azzardare che la crisi del capitalismo coincide con la fine di una
civiltà? Non so dirlo. Ma so che il capitalismo finanziario di questi anni (per
parafrasare i Balcani di Churchill) consuma molta più storia di quanta ne
produce. Così non può reggere. Fosse vivo, lo direbbe anche Schumpeter.
mercoledì 16 maggio 2012
Cosecosì. 18 Le fortune di Rosie, di Guari, di Mike e di Ken.
A fianco. L'arte figurativa di Giovanni Torres La Torre.
Ha scritto il professor Umberto
Galimberti nella Sua corrispondenza che ha per titolo La deformazione allucinatoria della realtà, corrispondenza pubblicata sul settimanale “D” del
quotidiano la Repubblica: Scriveva Einstein a proposito della crisi
del 1929: "Non pretendere che le cose cambino continuando a fare le cose
che facevi prima". (…). …Freud definisce il sogno come "un
appagamento allucinatorio di un desiderio" non solo erotico, ma anche di
autoaffermazione e di successo. Quello che è interessante è quell'aggettivo
"allucinatorio", che, in un breve saggio del 1907 che ha per titolo
Il poeta e la fantasia, Freud riconduce a "una deformazione della
realtà". E in che modo noi occidentali abbiamo deformato la realtà nel
tentativo di realizzare i nostri sogni, fino a trovarci in questa
"allucinante" crisi economica (…)? A mio parere la spiegazione va
cercata nel fatto che abbiamo capovolto il rapporto che esiste tra i mezzi e i
fini. Ai tempi di Freud (…), (…), il denaro era un "mezzo" per
soddisfare quei "fini" che sono la produzione dei beni e la
soddisfazione dei bisogni. Oggi il denaro è diventato il primo e supremo fine,
per realizzare il quale si vedrà se soddisfare i bisogni e in qual misura
produrre i beni. Bisogni e beni, da fini quali erano, sono diventati
"mezzi" per realizzare quel "fine" che è l'accumulo di
denaro. In ciò consiste il tratto "allucinatorio" di una palese
"deformazione della realtà". Ne è prova il fatto che noi occidentali,
dopo aver soddisfatto fondamentalmente tutti i nostri bisogni primari, oggi
peraltro messi paurosamente a rischio dalla crisi, abbiamo incanalato la
produzione non solo in ordine ai beni, ma soprattutto in ordine ai bisogni,
perché se il denaro si accumula attraverso il consumo, e di certi beni non si
sente il bisogno, occorre, come nel caso della pubblicità, che questo bisogno
sia "prodotto". Seconda "deformazione della realtà". In
questa corsa "allucinatoria" che chiamiamo "crescita",
Freud continua ad aver ragione, (…) perché abbiamo "deformato la
realtà". Ma nella sua profezia c'è anche l'indicazione della via da
seguire per uscire dalla crisi, se appena ci rendiamo conto che la realtà non è
quella che abbiamo "deformato". Sembrano scontate, se non
ovvie, alla luce della terribile realtà creata dalla “crisi” in atto, le dotte
argomentazioni del professor Galimberti. Ma proprio perché la realtà è sempre
più avanti, e spesso di molto, rispetto alle cose che si possano immaginare,
anche le più sfrenate, mi è sembrato opportuno trascrivere di seguito, in
parte, l’altrettanto interessante corrispondenza di Vittorio Zucconi da quel
mondo che il navigato opinionista definisce Hotel America. Titolo della Sua corrispondenza
Chi vuol essere inventore milionario?
