"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 30 marzo 2017

Paginatre. 78 “Alfredo Reichlin e le cose da fare”.



Da “Parliamo delle cose da fare” di Alfredo Reichlin, pubblicato sul quotidiano l’Unità del 19 di gennaio dell’anno 2006: Incendiare i raccolti e avvelenare i pozzi: è una vecchia immagine usata per quegli avventurieri che giocano il tutto per tutto pur di evitare la sconfitta. Ma in questo caso si tratta del capo del governo italiano. C'è in questo scomposto agitarsi del Cavaliere il segno di una disperazione ma c'è soprattutto il colpo che viene dato alla tenuta dello Stato democratico. Dopo cinque anni nei quali abbiamo assistito alla vergogna delle leggi fatte su misura (la misura dei suoi affari e dei suoi processi). Veniamo adesso trascinati in una campagna elettorale nella quale costui usa un altissimo ufficio pubblico come la Presidenza del consiglio - cui fanno capo le polizie, i servizi segreti, poteri grandissimi di influenza sui giornali e sugli uffici dello stato, capacità di pilotare informazioni e di esercitare pressioni, minacce, ecc. ecc.- per spargere calunnie e veleni contro l'opposizione parlamentare. Siamo arrivati, dunque, a questo punto: a una minaccia di sovversivismo. Ed io spero almeno che questo ci aiuti a capire quale partita si gioca in queste elezioni, una partita che va molto al di là di un normale ricambio di governo. Ma ciò che è in gioco è anche altro rispetto anche a quel fenomeno anomalo che va sotto il nome di “berlusconismo”. È l'assetto complessivo dei poteri, di tutti i poteri (dalle banche ai giornali, alla magistratura) e non soltanto dei poteri politici. E questo è anche il tema di fondo dell'economia italiana: il rapporto tra rendita e profitto, tra finanza e produzione. (…). …chi si candida a governare deve proporsi come una guida, la quale per essere credibile deve avere una “visione” ma deve anche essere in grado di porre lo sviluppo non soltanto economico ma civile e politico della nazione italiana su basi in gran parte, se non del tutto, nuove. (…).

Da “Noi e la lezione di Francesco” di Alfredo Reichlin, pubblicato sul quotidiano l’Unità del 19 di marzo dell’anno 2013: (…). …si è aperta a livello mondiale una enorme questione sociale. Ed è questa che sta provocando fenomeni inusitati di ribellione anche morale. Gli uomini, ma soprattutto i giovani, sentono sia pure confusamente, che il «sistema» chiude i loro orizzonti e spegne le speranze delle loro vite, per cui si fa strada l’idea che il mondo non può essere governato da una ristretta oligarchia finanziaria, la quale è più potente di qualsiasi Stato. Il denaro prodotto col denaro, questa enorme «rendita» moderna che si mangia l’economia reale non va bene. Il risultato è un mondo coperto di debiti che tocca ai poveri pagare riducendo le loro pensioni e finendo in mezzo alla strada. È davvero una insopportabile vergogna. Di qui l’enorme bisogno di cambiamento. (…). Noi parliamo troppo di politica ai politici con la «lingua di legno» della politica. Non parliamo abbastanza alla gente delle cose e dei loro sentimenti, di ciò che sta letteralmente sconvolgendo le loro vite. Ci rendiamo conto delle ingiustizie del mondo di oggi? Tanto più insopportabili perché questo non è più il mondo dei servi e dell’ottuso contadiname analfabeta di una volta. È il mondo di giovani acculturati e informati ma privati del futuro. (…). Il sistema non solo è ingiusto ma non funziona. L’economia a dominanza finanziaria si è separata troppo dalla società. Il predominio della rendita finanziaria e la gravità degli squilibri alimentati dalle logiche speculative di breve periodo stanno distruggendo quel «valore aggiunto» che in definitiva è prodotto dal lavoro e dalla creatività umana. In ciò io vedo non solo la necessità ma la possibilità di una svolta che porti alla creazione di un nuovo rapporto tra l’economia e la società. (…).

Da “Il Pd non esiste senza sinistra” di Alfredo Reichlin, pubblicato sul quotidiano l’Unità del 12 di dicembre dell’anno 2013:

mercoledì 29 marzo 2017

Scriptamanent. 84 “Europa: discarica dei problemi e delle sfide generate a livello globale”.



