Da “Ove si
delinea la terrificante linea gerarchica della scuola italiana” di Aldo
Ettore Quagliozzi, tratto dal volume “I professori”– cap. XXIX,
AndreaOppureEditore (2006), pagg. 194 € 8,00 -: (…). …è tutto un rincorrersi di
ricordi e di immagini di una esperienza personale chiusa nell’impenetrabile
mondo della scuola pubblica italiana. Ed è un riconoscere situazioni e
problematiche che un tempo ti parevano essere riservate alla tua personale
sventura di essere capitato in un certo luogo, in una certa scuola e con quella
“testa gloriosa” di preside allora, di
dirigente poi, tanto la sostanza non subiva variazione alcuna, mentre scopri
che in fondo quel tale luogo, quella tale scuola, quella tale “testa gloriosa”
hanno una universalità insospettata. Ma come avrebbe potuto la scuola pubblica
italiana affidarsi a dirigenti all’altezza della situazione se essa, scuola
pubblica italiana, ha sempre pescato al suo interno chi promuovere allo scranno
massimo di carriera, proprio tra quel suo personale che dopo anni e anni di
ripetitiva attività, di melensaggini varie e non avendo più alcunché da dire
sul piano pedagogico-didattico, si sobbarcava la “fatica” di un concorso per
abbandonare la “cattedra” e per assurgere ai fasti dirigenziali? La selezione
operata è sempre avvenuta con un terribile “fattore limitante” dovuto
all’estrazione propria dei futuri dirigenti scolastici dalle file degli
insegnanti quasi sempre i più demotivati, i più angosciati dall’idea di dover
nel quotidiano sobbarcarsi la “fatica” di dare ascolto alle voci inquiete delle
giovani generazioni, senza risposta alcuna da offrire; molto più comodo allora
leggere e rispondere alle “sudate carte” del provveditorato prima, del C.S.A.,
terribile acronimo, poi. (…).
Da “Per la
scuola non basta uno slogan” di Nadia Urbinati, sul quotidiano la
Repubblica del 25 di febbraio 2015: (…). …il progetto detto "buona
scuola" non cambia (…) (il) trend privatistico, ma lo legittima, lo
regolamenta e lo stabilizza. Lo ha confermato proprio il presidente del
Consiglio in conferenza stampa: «In futuro chiederemo autonomia anche dal punto
di vista economico, così che una parte della dichiarazione dei redditi possa
andare a una singola scuola». Ovvero, chi non ha figli si sentirà libero di non
dare alcun contributo alla scuola pubblica, trattata come la religione o i
partiti politici: oggetto di libera scelta individuale. Benché la scuola sia un
bene pubblico, non privato che si può scegliere o non scegliere. La logica che
guida questo progetto è opinabile: prima di tutto perché associa la tassazione
per beni pubblici al consenso individuale — questo è esattamente quanto dagli
anni Settanta sono andati predicando i teorici liberisti; questa è stata la
filosofia che ha guidato i governi Reagan. E il reaganomics è la direzione di
marcia del nostro governo sulla scuola statale. Lo Stato si impegna a istituire
e sostenere scuole di ogni ordine e grado: lo Stato, non i singoli secondo la
loro personale preferenza e decisione. È evidente che il governo cerca di
vendere il prodotto appellandosi all'autonomia scolastica. Ma legare il destino
della scuola statale alle preferenze individuali non è una condizione di
autonomia ma di assoluta dipendenza dal privato. (…).
Da ”Il
vecchio Preside di Cuore nella trappola della Buona Scuola” di Francesco
Merlo, sul quotidiano la Repubblica del
14 di marzo 2015: Nell’Italia degli Schettino e dei capetti improvvisati vogliono fare
anche del preside un piccolo boss di paese. Senza insegnargli il comando, senza
prepararlo alla leadership dell’azienda pubblica più delicata e più grande,
senza formazione né stipendio da manager. Gli danno infatti il potere e la
responsabilità di assumere docenti per cooptazione e di premiare e punire il
merito distribuendo danaro. E tutti capiscono che, solo per l’effetto annuncio,
la famosa stanza del preside sta già diventando l’ufficio raccomandazioni e
suppliche di quel proletariato intellettuale di cui parlava Salvemini. Questa è
insomma la definitiva trasformazione della figura più bella della scuola
italiana in un Soprastante che amministra la disperazione e l’irrilevanza
sociale dell’insegnante meno pagato d’Europa che, al contrario dei suoi
allievi, non ha i mezzi per comprarsi un computer né per abbonarsi alle riviste
specialistiche come Studi italiani di filologia classica di Le Monnier,
acquistare edizioni critiche di questo o di quell’altro testo greco,
l’Oxoniensis per esempio o i libri della Fondazione Valla, e neppure i volumi
con il testo a fronte della vecchia Utet, né può permettersi l’iPhone e il
tablet che per il governo Renzi sono sicuramente più importanti della matita
rossa e blu. (…). Il “signor direttore” di De Amicis, che era il più bravo dei
professori, una specie di primario di quel mondo rotondo e perfetto che formò
l’identità italiana, diventa dunque il caporalato delle questue, degli
incarichi comunque poveri, dei piccoli conforti, proprio come faceva Totò
quando catalogava «il latore della presente» fregiandosi del titolo di
presidente della Spa (Società parcheggiatori abusivi). (…). Nell’immaginaria
scuola dell’autonomia il preside già dal 2001 è pomposamente ribattezzato
“dirigente scolastico” con l’idea nominalistica, che piacerebbe certamente agli
antichi grammatici, secondo la quale c’è una magica corrispondenza tra il nome
e la cosa. In realtà il preside oggi fa soprattutto il procacciatore di piccoli
fondi europei (si chiamano “Pon” quelli per le zone disagiate) attraverso i
progetti a finanziamento (…). Insieme al segretario, che a sua volta è diventato
intanto “direttore”, il preside dirige poi i tecnici e i bidelli, promossi a
loro volta “collaboratori scolastici”. E sovrintende il collegio dei docenti
per garantire, per esempio, che in Italiano si vada davvero dal Trecento a
Camilleri. E assegna le cattedre sezione per sezione e classe per classe. (…).
