Da “Tsipras
farà cambiare passo all’Europa”, intervista di Eugenio Occorsio al
professor Jean-Paul Fitoussi pubblicata sul settimanale “Affari&Finanza”
del 2 di febbraio 2015: «Finalmente dall’Europa cominciano ad
arrivare buone notizie. Negli ultimi giorni ne sono arrivate due, entrambe
importantissime: l’annuncio del quantitative easing della Bce e la vittoria di
Syriza alle elezioni greche. Vogliono dire che qualcosa sta finalmente
cambiando nell’eurozona ». (…). «Salutiamo con gioia la decisione del popolo
greco di eleggere un governo impegnato in un fondamentale cambiamento della
politica europea» (…). Professor Fitoussi, perché tanta gioia? Non sarà
pericolosa questa voglia di avventurismo del nuovo governo greco, il fatto che il
loro modello è Che Guevara? «Macché. Come avete visto dai primi incontri ad
Atene con il presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz, di giovedì
scorso, e il giorno dopo con il capo dell'Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, si
tratta di persone molto ragionanti. Credetemi: finora gli unici pericoli per
l’Europa li hanno dati la Merkel e i suoi epigoni. Ma lo sa che il reddito dei
greci è sceso del 40% dall’inizio della crisi, che non c’è più copertura a
malattie che non esistevano da 70 anni? Che la gente è alla fame, il tasso di
suicidi aumenta, metà dei giovani sono senza lavoro? Come membri della
Progressive Economy Initiative abbiamo preparato un rapporto chiamato Call for
Change in occasione delle elezioni europee del 2014 in cui anticipavamo i principi
e i programmi di Syriza. Somministrare dosi massicce di austerity a un malato
grave equivale ad ucciderlo. Cosa volevano aspettare, i governi e la
commissione europea, per capire che è ora di cambiare? Una rivoluzione per le
strade di Atene? Sangue e forconi per le capitali europee? Dobbiamo ritenerci
fortunati se il cambiamento è arrivato per la via migliore, quella di libere e
democratiche elezioni. E che la politica si riprende finalmente il suo ruolo. I
tecnici devo fare quello che dicono i po-litici, non il contrario. Italia,
Francia e gli altri devono prendere esempio».
Le sembra verosimile
quest’accordo segreto di cui si parla in base al quale già da un paio di mesi
sarebbe stato ristrutturato il debito greco rendendolo più sopportabile? «Non tanto.
Mi sembra una ricostruzione un po’ strana, sarebbe una strada obliqua e del
tutto irrituale. Intendiamoci: gli accordi sono fin dall’inizio soggetti a una
rinegoziazione continua, era già previsto che le scadenze potessero allungarsi
così come i tassi scendere in accordo con le condizioni di mercato, tutto
questo almeno per la parte di competenza degli Stati perché le condizioni con
Bce e Fmi sono difficilmente negoziabili. Ma questo Tsipras lo sa benissimo.
Quello che chiede è una misura molto più massiccia di riscadenzamento dei
debiti e di revisione dei tassi, che è ben altra cosa». I tempi stringono, il
28 febbraio scade il programma dell’Efsf, il fondo europeo di soccorso. Ce la
faranno a negoziare in così breve tempo, considerando che nel frattempo la
Grecia deve anche eleggere il Presidente della Repubblica? «Non è una data
vincolante. Esistono meccanismi tecnici già accertati per poterla rinviare
almeno all’estate. E anche per garantire, il che è decisivo, l’accesso della
Grecia al quantitative easing. Vorrei rivolgere un appello alla Bce, alla
Commissione Ue, all’Fmi, perché non boicottino Tsipras ma anzi diano al suo
Paese lo spazio vitale necessario perché questo possa dimostrare che un’altra
via è possibile, non quella dell’austerity a tutti i costi ma quella
dell’espansione, dello sviluppo, certo anche del rigore del bilancio ma non
inteso come solo sacrifici ma semplicemente trasparenza, taglio delle spese
inutili, lotta all’evasione fiscale. L’importante è considerare Tsipras un
interlocutore affidabile e un partner attivo. Le istituzioni stesse, oltre ai
governi europei, devono rigettare le minacce e i tentativi di intimidazione
rivolti alla Grecia e ai suoi nuovi leader ». Un nodo che è emerso nei primi
giorni di Tsipras è la destinazione dei fondi prestati a profusione
dall’Europa: sono andati ai cittadini greci o alle banche internazionali? «La
questione è posta male. È vero, dei 240 miliardi molti sono andati alle banche
francesi e tedesche. Ma era necessario perché queste non interrompessero le
linee di credito con le banche greche, e quindi di fatto non lasciassero alla
fame i cittadini».