Da “I palazzi della politica si riprendono il potere” di Zygmunt Bauman, pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 29 di marzo dell’anno 2014: Noi europei del Ventesimo secolo ci troviamo sospesi tra un passato pieno di orrori e un futuro distante pieno di rischi. Non possiamo sapere cosa ci aspetterà in futuro. A oggi ogni soluzione che concordiamo di fronte al succedersi di sfide e dissensi emana un’aria di temporaneità. Sembra essere, e il più delle volte dimostra infatti di essere, valida «sino a nuova comunicazione», con una clausola ad hoc che ne rende possibile la revoca, così come ad hoc sono le nostre divisioni e coalizioni, fragili e incerte. (…). Senza dubbio l’attuale, incoerente struttura istituzionale dell’Unione Europea - nella quale le regole senza politica promosse da Bruxelles contrastano con la politica senza regole per cui il Consiglio europeo è famoso, mentre il Parlamento è tutto chiacchiere e poco potere - alimenta simultaneamente entrambe queste tendenze. Ottant’anni fa Edmund Husserl ammoniva: «Il pericolo più grave che minaccia l’Europa è la sua stanchezza». Nel corso degli ultimi cinquant’anni i processi di deregolamentazione originati, promossi e controllati dai governi statali che si sono uniti volontariamente (o sono stati indotti a farlo) alla cosiddetta “rivoluzione neo-liberale” hanno prodotto una separazione sempre più acuta e crescenti probabilità di separazione tra il potere (ovvero, la capacità di fare) e la politica (ovvero, l’abilità di decidere cosa deve essere fatto). I poteri un tempo racchiusi nella cornice dello Stato-nazione sono per lo più evaporati e sono finiti in una terra di nessuno, quella dello “spazio dei flussi” (secondo la definizione data da Manuel Castells), mentre la politica resta, come in passato, ancorata e confinata al territorio. Tale processo tende a essere sempre più intenso e autoindotto. I governi nazionali, ormai privi di potere e sempre più deboli, sono obbligati a cedere una ad una le funzioni un tempo considerate monopolio naturale e inalienabile degli organi politici dello Stato, per affidarle alle cure di forze di mercato già “deregolamentate”, sottraendole così all’ambito della responsabilità e del controllo da parte della politica. Ciò provoca il rapido dissolversi della fiducia popolare nei confronti dell’abilità dei governi di fronteggiare con efficacia le minacce alle condizioni di vita dei loro cittadini. Questi credono sempre meno che i governi siano capaci di tener fede alle loro promesse. Per dirla in breve: la nostra crisi attuale è innanzitutto e soprattutto dovuta a una crisi dell’azione di governo - benché in definitiva sia una crisi di sovranità territoriale. Gli europei, così come la maggior parte degli altri abitanti del pianeta, stanno attualmente attraversando una crisi della “politica così come la conosciamo” e al tempo stesso sono costretti a trovare o inventare soluzioni locali a sfide globali. Gli europei, come la maggior parte degli abitanti del pianeta, ritengono che le modalità attualmente impiegate per “fare le cose” non funzionino a dovere, mentre all’orizzonte ancora non si vedono modalità alternative ed efficaci (una situazione che il grande filosofo italiano Antonio Gramsci definì come stato di “interregno” - ovvero una situazione nella quale il vecchio è già morto o sul punto di morire, ma il nuovo non è ancora nato).

martedì 28 marzo 2017

Scriptamanent. 83 “La Costituzione e la libertà di decidere sulla vita”.



Da “I paletti della Costituzione e la libertà di decidere sulla vita” di Stefano Rodotà, pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 28 di marzo dell’anno 2014: (…). …se la morte appartiene alla natura, il morire appartiene alla sua vita, (…) divenuto sempre più governabile e dunque rientra nell'autonomia delle scelte di ciascuno. Proprio seguendo gli itinerari del diritto, è agevole accorgersi di questo radicale mutamento di prospettiva, con l'attribuzione a ciascuno del pieno governo del sé soprattutto per quanto riguarda il destino del proprio corpo, per il quale il principio è ormai quello del consenso libero e informato dell'interessato. La rivendicazione del diritto di morire diviene così parte del più complesso movimento di riappropriazione del corpo. Tutto questo ha chiari e forti riferimenti nella Costituzione. Nell'articolo 32, dove la salute è definita diritto «fondamentale», si afferma che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge»: questo intervento, tuttavia, è ammissibile solo nei casi in cui vi sia una ragione sociale rilevante. Non a caso quell'articolo si conclude con parole molto nette: «La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». In nessun'altra costituzione si trova una norma così impegnativa. Si individua così un'area dell'"indecidibile", preclusa a qualsiasi intervento legislativo e che viene identificata riferendosi al rispetto assoluto della dignità e della persona nella sua integralità. Quest'area, (…), è quindi attribuita alla libertà di scelta della persona. Un passaggio essenziale, chiarito in modo inequivocabile dalla sentenza n. 438 del 2008 della Corte costituzionale: «La circostanza che il consenso informato trova il suo fondamento negli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione pone in risalto la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all'autodeterminazione e quello alla salute». (…). L'abbandono di ogni pretesa di invadere lo spazio della persona, che la Costituzione vuole tenere al riparo dagli interventi del legislatore, non risponde soltanto all'esigenza di affrontare in modo più adeguato, e liberato da ambiguità paternalistiche e pietistiche, la condizione reale di molte migliaia di sofferenti. Chiarisce come il diritto all'autodeterminazione, fondato com'è sulla libertà di governare liberamente la propria vita, mette in evidenza la necessità di tener conto dei diritti di chi intende proseguire la propria esistenza con tutta l'assistenza necessaria. Emerge così il diritto d'ogni cittadino di accedere alle cure palliative ed alle terapie del dolore. Solo tenendo insieme le due possibili scelte della persona, si può uscire dalla schizofrenia istituzionale e dalle ipocrisie di chi invoca l'intervento del legislatore in aree precluse dalla Costituzione, mentre ignora i doveri delle istituzioni pubbliche. (…).

