“Untitled 5” di Luca Viapiana (2014). Oil, Acrylic on Thermal Paper applied on
Canvas. Cm 69x68.
Il sabato 18 di agosto dell’anno
2012 sul quotidiano la Repubblica appariva, nelle pagine della “Cultura”, un
testo che portava per titolo “Quant'è
crudele la crisi vista dalla provincia”. La lettura mi rivelava poi essere quel
testo un estratto di un lavoro editoriale a firma di Edoardo Nesi pubblicato
per l’editore Bompiani – “Le nostre vite
senza ieri”, pagg. 160, € 16 –. Si era a quel tempo, che sembra perdersi
lontano nelle ere geologiche, appena passati dai governi dell’uomo di Arcore al
governo del “tecnico” Monti, per succedere poi il governo del Letta jr. per
approdare infine al governo del “pifferaio” – copyright di Eugenio
Scalfari, suo estimatore a fasi lunari alterne – dell’oggi. Mi ha incoraggiato
riprendere quel testo tutta una serie di ragioni. La prima delle quali è stata
l’irresistibile ascesa, tra i “post più popolari” di questo blog, del
post del 21 di febbraio ultimo che ha per titolo “L’Italia triste senza più vere
passioni”, segno evidente che il tema affrontato ha i suoi estimatori. In
un mondo rappresentato con estrema banalizzazione come popolato da un ben
nutrito numero di “gufi” e di “rosiconi” non davo per certo che
quel post riuscisse ad interessare i pochi malcapitati navigatori dell’immensa
rete approdati sulle impervie, desolate spiagge del mio blog. Ma è accaduto. Buon
segno.
È il segno evidente che, dopo venti anni di illusionismi di ogni sorta
messi in atto dall’uomo di Arcore, e dopo i molteplici annunci di apparizioni
di luci in fondo al tunnel di montiana memoria, e dopo ancora la rapida
scomparsa dall’orizzonte della cometa del Letta jr. a seguito degli interni
regolamenti dei conti di una parte politica, si disperava che argomenti di tal
genere potessero ancora interessare alla gente normale, a meno che non si dia riduttivamente
per scontato che questo blog sia improvvidamente visitato da tutti i “gufi”
e da tutti i “rosiconi” in circolazione tanto invisi al “pifferaio” d’Arno. Ma una
ragione in più per riproporre il testo di Edoardo Nesi sta proprio nel titolo
del Suo lavoro editoriale - “Le nostre
vite senza ieri” - e non tanto per il titolo che sul quotidiano la
Repubblica era stato dato. Poiché quel titolo ha l’ambizione di proporre una “verità”
che al tempo d’oggi sembra essere misconosciuta se non addirittura etichettata
come una colpevole deviazione da un presente che deve essere la misura unica ed
il parametro insostituibile entro i quali misurare l’umana esistenza. E così
secondo la vulgata corrente il “ieri” non ha valore alcuno così
come anche il “domani” dal quale lo sguardo deve essere distolto per
misurarsi solo sull’oggi, per non valutarne appieno le conseguenze su chi sarà
dopo di noi, gli esseri umani del tempo futuro. Ma questo aspetto del “fare”
politico senza àncora alcuna con il passato - “ieri” - e senza una
proiezione che sia sul “domani” è una caratteristica
antropologica propria degli uomini della politica del bel paese che non era
sfuggita di certo a quell’Ugo Ojetti (1871-1946) che conversando con il grande Indro
Montanelli – che lo ha riportato in “Soltanto
un giornalista” – ebbe a sostenere: (…). …il nostro è un Paese di contemporanei
senza antenati né posteri. Cioè senza passato e senza futuro. (…). “Senza
futuro”, per l’appunto. E questa contemporaneità senza
legami con il passato e senza uno sguardo che sia rivolto al nostro futuro è
una contemporaneità non delle più felici. Ha colto bene l’irrilevanza e la
fatuità di questa contemporaneità senza un “ieri” e senza un “domani”
che sia Daniela Ranieri in un Suo “bricolage” letterario - inteso alla
maniera dell’antropologo Claude Lévi-Strauss, il quale definiva il “bricolage intellettuale”
"un
riflesso sul piano pratico dell'attività mitopoietica", ovvero di quell’abile
attività dei politici e degli imbonitori in genere “consistente nel creare miti o
considerare miticamente fatti, eventi ecc.” (Sabatini-Coletti) - apparso
su “il Fatto Quotidiano” del 22 di luglio dell’anno 2014 – “Tra rivoluzione e palle in buca un premier innamorato degli spot”
-: È
la volta buona. L’Italia riparte. Andare a vedere le carte. A patto di non
gettare la palla in tribuna. È l’ultima spiaggia. Il meglio deve ancora venire.