E si capisce qui benissimo che nulla si può cambiare nella scuola italiana sino
a quando non si restituisce agli insegnati l’antico decoro a partire
dall’innalzamento dello stipendio a livelli di decenza europea. Non è
trasformando i presidi in tanti malpagati e frustrati dottor Orimbelli, il
capufficio che sbeffeggia Fracchia, che si può restituire credito sociale,
appeal, fascino e autorevolezza a una professione irresponsabilmente degradata.
(…). E che l’idea del preside-sceriffo sia improvvisazione si capisce dando
un’occhiata ai brogli, alle irregolarità e alle inadeguatezze dei concorsi a
preside. Ne sono stai annullati tantissimi: in Molise, in Abruzzo, in Toscana.
E nell’ultimo concorso in Sicilia la commissione non solo corresse 1400
compiti, di dieci pagine ciascuno, in meno di tre ore, ma promosse un testo
dov’era scritto: «Ciò induce il dirigente ha (sic) ricercare accordi». E
nessuno si accorse di quel candidato che aveva scritto “ledership”. Il concorso
fu annullato ma i trecento promossi furono salvati da una legge nazionale. Sono
ancora presidi. E presto saranno clientela, baronato dei poveri, anche loro,
come Totò, presidenti di una Spa.
Da “Le
condizioni economiche degli insegnanti” tratto da “Scritti sulla scuola” di
Gaetano Salvemini – Feltrinelli Editore -: (…). Per il grosso pubblico, che non vive
nella scuola, l'insegnante non é un uomo, che mangia, dorme e veste panni: è un
essere astratto, indipendente dalle leggi fisiologiche della nutrizione,
collocato in un mondo ideale, dove non ha bisogni, non ha preoccupazioni, non
ha dolori e si nutre solo di bacche d'alloro e di cipresso. E quando
quell'essere convenzionale scende dai cieli azzurri, dove non avrebbe da far
altro che disputar lo spazio agli angeli e ai passerotti, e rivela le miserie e
le ingiustizie di cui è vittima, ed afferma che prima di essere insegnante egli
è uomo, i più si scandalizzano e gli gridano in tono di rimprovero:
"pensate all'ideale, non di solo pane vive l'uomo”. Certo l'ideale è un
buon viatico per le lotte della vita, e noi ne abbiamo: ne abbiamo anche
troppo; ma questo non vuol dire che il giusto, il necessario miglioramento
delle nostre condizioni materiali non debba essere oggetto delle nostre
preoccupazioni e delle nostre cure! Non di solo pane vive l'uomo; ma prima di
tutto vive di pane! (…). Chi si occupa di voi? L'opinione pubblica - sarebbe
follia illudersi - è indifferente a vostro riguardo: gli stessi padri di
famiglia, che vi affidano i loro figli, non si curano affatto di voi. Alle
famiglie, in questo triste periodo di lotta per l'esistenza, importa solo che i
figli passino gli esami: studiando, se è possibile, ma passino a tutti i modi
gli esami. Che importa ad esse se il professore è un uomo di genio o un
arfasatto? Esse non distinguono che due categorie di professori: i buoni e i
cattivi; buoni, quelli di manica larga; cattivi, gli altri. Il babbo non si
occupa di quel che avviene a scuola, se non alla fine dell'anno, nei giorni
degli scrutini e delle prove: allora la mammina non fa che annoiar tutti i
santi colle novene e colle litanie, la sorella appena vede il pericolo della
bocciatura si fa venir gl'isterismi, il babbo vuol la pace in famiglia e
difende a spada tratta il poco intelligente rampollo. (…). Vi è forse
favorevole il Parlamento? I deputati e i senatori sono in tutt'altre faccende
affaccendati, e non si preoccupano che di soddisfare le richieste dei gruppi
sociali politicamente ed elettoralmente più forti, mentre voi siete pochi e deboli.
Potete voi fare affidamento sulla buona volontà dei Ministri? I Ministri sono
quel che è il Parlamento, come il Parlamento è fatto ad immagine e somiglianza
del paese. Quale Ministro non sarebbe lieto di soddisfare i vostri desideri
legando il suo nome a una riforma, che lo farebbe amare e benedire da voi
tutti? Ma si tratta di chiedere quattrini, e quando si arriva ai quattrini le
difficoltà sono enormi, e il Ministro non può fare miracoli, non può imporre ai
colleghi e al Parlamento una grave spesa, di cui la opinione pubblica non sente
l'assoluta necessità. Volete che un Ministro provochi una crisi politica sulla
questione degl'insegnanti secondari? Sarebbe un atto donchisciottesco, in cui
nessuno lo seguirebbe: egli perderebbe il portafoglio di ministro e voi continuereste
a star male come prima. (…). È inutile, dunque, farvi illusioni destinate ad
essere smentite dai fatti. In chi volete sperare? (…).
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