lunedì 27 marzo 2017

Primapagina. 33 “L’Europa dell’inganno visivo e della falsa coscienza”.



Da “Europa, l’inganno delle celebrazioni” di Barbara Spinelli, su “il Fatto Quotidiano” del 23 di marzo 2017: (…). Le celebrazioni sono il luogo dell’inganno visivo e della falsa coscienza. Non mancheranno gli accenni ai padri fondatori, e perfino ai tempi duri che videro nascere l’idea di un’unità europea da opporre alle disuguaglianze sociali, ai nazionalismi, alle guerre che avevano distrutto il continente. Anche questi accenni sono inganni visivi. Lo spettacolo delle glorie passate si sostituisce al deserto del reale per dire: “Ciò che appare è buono, e ciò che è buono appare”. La realtà dell’Unione va salvata da quest’operazione di camuffamento. Come ricorda il filosofo Slavoj Žižek, la domanda da porsi è simile a quella di Freud a proposito della sessualità femminile: “Cosa vuole l’Europa?”. Cosa vuole l’élite che oggi pretende di governare l’Unione presentandosi come erede dei fondatori, e quali sono i suoi strumenti privilegiati? La prima cosa che vuole è risolvere a proprio favore la questione costituzionale della sovranità, legittimando l’oligarchia sovranazionale e prospettandola come una necessità tutelare e benefica, quali che siano i contenuti e gli effetti delle sue politiche. Il primo marzo, illustrando il Libro Bianco della Commissione sul futuro dell’UE, il Presidente Juncker è stato chiaro: “Non dobbiamo essere ostaggi dei periodi elettorali negli Stati”. In altre parole, il potere UE deve sconnettersi da alcuni ingombranti punti fermi delle democrazie costituzionali: il suffragio universale in primis, lo scontento dei cittadini o dei Parlamenti, l’uguaglianza di tutti sia davanti alla legge, sia davanti agli infortuni sociali dei mercati globali. Scopo dell’Unione non è creare uno scudo che protegga i cittadini dalla mondializzazione, ma facilitare quest’ultima evitandole disturbi. Nel 1998 l’allora Presidente della Bundesbank Hans Tietmeyer invitò ad affiancare il “suffragio permanente dei mercati globali” a quello delle urne. Il binomio, già a suo tempo osceno, salta. Determinante resta soltanto, perché non periodico bensì permanente, il plebiscito dei mercati. In quanto potere relativamente nuovo, l’oligarchia dell’Unione ha bisogno di un nemico esterno, del barbaro. Oggi ne ha uno interno e uno esterno. Quello interno è il “populismo degli euroscettici”: un’invenzione semantica che permette di eludere i malcontenti popolari relegandoli tutti nella “non-Europa”, o di compiacersi di successi apparenti come il voto in Olanda (“È stato sconfitto il tipo sbagliato di populismo” ha decretato il conservatore Mark Rutte, vincitore anche perché si è appropriato in extremis dell’offensiva anti-turca di Wilders). Il nemico esterno è oggi la Russia, contro cui gran parte dell’Europa, su questo egemonizzata dai suoi avamposti a Est, intende coalizzarsi e riarmarsi. La difesa europea e anche l’Europa a due velocità sono proposte a questi fini. Sono l’ennesimo tentativo di comunitarizzare tecnicamente le scelte politiche europee tramite un inganno visivo, senza analizzare i pericoli di tali scelte e ignorando le inasprite divisioni dentro l’Unione fra Nord e Sud, Est e Ovest, Stati forti e Stati succubi. Si fa la difesa europea tra pochi come a suo tempo si fece l’euro: siccome il dolce commercio globale è supposto generare provvidenzialmente pace e democrazia, si finge che anche la Difesa produrrà naturaliter unità politica, solidarietà e pace alle frontiere e nel mondo.