Ci divertiremo insieme. Dobbiamo smetterla di piangerci addosso. Il risultato
lo portiamo a casa. Le riforme non possono aspettare. Un partito che studia.
Per i nostri figli e i nostri nipoti. Poche chiacchiere. Facciamo ripartire il
treno. Togliamo il sasso dai binari. L’Italia può essere il locomotore
d’Europa. Nessun piano B. Le riforme sono come il Pin del telefonino.
Sblocchiamo la tastiera. Avanti tutta. Cambiare davvero. Settimana decisiva.
Non c’è un minuto da perdere. Siamo i depositari della speranza. Non stiamo
facendo le corse. Sarà una rivoluzione copernicana. È la svolta buona.
Chiudiamo 30 anni di dibattiti. Non cadiamo nel derby ideologico. Mille giorni
per cambiare l’Italia. Settimana chiave per le riforme. 54mila nuovi posti di
lavoro. Stiamo facendo la rivoluzione del buon senso. Tornare sull’idealità. Ci
vuole senso di responsabilità. Siamo in dirittura. Siamo a un bivio. Lavoriamo
sodo. Ci hanno dato un’opportunità. Non andare a testa bassa sulle cose da
fare. Se non cambiamo noi tradiamo noi stessi. Mare Nostrum non può essere solo
nostrum. Dobbiamo cambiare le cose che abbiamo già detto che dobbiamo cambiare.
Siamo la generazione Erasmus. Non chiediamo un giudizio sul passato ma vogliamo
cominciare il futuro. Piaccia o meno ai frenatori. È importante regalare un
sorriso. La gioia di una bevuta insieme . Ogni volto corrisponde a un voto ogni
voto corrisponde a un volto. La Costituzione appartiene al popolo italiano.
Portare un po’ di caldo. Non siamo qui per mettere le bandierine. Il PD non
lascia agli altri la bandiera della libertà. È un derby tra rabbia e speranza.
Mi gioco l’osso del collo. In 15 giorni si chiude. Ci metto la faccia. C’è
un’identità da respirare insieme. Antonio Meucci è un uomo incredibile. Trasformare
l’orgoglio in responsabilità. Non essere solo un puntino su Google maps. No
alla palude. L’Italia non ha paura dei giudizi però io ho un po’ paura dei
pregiudizi. Non si dorme la notte col 41%. Il futuro ha bisogno di noi. Il
futuro è casa nostra. Ritroviamo l’anima dell’Europa. Se l’Europa oggi si
facesse un selfie. La politica ha una sua dignità. Fuori c’è foschia. Oggi
c’era il sole ma faceva freddo a Prato. Formazione politica ma anche serie tv
americane. È un sogno. Vogliamo dare una chance al possibile e all’impossibile.
C’è bisogno di ripartire. Io tutta la vita. Tocca a noi guidare la macchina.
Riscoprirsi Telemaco. Non cambiare tutto ma cambiare tutti. Dare un’anima al
riformismo. Un’Italia che sia leader e non follower. Non lasciare ma raddoppiare.
Le cose giuste sono giuste. Abbassare i toni. Alzare le ambizioni. La scuola è
la madre di tutte le battaglie. Il lavoro è la madre di tutte le battaglie. Lo
stop alla burocrazia è la madre di tutte le battaglie. Noi più forti dei
pagliacci. L’Europa deve tornare ad essere una frontiera. Ha vinto la speranza.