Sembra incredibile come la dabbenaggine degli umani possa contribuire al
verificarsi delle cose le più incredibili. Di seguito si leggeranno le
mirabolanti storie di inventori dell’inutile reso necessario da quella che il
dotto professore ha definito come “deformazione allucinatoria della realtà”. Non
senza una ragione. Saranno esse, quelle mirabolanti storielle, giustamente
ricordate come storie di allucinanti deformazioni del vivere ma anche di
arricchimenti indecorosi all’epoca della grande “crisi” poiché, in barba
all’insegnamento del grande Freud - "non pretendere che le cose cambino
continuando a fare le cose che facevi prima" -, nonostante tutto si
continua nello sperpero più assoluto ed indecoroso che si possa pensare. Come
se nulla fosse. E degli umani “scemi”?
(…). Rosie Di Lullio, (…). È una
donna che semplicemente ama i cani. Per anni aveva tentato di convincere il suo
labrador cioccolato a non mettere il muso fuori dal finestrino, come tutti i
cani adorano fare per annusare i milioni di odori che solleticano il loro naso.
Piacere pericolosissimo, questo, perché espone i loro occhi alla polvere, al
pietrisco aguzzo sparato dai camion, ai raggi ultravioletti del sole. Con
qualche soldo risparmiato, senza prestiti né finanziatori, Rosie si fece
produrre da una fabbrica di occhiali il prototipo di occhialoni di protezione
con elastico e finiture di gomma morbida, come porta Snoopy quando s'immagina
di duellare in cielo con il Barone Rosso. La sua società ha incassato, nel
2011, 3 milioni di dollari.
Gauri Nanda, una studentessa del
celebrato Mit, il politecnico del Massachussets, era semplicemente pigra e
amava dormicchiare dopo il trillo della sveglia. Quando l'arnese suonava,
premeva il tasto "snooze", appunto sonnecchia, per qualche minuto ancora,
e arrivava regolarmente tardi alle lezioni. Da brava futura ingegnera, Gauri
ebbe un'idea: perché non sfruttare la sua preparazione nel progettare robot e
applicarla alla sveglia? Con pezzi di plastica, chip e piccoli display trovati
in giro, produsse una sveglia su ruote da appoggiare a fianco del letto. Quando
suona, e lei, pigrona, pigia il bottone "sonnecchia", il robot si
muove, scappa, viaggia per la stanza e riprende a squillare. L'unico modo per
zittirlo è alzarsi e inseguirlo. Al quel punto, il più è fatto.
"Clocky", così chiama, è venduto in 45 nazioni, produce 10 milioni di
dollari annui e ha già generato un erede, "Tocky", che salta giù dal
comodino e gironzola suonando.
Quando aveva 13 anni e tentava
invano di mangiare una pizza, Mike Miller aveva perso la pazienza con la
forchetta con la quale non riusciva a tagliare la crosta. Pensa e ripensa,
decise di tentare una soluzione con un amico che conosceva un fabbro. Si fece
prestare dal nonno 10mila dollari e ne uscì "Knork", da knife coltello
e fork, forchetta, insomma un "forchello" o una "coltetta",
anche se questa formulazione suona molto male. Fatturato annuo: 2 milioni di
dollari.
La fortuna di Ken fu invece il
tacchino. Una lite in famiglia, tra parenti, proprio nel giorno della pace e
della serenità, il Ringraziamento, ispirò Ken Ahroni. Quando venne il momento
di spezzare l'osso dei desideri a forma di forcella che sta nel petto del
pollastrone, scoppiò la rissa, con pianti, grida e devastazione delle spirito
festoso. Poiché non si possono certo comperare e cuocere tanti tacchini per
quante paia di ospiti ci sono, avendo la povera bestia un solo osso a forcella,
Ken ebbe l'idea di produrre finte ossa di plastica a forma di "Y" per
permettere il gioco del desiderio a volontà, senza ogni volta dover massacrare
un tacchino o un cappone. Ne sta vendendo a secchiate e incassa 4 milioni di
dollari.
Naturalmente, dopo avere letto di
questi grandi successi di piccoli inventori che traducono un'idea in pacchi di
soldi e in aziendine di successo, resta sospeso un dilemma irrisolto. Sono geni
loro, o sono scemi quelli che comperano le loro invenzioni?
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