domenica 26 marzo 2017

Sfogliature. 75 “Reichlin, la sinistra e la barba di Grillo “



Ha lasciato scritto Alfredo Reichlin in un Suo editoriale che è dell’anno 2007, editoriale raccolto e trascritto in questa datata “sfogliatura”: Basta dare uno sguardo d’insieme a questi anni per accorgersi che alla chiacchiera infinita sul riformismo è corrisposto, nella sostanza, una brutale e profonda redistribuzione del lavoro e della ricchezza quale da tempo non appariva così ampia. Basti pensare allo sconvolgimento dei prezzi relativi e al divario tra i salari e gli altri redditi. E questi sono stati anche gli anni in cui si è consumata una grande sconfitta culturale ed etico-politica della sinistra democratica. Il ‘berlusconismo’ non è stato una parentesi, ha permeato il sentire di quella che se non è la maggioranza del Paese poco ci manca. Era giusto l’anno 2007. È stato questo il “sentire” dell’Uomo che ci ha appena lasciati. Un “sentire” – dieci anni appena indietro - che andava oltre il tornaconto politico immediato per divenire un “sentire” profetico, come solamente i grandi della politica ne sono capaci. Ci lascia così un “gigante” della politica nella mani di “nani e nanerottoli”, incapaci di qualsivoglia analisi che non sia finalizzata alla occupazione del potere per il potere. Oggigiorno  quei “nani e nanerottoli” della politica “gridata” e ridotta a “slide”, slogan e proclami si ingegnano ad intravvedere nel “populismo”,  a loro dire avanzante e trionfante, il pericolo per la democrazia. La responsabilità è tutta ed interamente da ascriversi alla loro nefasta azione, permeata dall’inconcludenza e dalla improvvisazione, senza un briciolo di analisi, senza un tentativo di mediazione nello scenario sociale, azione di una politica mediatizzata ed imbarbarita. Il “deserto dei tartari” dei “nani e nanerottoli” dal quale maldestralmente minacciano l’arrivo dei “barbari” è stabilmente occupato dalle loro tragiche, insignificanti figure. Alfredo, ti sia lieve la terra. La “sfogliatura” è di martedì 25 di settembre dell’anno 2007:

venerdì 24 marzo 2017

Paginatre. 77 “L’Europa e la dottrina della casa in ordine".



Da “Processo alla Germania” di Barbara Spinelli, pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 15 di novembre dell’anno 2013: Alla crisi del '29, gli ultimi governi di Weimar sfiniti dal trauma inflazionistico e dalle riparazioni risposero - (…)- con una pesante deflazione che impoverì ancor più la popolazione. Esattamente come accade oggi, i dottrinari dell'austerità puntarono tutto sull'esportazione, trascurando i consumi interni. Stremato, il paese che aveva dato a Hitler il 18,3 per cento nel 1930 gliene diede il 33 nel '32 e il 43,9 nel '33, cadendo nelle mani del demagogo che prometteva lavoro, benessere e sangue. Deutschland über alles divenne il motto: la Germania sopra ogni cosa. (…). In realtà alcune dottrine economiche dei vecchi tempi (…) persistono. In particolare la dottrina cui vien dato il nome di "casa in ordine": prima che scatti la cooperazione internazionale o sovranazionale, occorre che ogni paese metta a posto da solo i propri conti. Il cosiddetto ordoliberalismo aveva messo le radici fra le due guerre nella scuola di Friburgo, fu sposato dopo il '45 dal futuro cancelliere Erhard, e negli ultimi sei anni di crisi ha assunto le fattezze di un dogma. Sappiamo come i dogmi chiudano la mente alle alternative, nonché alle soluzioni. L'offensiva di gran parte delle élite tedesche contro la Banca centrale europea è l'effetto di questa dottrina, ancora sotterraneamente intrisa di nazionalismo. (…). …la crisi è una sorta di guerra, e bellicoso è oggi il rapporto tra le nazioni europee, fondato com'è su reciproci sospetti, su risentimenti, sulla dialettica letale fra delitto e castigo, fra colpevolizzazione e espiazione. In tedesco Schuld significa colpa, e anche debito. Della colpa del debito gli Stati europei devono lavarsi - sostiene Berlino - prima che intervenga l'Europa con solidali piani comuni di salvataggi, e innanzitutto investimenti. (…). …spiega bene l'economista Ulrich Schäfer, sulla Sueddeutsche Zeitung del 13 novembre: le critiche di questi giorni all'irresistibile export tedesco - della Commissione europea, del Fondo monetario, del Sud Europa - «sono giustificate», e grave è la sordità tedesca. È un boom che in Germania s'accompagna a bassi consumi, al precariato che cresce, a gracili importazioni: dunque a un'incuria verso l'Unione. Gli errori commessi negli anni '30 tendono a riprodursi. (…). …l'Europa ha bisogno di un piano Marshall (lo propongono i sindacati in Germania) e di una conferenza sul debito delle periferie Sud, simile a quella che nel '53 cancellò generosamente i debiti tedeschi. Ha bisogno che finisca l'età dei dogmi e dei finti sovrani nazionali, a Berlino come a Parigi. Perché in quei dogmi è il suo male; è l'origine della sua presente prigionia nella smemoratezza e nel peccato di perfecta nolitio, di completa non-volontà. E ha bisogno di ripensare la pace e la guerra, sia dentro che fuori casa. Dentro casa ponendo termine alla semiguerra tra paesi santi e peccatori. Fuori casa smettendo di affidarsi a una pax americana che sta creando caos più che ordine, in una mondializzazione dove nessuno da solo si salverà. Ridivenire veramente Stati sovrani, nel nostro continente, è possibile solo se l'Europa la si fa sul serio.

giovedì 23 marzo 2017

Paginatre. 76 “1957-2017: la macchia umana sull’Europa”.