Manderemo la palla in buca. Nessun rinvio. Non siamo schizofrenici. Il
girotondo lascia sempre lì. Non tramo ma non tremo. Non è un punto d’arrivo ma
di partenza. Non si vince per prendersi una rivincita. Prima c’erano falchi e
colombe ora gufi e sciacalli. Lo dico a chi ci segue da casa. Non ho la
bacchetta magica. Comanda chi ha i voti. Lotterò su ogni pallone. O lo metto in
forcing o non tocco palla. Non c’è un problema Italia in Europa, c’è un
problema Europa nel mondo. Le regole si scrivono insieme. Siete voi che ci fate
vincere. Non ci sono più alibi. Non abbiamo più scuse. Ma siamo l’Italia, e ce
la faremo. È il mantra dell’oggi. Mi si lasci passare la lunga
divagazione e si ritorni al proponimento mio principale, ovvero la
riproposizione del testo di Edoardo Nesi: (…). Noi che ogni mattina temiamo di dover
ammettere che in tutta la sua storia l'Italia ha vissuto un unico momento di
ricchezza più o meno condivisa, un breve quarantennio appena finito, insieme al
Novecento. Noi che si vive come le lepri, con le orecchie basse, perpetuamente
spaventati dai tagli che ci sono stati inflitti e dalla minaccia di quelli che
verranno, gettati a capofitto in un'altra recessione mentre lo spread rimane
alto, vittime dell'incubo che non esista una correlazione così diretta tra i
nostri sacrifici e la risoluzione della crisi, perché non è noi che vogliono
davvero far fuori, gli gnomi senza nome della grande finanza globale, ma
quell'invenzione romantica e fallata che è l'euro, e con l'euro anche l'Europa.
Noi che inseguiamo le nostre giornate assistendo allo sgretolarsi di un sistema
industriale su cui facevamo affidamento per vivere degnamente le nostre vite.
Noi che siamo chiamati a pagare sia i pochi debiti che abbiamo fatto, sia la montagna
di debiti che hanno contratto altri. Noi che viviamo in un'Italia ferma,
fiaccata sia dalla crisi sia dalle cure che avrebbero dovuto salvarla. Noi che
ci rifiutiamo di vedere la crisi come un inevitabile flagello biblico, la
punizione dell'empio, l'abbattersi del pugno d'un dio cattivo sui suoi
immeritevoli fedeli. Noi che professori non siamo, ma davanti a una crisi
totalmente nuova, nata da quella globalizzazione che ha chiuso le nostre
fabbriche e condannato alla disoccupazione il 36% dei nostri figlioli, ci
chiediamo se sia davvero necessario e inevitabile rispondere imbracciando
ideologicamente le antiche ricette, o quelle liberiste o quelle keynesiane.
Perché a noi ignoranti della provincia più profonda sembra impossibile salvare
l'Italia solo e semplicemente tagliando con l'accetta la spesa pubblica per
ridurre le tasse alle imprese, poiché chi di giorno è un piccolo imprenditore o
un impiegato o un operaio, alle sei di sera ridiventa una cittadino, una
persona, e ogni taglio indiscriminato allo stato sociale finisce per abbattersi
anche su di lui, consigliandolo a minori consumi e a una vita di retroguardia.
(…). E così a noi (…) non resta che metterci le mani nei capelli ogni volta che
sentiamo i politici parlare a vanvera di crescita, e scuotere la testa ogni
volta che leggiamo le lunari ricette per lo sviluppo di insigni economisti che
vivono lontano dall'Italia, e del nostro sistema industriale mostrano di non
aver mai capito nulla.. Perché anche il più piccolo degli imprenditori, anche il
più modesto dei commercianti potrebbe spiegare a questi signori che la crescita
non tornerà finché nel paese non si scioglierà la paura del futuro che
attanaglia i cuori di tutti, finché non si diffonderà un'atmosfera respirabile.
(…). Ci vorrà la politica, certo. Quella vera. Quella che sa costruire, e non
solo tagliare. Quella che in Italia, forse, non abbiamo mai conosciuto. Ci
vorrà forza e coraggio. Io sono ottimista. È da questa gente reale,
concreta, che vive nei fatti la propria difficoltà d’esistere, che si contano
le miglia e miglia di distanza dei parolai dell’oggi da essa, dei “pifferai”
dell’inverosimile, degli illusionisti di sempre. Ha scritto Alberto Arbasino “In questo Stato. Il «caso Moro»: l'Italia
in agitazione” - Garzanti Novecento, 214 pagg. € 11.00 ISBN 978881160080-0 -:“(…).
…tutti quei nuovi modi di fare e d’essere e modi diversi di produrre o
aggregare, interamente verbali e vocali e fonici e mortificanti per
l’intelligenza e presi fintamente sul serio dai giornali e niente affatto
svergognati benché fatti soltanto di ‘bla’, senza mai un ‘non diciamo cazzate’
da parte di chi riferisce o intervista o commenta”.
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