"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 16 marzo 2015

Sfogliature. 37 “Charlie Hebdo, terrorismo e mestiere delle armi”.



Ora che il fiume alluvionale della cronaca, non ancora divenuta Storia, sembra avere preso un andamento carsico sottraendosi alla morbosità della comunicazione, torna utile una riflessione su quell’immane sciagura che il “terrorismo” sembra rappresentare per l’intero globo terracqueo. Mi soccorre nell’occasione un mio post che risale al 20 di novembre dell’anno 2003 e che si trova raccolto in una abbondante “miscellanea” di interessanti letture e pensieri. Scrivevo a quel tempo: Afferma Susan Sontag (letto su “la Repubblica” del 20 di novembre 2003): (…). …la parola “terrorista” è più duttile di “comunista”. Può accomunare un maggior numero di lotte e interessi diversi. Ciò probabilmente significa che la guerra sarà infinita, perché esisterà sempre qualche forma di terrorismo (così come esisteranno sempre povertà e cancro); vale a dire, conflitti asimmetrici in cui la parte più debole utilizza una forma di violenza che di solito prende di mira i civili. La retorica politica americana, che non coincide necessariamente con l’opinione pubblica del paese, è pronta a sostenere questa infausta prospettiva, poiché la lotta contro il male non ha mai fine. (…).
È la grande paura che attraversa  la coscienza democratica degli Stati Uniti d’America. A quando il nuovo fronte? Ed in quale continente? E quale altro paese che non sia ancora sotto l’influenza politico-economica della più grande potenza del pianeta subirà il prossimo attacco anti-terroristico? È la dottrina della guerra preventiva  che “fluisce” inopinatamente nella dottrina della guerra totale e globale al terrorismo? E con quali obiettivi? E con quali alleati? E sempre con decisioni unilaterali che non abbiano l’avallo delle grandi organizzazioni mondiali? Sinora la più grande potenza mondiale ha saputo opporre al “terrorismo” l’antico mestiere delle armi, “antico mestiere” condotto oggi con le armi tecnologicamente più avanzate ed in dotazione solamente alla più grande potenza militare del momento. È stato in fondo “agevole” alla più grande potenza del mondo condurre una guerra tecnologica del tipo visto in Iraq, ove l’elemento umano è stato surclassato dalla tecnologia che le moderne armi hanno raggiunto: missili teleguidati e bombe intelligenti, che non consentono ai loro utilizzatori di osservare lo scempio che esse producono, le distruzioni ed il dolore che in forme devastanti esse infliggono nella carne viva degli inermi cittadini, donne, bambini, uomini, vecchi. Sparate da altezze infinite esse hanno il vantaggio di non “demoralizzare” i loro utilizzatori, ai quali non è concesso il tempo della visione delle loro azioni e non hanno pertanto l’opportunità di rielaborare un qualsiasi “sentimento” conseguente all’azione compiuta. Ma una volta dichiarate concluse da parte della più grande potenza militare del mondo “le ostilità militari”, ovvero il più classico dei “conflitti asimmetrici” tanto per usare il termine caro alla Sontag,  ecco avanzarsi e sostituirsi una guerra condotta sul terreno, combattuta palmo a palmo, con le armi e le azioni di sempre, da parte di un esercito non più regolare ma che attinge la sua forza  nel malessere profondo di un paese martoriato ed allo stremo da decenni di embargo, mortificato ed ammutolito da una dittatura crudele,  senza tecnologie da opporre alla strapotenza americana e che ha visto le sue forze armate, la famosa “pistola fumante”, liquefarsi alla prime ondate di missili e di bombe intelligenti, senza avere neppure il tempo per brandire quelle supposte “armi di sterminio di massa” che avrebbero svolto forse una azione di contenimento e di deterrenza. La più grande potenza del mondo ha affrontato il problema Iraq inventando nel quotidiano le più inverosimili giustificazioni, giustificazioni  da offrire agli alleati più servizievoli o reticenti e ad una opinione pubblica mondiale manifestamente insofferente di fronte a decisioni che sono sembrate subito improntate alla  più cruda logica del  “mestiere delle armi”, e senza nel contempo prospettarsi e prospettare, con l’intelligenza della politica e non delle bombe, altre “uscite di sicurezza”, tanto è stata cieca la fiducia nella tecnologia delle armi possedute. Oggi l’invocazione del “serrare le fila” in questa lotta al terrorismo, che la guerra tecnologica avrebbe dovuto