Da “La macchia umana sull’Europa” di Barbara Spinelli, pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 19 di giugno dell’anno 2013: (…). L’Unione non ha compreso la natura politica della crisi – la mancata Europa unita, solidale – e quel che resta è un perverso intreccio di moralismi e profitti calcolati. Resta l’incubo del contagio e dell’azzardo morale. Condonare subito il debito, come chiedevano tanti esperti, significava premiare la colpa. E poi all’Europa stava a cuore proteggere i creditori, dice il rapporto del Fondo, più che scongiurare contagi: dilazionare le decisioni «dava tutto il tempo alle banche di ritirar soldi dalle periferie dell’eurozona». La Banca dei regolamenti internazionali cita il caso tedesco: 270 miliardi di euro hanno abbandonato nel 2010-11 cinque paesi critici (Grecia, Irlanda, Portogallo, Italia, Spagna). Ma la vera macchia umana è più profonda, e se non riconosciuta come tale sarà ferita che non si rimargina. È l’ascia abbattutasi sull’idea stessa dei beni pubblici, guatati con ininterrotto sospetto. È qui soprattutto che salari e lavori sono crollati. E la democrazia ne ha risentito, a cominciare dalla politica dell’informazione. (…). …cinque anni di crisi son più della seconda guerra mondiale condotta dall’America in Europa, più della recessione combattuta da Roosevelt. E la via d’uscita ancora non c’è. Perché non c’è? Galbraith denuncia un nostro male: la mentalità del giocatore d’azzardo. Il giocatore anche se perde s’ostina sullo stesso numero, patologicamente. Continuando a ventilare l’ipotesi dell’uscita greca l’Europa ha spezzato la fiducia fra gli Stati dell’Unione, creando una specie di guerra. Ci sono paesi poco fidati, e poco potenti, che non hanno più spazio: i Disastri di Goya, appunto. (…). Macchie simili non si cancellano, a meno di non riscoprire l’Europa degli esordi. Non dimentichiamolo: si volle metter fine alle guerre tra potenze diminuite dopo due conflitti, ma anche alla povertà che aveva spinto i popoli nelle braccia delle dittature. Non a caso fu un europeista, William Beveridge, a concepire ilWelfare in mezzo all’ultima guerra. Le istituzioni europee non sono all’altezza di quel compito, attualissimo. Tanto più occorre che i cittadini parlino, tramite il Parlamento che sarà votato nel maggio 2014 e una vera Costituzione. È necessario che la Commissione diventi un governo eletto dai popoli, responsabile verso i deputati europei. Una Commissione come quella presente nella troika deve poter esser mandata a casa, avendo generato rovine. Ha perso il denaro, il tempo e l’onore. Ha seminato odio fra nazioni. Ha precipitato un popolo, quello greco, nel deperimento. Si fa criticare da un Fmi malato di doppiezze. È affetta da quello che Einstein considerava (la frase forse non è sua, ma gli somiglia) il sommo difetto del politico e dello scienziato: «L’insania che consiste nel fare la stessa cosa ripetutamente, ma aspettandosi risultati differenti».

mercoledì 22 marzo 2017

Scriptamanent. 82 “Convincere i poveri a comportarsi come i ricchi senza dargli più soldi”.