Da “Europa,
ascolta le parole di Atene” di Mariana Mazzuccato, sul quotidiano la
Repubblica del 16 di marzo 2015: (…). “Unione fiscale” vorrebbe (…) dire che
i Paesi deboli (Italia, Grecia, e via dicendo) oggi dovrebbero tagliare le
spese … e naturalmente i salari dei lavoratori. Una soluzione (…) molto lontana
dalla realtà. Per diventare competitivi servono investimenti intelligenti, non
tagli. (…). …permettetemi di elencare alcuni dei ragionamenti che abbiamo
ripetuto nei nostri lavori ed interventi degli ultimi anni (…). Le posizioni
convergono sull’idea che quando il settore pubblico “stringe la cinghia”
peggiora la crisi invece che risolverla sia nel breve periodo (quando le imprese
ed i consumatori privati stanno risparmiando) che nel lungo periodo (quando la
vera crescita ha bisogno di investimenti strategici in nuove tecnologie e
capitale umano). Quello che fa la differenza è il modo e la intelligenza con
cui i soldi vengono spesi. Cominciamo dal breve periodo. Richard Koo afferma da
tempo nei suoi scritti che l’Europa ha confuso i propri problemi strutturali
con i suoi, ben più urgenti problemi di contabilità in bilancio. Koo si
riferisce al fatto che, come accade puntualmente durante le crisi determinate
da un eccessivo debito privato, le imprese tentano di ridurre la propria
esposizione finanziaria e, per quanto i tassi di interesse scendano si
rifiutano di investire. È quanto vediamo succedere oggi: nonostante tassi di
interesse pari a zero gli investimenti e la domanda non crescono e tutto ciò
genera deflazione. Se, contemporaneamente al settore privato, anche quello
pubblico inizia a comportarsi pro-ciclicamente, cioè a “stringere la cinghia”,
si trasforma una recessione in una vera e propria depressione. Ed è proprio ciò
che è accaduto. Koo sostiene da vari anni che l’Europa dovrebbe imparare dagli
errori compiuti dal Giappone, durante la crisi degli anni ‘90, quando il
governo, ha aumentato le tasse e tagliato le spese; così il deficit, a causa
dell’imponente calo negli investimenti e nella domanda, invece di ridursi è
cresciuto del 70%. Purtroppo l’Europa non ha ancora imparato la lezione: i
governi nazionali continuano a tagliare e il piano di investimenti “Juncker”
della UE si basa sulla speranza ridicola che 21 miliardi possano produrre un
coefficiente di leva pari a quindici, trasformando come per magia la cifra
iniziale in un investimento di oltre 300 miliardi di euro. Invece gli Usa la
lezione giapponese l’hanno un po’ imparata, subito dopo la crisi, accanto al
quantitative easing, hanno anche speso 800 miliardi di dollari in un piano di
investimenti e di innovazione nel campo dell’energia rinnovabile (…). Una
scelta anticiclica che nell’immediato ha fatto crescere il loro deficit del 10%
(e noi ci mettiamo a litigare per un aumento del 3%!) ma che oggi produce
risultati: il Pil cresce, il rapporto fra debito e Pil cala e la divergenza tra
la crescita americana e quella dell’Unione Europea continua ad aumentare. Veniamo
al lungo periodo. Oggi in Europa i Paesi che se la passano bene non sono quelli
che hanno stretto la cinghia, bensì quelli che hanno investito e investono maggiormente
in tutti quei settori ed aree in grado di determinare un incremento della
produttività, come formazione del capitale umano, istruzione, ricerca e
sviluppo, nonché nelle banche pubbliche e nelle agenzie che favoriscono le
sinergie tra settori diversi ad esempio le collaborazioni tra mondo scientifico
e imprese. Il problema dell’Italia non è il deficit eccessivo ma la mancata
crescita, perché da almeno venti anni non si fanno investimenti di questo genere.
Ciò che è mancato all’Europa quindi non è un piano comune di tagli ma un piano
comune di innovazione e di investimenti. Che è ben diverso dal litigare sul
fiscal compact. È lo stesso piano di investimenti che Yanis Varoufakis
teorizzava, prima di prestare la sua competenza di economista come ministro del
governo greco. Varoufakis viene spesso accusato di essere un ministro troppo
accademico e non abbastanza “politico” e concreto. Niente di più lontano dalla
realtà. Ciò di cui oggi abbiamo bisogno sono proprio i politici in grado di
coniugare delle prospettive di ampio respiro con gli strumenti di intervento
nel breve periodo. Varoufakis lavora dal 2010 a quella che chiama una «modesta
proposta per l’Europa» un piano di investimenti che ponga fine alle divergenze
competitive che impediscono di uscire dall’attuale crisi. Se fosse stato
ascoltato 5 anni fa, non saremmo di nuovo nei guai con i vari possibili “exit”
dei prossimi anni (e non solo quello greco!). La sua proposta mirava alla
creazione di denaro da destinare all’attività produttiva. L’idea era favorire
una crescita trainata dalla Banca europea degli investimenti attraverso
l’emissione di bond destinati all’investimento produttivo — con la Bce pronta
ad acquistare quei bond, che avendo un rating tripla A sarebbero stati molto
meno rischiosi dei bond nazionali. Finalmente l’Europa ha approvato un piano
importante di quantitative easing, ma questo non basta, perché occorre dare una
direzione al nuovo denaro creato, per evitare che finisca soltanto nelle casse
delle banche le quali non necessariamente prestano denaro all’economia reale.
Purtroppo, sino a quando la Germania non ammetterà che le differenze tra paesi
forti e paesi deboli sono dovute ai mancati investimenti strategici, finché non
smetterà di proporre unicamente tagli ai bilanci nazionali, sarà difficile
articolare una vera soluzione. Per quante riforme strutturali si possano
architettare, l’Europa non andrà da nessuna parte se non inizierà a programmare
un futuro nuovo. Un futuro nel quale sia il settore pubblico che quello privato
spendono di più nelle aree che favoriscono la crescita di breve e lungo
termine. Proprio come su scala nazionale la Germania fa con il suo programma
energiewende , che cerca di ottenere una vera trasformazione verde basata su
nuove tecnologie e nuovi modelli di consumo e distribuzione. Insomma l’Europa
dovrebbe fare come la Germania fa e non come la Germania predica ai Paesi
europei in difficoltà. La «stagnazione secolare» non è affatto inevitabile, è
un prodotto degli investimenti che decidiamo di fare o non fare. È ora di
cambiare direzione, progettare, e creare, un progetto veramente comune.
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