sconfiggere al primo urto, rivela la pochezza delle analisi degli strateghi della più grande potenza del mondo e dei suoi proni alleati-vassalli, per i quali ultimi inizia invece il calvario delle gravi e dolorose perdite in vite umane, non essendo essi più al riparo dello scudo tecnologico creato dalla gigantesca forza militare americana; sul terreno infatti, nelle azioni di guerriglia di certo diffuse e di cui i media poco danno notizia, se non per i fatti più eclatanti ed assordanti tali da bucare “il video”, il fattore umano torna ad essere preponderante e il conflitto allora torna ad essere asimmetrico, nel senso che nella battaglia condotta sul terreno conteranno di più la determinazione e la rabbia degli uomini disposti a farsi bomba con le proprie viscere, i propri muscoli, il proprio sangue, pur di sconfiggere un nemico riconosciuto, al contrario di quegli uomini che, venuti da lontano, hanno caricato tutta la loro determinazione sulla superiorità tecnologica la quale, al momento non più utilizzata, li rende quasi inermi ed in balia delle azioni avverse. Ha scritto David Grosmann in “Vivere in Europa ai tempi della paura così il terrorismo distrugge la società” pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 14 di gennaio 2015: I cittadini europei stanno cominciando a capire quali potrebbero essere gli effetti del terrorismo islamico. (…). Sto parlando delle deformazioni che un'esistenza sotto la minaccia del terrorismo produce nell'individuo e nella società: la necessità di essere costantemente allerta, di mostrarsi sospettosi, di scrutare ogni fotogramma di una tranquilla routine come se avesse un doppio fondo. Sto parlando della paura del noto e dell'ignoto, della consapevolezza di non essere in grado di proteggere i tuoi cari dalla cieca arbitrarietà del terrorismo, dell'apatica rassegnazione alle misure di sicurezza che si fanno più minuziose e più scrupolose dopo ogni attacco, dell'abitudine a catalogare, rapidamente e automaticamente, chiunque incroci per strada o si venga a trovare entro il tuo spazio fisico, a valutare istantaneamente il suo livello di pericolosità in base al colore della pelle, all'abbigliamento, all'accento. Sto parlando di come sarà difficile opporsi a un pensiero razzista quando si vive in un clima di terrore. (…). Il vero potere distruttivo del terrorismo sta infatti nel portarci a scoprire il male che esiste in noi esseri umani. La grettezza, la barbarie, il caos. E questo è vero sia per i singoli individui che per l'intera società. Il terrorismo — certamente quello degli assassini di Parigi — non vuole intavolare un dialogo ma sgretolare la società contro la quale opera. Mira a dissolvere i legami e le convenzioni che tengono uniti gli esseri umani a dispetto delle loro differenze e delle loro controversie, a disgregare rapporti creati e consolidati con grande fatica e non sempre con successo tra persone appartenenti a gruppi diversi, ad abolire le aperture del mondo illuminato all'uguaglianza, alla dignità umana, al riconoscimento della libertà di espressione e alla democrazia, che sono fra le maggiori conquiste dell'umanità. Il terrorismo tenta di colpire gli esseri umani nei punti in cui — dopo secoli di guerre violente e brutali e un lento processo di maturazione sociale e politica — questi ultimi sono riusciti a superare le pulsioni primarie, la barbarie, la brutalità. E così facendo ferisce tutte le componenti della società e anche gli appartenenti moderati dell'Islam. (…). È che non è peregrino pensare che al tempo della globalizzazione e dei nuovi equilibri internazionali – così come al tempo in cui Susan Sontag (1933-2004) intuiva come alla parola “terrorismo” si potessero “accomunare un maggior numero di lotte e interessi diversi”-  quella paura inoculata nelle arterie profonde di società di diseguali e di povertà sempre crescenti possa tornare utile affinché quelle società, maledettamente sempre più inquiete, possano essere meglio controllate restringendone libertà, diritti fondamentali e disintegrando sogni e speranze per un nuovo umanesimo di milioni e milioni di uomini e donne. Sono mutate forse le condizioni geopolitiche dal tempo di quell’indimenticata intellettuale per la qual cosa i fatti di Parigi non hanno scatenato ancora una nuova, ennesima operazione di prevenzione e lotta al terrorismo? Il tempo verificherà la nuova stagione.

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