Da “Vivere oggi tra norme e leggi” di Adam Gopnik, pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 22 di marzo dell’anno 2015: La parola “norma” sembra essere uscita dalle paludi del gergo sociologico ed è entrata nel dibattito pubblico. È diventata un modo per dire che seguire (o stabilire) una legge non è sufficiente: per comportarsi correttamente bisogna anche seguire le regole non scritte, le pratiche comunemente accettate, le norme della società e delle istituzioni. (…). È questa la differenza. Una legge è qualcosa che infligge un costo annunciato a chi la infrange. Una norma è qualcosa che fa parte del panorama sociale, al punto che non si pensa nemmeno che qualcuno potrebbe infrangerla. Le leggi sono piani che devono essere seguiti, come la griglia delle strade di una città; le norme sono monumenti, come la vecchia Penn Station, cose che non si pensa possano essere distrutte finché qualcuno non le distrugge. Le norme politiche sono importanti perché qualsiasi assetto costituzionale conosciuto rischia di andare in pezzi se non viene interpretato sia secondo le leggi sia secondo le regole. «La Costituzione non è un patto suicida», ha detto un famoso giudice: ma la verità è che qualsiasi Costituzione può diventare un patto suicida se le persone non tengono conto della parte che è stata lasciata non scritta. Se non accetti la premessa di fondo, la barzelletta non fa ridere. Ogni assetto sociale rischia di disintegrarsi non solo se viene rigettato, ma anche se viene usato male. Se, com’è successo in molti imperi, l’esercito scopre di avere la possibilità di comprare e vendere gli imperatori, ben presto ci si ritrova senza impero, o almeno senza un imperatore degno di questo nome. Le norme sociali (…) sono importantissime. (…). Le società diventano ricche perché hanno buone norme oppure le buone norme si diffondono quando le società diventano ricche? Non c’è bisogno di essere un insulso ottimista per pensare che venga a crearsi un circolo virtuoso in cui più soldi consentono più pace sociale (e famiglie più stabili) e pace sociale e famiglie stabili aiutano la gente a fare più soldi. Di certo, nessuno dubita che esista un circolo vizioso della povertà, con la povertà che produce disperazione sociale e la disperazione sociale che produce più povertà. Insomma, le norme come quella che prescrive di andare d’accordo sono importanti davvero. Ma sono molto più malleabili e locali, meno organiche e consacrate, di quanto talvolta possano apparire. (…). Alcune norme sociali che in certi periodi e in certi ambienti sono considerate ovvie (“l’omosessualità è un reato”, “neri e bianchi non devono sposarsi”) si rivelano intollerabili, e altre che sembrano di poco conto (a bowling si va a giocare in compagnia) si rivelano indispensabili, solo dopo che sono state modificate. Un modo per spingere i poveri a comportarsi come i ricchi è dargli più soldi. Le società prospere hanno meno problemi sociali delle società povere, e quando le società povere diventano più prospere generalmente sono più soddisfatte. Quello che chiede la destra in realtà è come si fa a convincere i poveri a comportarsi come i ricchi senza dargli più soldi. È una domanda difficile. Ma l’idea che esista un rapporto causale tra cose come la permissività sessuale e il danno sociale è chiaramente una sciocchezza. Il cambiamento più sbalorditivo della vita americana negli ultimi tempi è l’inattesa scomparsa della violenza criminale.

lunedì 20 marzo 2017

Paginatre. 75 “Non c'è più posto per la verità”.

A lato: la "Press Freedom Map". 
Da “Non c'è più posto per la verità” di Salvatore Settis, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 9 di marzo 2017: La verità è dappertutto in fuga, sfrattata dalla post-verità (detta anche storytelling). Ma nella nostra martoriata penisola è in rotta perfino la voglia di conoscere la verità dei fatti. Ci vorrebbero schiere di antropologi per analizzare questa peste sociale, ma proviamo almeno ad abbozzare tre possibili ragioni: il pettegolezzo, la memoria corta, l’abitudine al servo encomio. Per cominciare: si tende a parlare non dei problemi che ci affliggono, ma delle chiacchiere che li circondano, amicizie inconfessabili, incontri clandestini, smentite imbarazzanti, segreti traditi, accordi sotterranei. Una ragione c’è: attraverso il filtro del gossip anche il più pressante dei problemi si polverizza, diventa una nebbia lontana. Da un lato, chi ogni giorno richiama ostinatamente fatti, prove, indizi; dall’altro, chi sfacciatamente nega tutto, intrecciando versioni contrastanti, furbizie, allusioni a mezza bocca. Ma in questo muro contro muro, come evitare che i dati di fatto e le vane vociferazioni sembrino avere egual peso? La pubblica opinione, sale della democrazia, resta disarmata, spinta a discutere non dei fatti ma degli schieramenti, delle appartenenze, del “chi sta con chi”. Di qui il frequente riflesso automatico di chi, colto con le mani nel sacco, si difende non opponendo fatti a fatti, ma dicendosi vittima di inveterate inimicizie. Secondo meccanismo, la memoria corta. E qui basti un esempio, le scommesse sulla durata del governo e sulla data delle elezioni, fondate essenzialmente sulle frane e gli abissi che si aprono in zona Renzi nonché sulle intemperanze e i lanciafiamme dell’ex-leader, a non sui temi più impellenti della politica: per non dir altro, la gigantesca evasione fiscale, la disoccupazione giovanile, l’impoverirsi di quelle che furono le classi medie. Cade sempre più nel dimenticatoio anche quel colabrodo destinato al naufragio che sono le due divergenti leggi elettorali di Camera e Senato: entrambe di impianto residuale, dopo i tagli operati dalla Consulta. Sembra impossibile che il Parlamento sappia esprimere una legge elettorale decente, che non venga poi bocciata per manifesta incostituzionalità. Eppure, se e quando votare lo discutiamo pensando in primis a Renzi e alle disavventure del suo clan, senza nemmen sognare una legge elettorale che sia fatta per eleggere non i più graditi ai capipopolo, ma i migliori e i più competenti. Infine, la conversione dal servo encomio al codardo oltraggio, nei confronti del medesimo ex-leader, che si è vista prima strisciare e poi esplodere a partire (guarda caso) dal pomeriggio del 5 dicembre. Al qual proposito, meglio lasciare la parola a chi ci guarda da lontano,anche se non ci vuol bene. L’ormai famoso documento JPMorgan che dettava ai Paesi “della periferia meridionale” (nominando espressamente l’Italia) l’impellente necessità di riforme costituzionali menzionò anche la necessità di battere il «consenso basato sul clientelismo politico». Questa fu l’unica fra le raccomandazioni da tanto pulpito ad essere ignorata dal governo Renzi, viceversa impegnatissimo a distribuire cariche e prebende sulla base di appartenenze tribali, ubbidienze, fedeltà, mappe del Granducato.

domenica 19 marzo 2017

Primapagina. 32 “Il caso Minzolini e le motivazioni farlocche”.



Da “Fumus eversionis” di Marco Travaglio, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 18 di marzo 2017: (…). …il voto su Minzolini va ben oltre la sua persona e il suo destino. Quello che l’altroieri hanno voluto affermare i senatori di Forza Pd, salvandolo dalle conseguenze di una legge che essi stessi avevano approvato nella stessa aula meno di cinque anni fa, è un principio che deve valere d’ora in poi per tutti i bramini della Casta: la legge è uguale per gli altri, ma non per noi; i tre gradi di giudizio valgono per gli altri, mentre noi ne abbiamo un quarto di giustizia domestica, nel senso che per noi non è definitiva neppure la condanna di Cassazione, perché poi ci giudichiamo da soli. (…). Il 31 luglio 2007, quando il centrodestra alzava le barricate per Previti, un certo onorevole Sergio Mattarella, che a occhio e croce dovrebbe essere l’attuale capo dello Stato, dichiarava alla Camera: “Quello che oggi in quest’aula celebriamo non è un giudizio nel merito delle accuse formulate nei processi all’on. Previti. Non ci compete. Siamo chiamati a prendere atto di una decisione formulata dalla magistratura in tre gradi di giudizio e passata in giudicato con la pronunzia della Corte di Cassazione. Ne dobbiamo prendere atto e assumerci la responsabilità delle conseguenti decisioni che competono soltanto a questa Camera. Non è possibile in alcun modo, con nessun argomento, complicare la realtà dei fatti che è, al contrario, estremamente semplice. Un cittadino interdetto in perpetuo dai pubblici uffici non è più titolare dei diritti elettorali, non può più votare e di conseguenza non può più essere eletto, e se è già stato eletto ed è parlamentare decade dal suo mandato ai sensi dell’art. 66 della Costituzione… sopra la quale non vi è null’altro, e sottolineo nulla… L’on. Previti è divenuto, dopo le elezioni, ineleggibile… È sempre la Costituzione all’articolo 56 che dispone che può essere deputato soltanto chi può votare, e ciò non è più consentito all’on. Previti per effetto di quella interdizione. La funzione di deputato è appunto indiscutibilmente un pubblico ufficio, e non gli è più consentito di ricoprirlo. Soltanto la Camera… può disporne la decadenza o accettarne le dimissioni, e noi siamo chiamati a farlo, salvo violare le regole della Costituzione e della legge, norme chiare e stringenti… Vi sono stati nel dibattito odierno alcuni abili, talvolta acrobatici tentativi di formulare argomentazioni volte a contestare la decadenza e le conclusioni della giunta, o addirittura a sostenere l’impossibilità di decadenza di un parlamentare, senza riflettere che ciò significherebbe che un parlamentare, qualunque colpa abbia commesso, qualunque fosse il reato da lui commesso, qualunque responsabilità abbia di qualunque natura, sarebbe comunque inamovibile: conclusione infondata, ma anche aberrante. Si tratta di tentativi che si infrangono contro la chiarezza di quelle due norme della Costituzione. Noi siamo chiamati a prendere atto semplicemente della verità dei fatti e ad adempiere al dovere di rispettare le regole poste dalla Costituzione e dalla legge”. Parole che, sostituendo Previti con Minzolini, Camera con Senato e interdizione perpetua con interdizione temporanea (di 2 anni e mezzo), si possono ripetere pari pari sul voto dell’altroieri in Senato, a beneficio di tutti i senatori paraculi che discutevano financo la fondatezza di una sentenza definitiva, farneticavano di f um us persecutionis (dopo la Cassazione!), tiravano in ballo la loro improbabilissima “coscienza” e contestavano la (loro) legge Severino senza peraltro abolirla (ma, se anche la abrogassero, Minzolini dovrebbe sloggiare comunque, essendo interdetto dai pubblici uffici). Mattarella ha per caso cambiato idea? (…).

Da “Fumus paraculonis” di Marco Travaglio, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 19 di marzo 2017: (…). Luigi Zanda. “Abbiamo lasciato libertà di coscienza. È offensivo che chi ha votato per Minzolini sia additato come colpevole di voto di scambio dopo Lotti”. La coscienza non c’entra nulla: nel luglio scorso, in Giunta per le immunità, il gruppo Pd di cui Zanda è il capo stabilì unanime che Minzolini doveva decadere e “il tema del fumus persecutionis” sollevato da FI è “ultroneo” perché “la procedura è finalizzata ad accertare la sussistenza di una causa di incandidabilità”, cioè la presa d’atto della decadenza del senatore condannato a più di 2 anni. Giovedì in aula i senatori del Pd necessari a salvare Minzolini hanno cambiato idea all’indomani del salvataggio di Lotti con i voti decisivi di Ala e, per sicurezza, di FI. Scherzi della coscienza. Rosaria Capacchione. “Ieri abbiamo votato il ddl Penale che modifica le modalità dell’appello. Con quella modifica la Cassazione avrebbe avuto l’obbligo di annullare la sentenza di condanna per Minzolini, assolto in primo grado e condannato in appello, perché non c’è stato un rinnovato dibattimento”. Balla sesquipedale: la riforma penale non è ancora in vigore e, anche se e quando lo sarà, non varrà per i processi passati. Dunque la Cassazione non dovrà annullare un bel niente: sennò andrebbero scarcerati e riprocessati da capo migliaia di condannati per mafia e altri reati in secondo e terzo grado dopo l’assoluzione in primo. Un bel controesodo dalle patrie galere.

sabato 18 marzo 2017

Scriptamanent. 81 “Scuola: la fabbrica dei temibili imbecilli?”.



Da “La fabbrica dei temibili imbecilli” di Luca Josi, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 18 di marzo dell’anno 2015: L’ultimo proclama del governo si dichiara riformista: annuncia una “Buona scuola”, non ottima, lasciando intravvedere di volerne esorcizzare una pessima. In questo Paese bulimico di parole e anoressico di fatti potrebbe significare poco; fatturassimo le intenzioni il Pil italico sderenerebbe la Merkel. Tra tanti obiettivi encomiabili sfugge però qualcosa. Quando si discute di scuola si parla di giovani cittadini che devono scoprirsi tali e di cittadini adulti, gli insegnanti, che dovrebbero concorrere a realizzare questo obiettivo. Uno è il fine, l'altro il mezzo (così come un ospedale è il luogo per provare a curare i cittadini e non per occupare gli operatori che a questo fine s'impegnano). Dei 12 punti dell'Esecutivo, almeno 8 sono focalizzati sui secondi. La nostra Italia conserva due grandi debolezze: è una nazione giovane e acerba per formazione civile, ma abitata da un popolo antico cresciuto nel disincanto sociale (non crede a nulla pensando di aver visto e provato tutto). Ogni programma o progetto che migliori la scuola, e quindi la formazione dei suoi studenti, è un progresso ma se licenzieremo imbecilli civici, il fatto che siano anche anglofoni, musico-fili, umanisti e digitalizzati significherà solo aver cresciuto un imbecille ancora più temibile. Se si domanda a un adulto “cos’è lo Stato? ” si fatica a raccogliere una risposta univoca. Se lo si chiede a un bambino, sarà come chiedere a un esploratore, privo di carte e mappe, di parlarci di un mondo che non ha mai visitato. La prima Terra di un bambino è la sua casa, il luogo in cui ha vissuto fino a quel momento: è il teatro dei suoi valori, della sua immaginazione, il suo reale. “Essendo fatti di una stoffa la cui prima piega non scompare più” - Massimo d'Azeglio - sappiamo che un bimbo vive il mondo attraverso la sua famiglia e anche nella condizione più umile conoscerà, soprattutto in Italia, un'attenzione al decoro; e se non avrà capito bene perché i genitori gli impediscono di distruggere, creativamente, le mura di casa, avrà intuito l’idea del possesso, della proprietà: non rompere qualcosa che è nostro, della nostra casa sia questo un piatto o un televisore. La famiglia ti ha perciò insegnato a difendere ciò che è tuo, l’idea del privato. Quindi, arriva l’incontro con lo Stato, con il Pubblico. Si presenta e lo fa attraverso un edificio, la scuola, che mostra spesso abbandono, incuria, sciatteria. La scuola pubblica, il primo luogo di alfabetizzazione civile – gli esterofili scriverebbero imprinting – è disarmante e t'inculca l'idea che ciò che Pubblico è sinonimo di orfano: ciò che è di tutti è di nessuno. Fatiscente. E la scuola, pagata dai propri genitori proietta l'immagine plastica di questo fallimento sociale.