Ora che il fiume alluvionale della
cronaca, non ancora divenuta Storia, sembra avere preso un andamento carsico sottraendosi
alla morbosità della comunicazione, torna utile una riflessione su quell’immane
sciagura che il “terrorismo” sembra rappresentare per l’intero globo
terracqueo. Mi soccorre nell’occasione un mio post che risale al 20 di novembre
dell’anno 2003 e che si trova raccolto in una abbondante “miscellanea” di interessanti
letture e pensieri. Scrivevo a quel tempo: Afferma
Susan Sontag (letto su “la Repubblica” del 20 di novembre 2003): (…). …la parola “terrorista” è più duttile
di “comunista”. Può accomunare un maggior numero di lotte e interessi diversi.
Ciò probabilmente significa che la guerra sarà infinita, perché esisterà sempre
qualche forma di terrorismo (così come esisteranno sempre povertà e cancro);
vale a dire, conflitti asimmetrici in cui la parte più debole utilizza una
forma di violenza che di solito prende di mira i civili. La retorica politica
americana, che non coincide necessariamente con l’opinione pubblica del paese,
è pronta a sostenere questa infausta prospettiva, poiché la lotta contro il
male non ha mai fine. (…).
È la grande paura che attraversa la coscienza democratica degli Stati Uniti
d’America. A quando il nuovo fronte? Ed in quale continente? E quale altro
paese che non sia ancora sotto l’influenza politico-economica della più grande
potenza del pianeta subirà il prossimo attacco anti-terroristico? È la dottrina della guerra preventiva che “fluisce” inopinatamente nella dottrina
della guerra totale e globale al terrorismo? E con quali obiettivi? E con quali
alleati? E sempre con decisioni unilaterali che non abbiano l’avallo delle
grandi organizzazioni mondiali? Sinora la più grande potenza mondiale ha saputo
opporre al “terrorismo” l’antico mestiere delle armi, “antico mestiere” condotto
oggi con le armi tecnologicamente più avanzate ed in dotazione solamente alla
più grande potenza militare del momento. È stato in fondo “agevole” alla più
grande potenza del mondo condurre una guerra tecnologica del tipo visto in
Iraq, ove l’elemento umano è stato surclassato dalla tecnologia che le moderne
armi hanno raggiunto: missili teleguidati e bombe intelligenti, che non
consentono ai loro utilizzatori di osservare lo scempio che esse producono, le
distruzioni ed il dolore che in forme devastanti esse infliggono nella carne
viva degli inermi cittadini, donne, bambini, uomini, vecchi. Sparate da altezze
infinite esse hanno il vantaggio di non “demoralizzare” i loro utilizzatori, ai
quali non è concesso il tempo della visione delle loro azioni e non hanno pertanto
l’opportunità di rielaborare un qualsiasi “sentimento” conseguente all’azione
compiuta. Ma una volta dichiarate concluse da parte della più grande potenza
militare del mondo “le ostilità militari”, ovvero il più classico dei “conflitti
asimmetrici” tanto per usare il termine caro alla Sontag, ecco avanzarsi e sostituirsi una guerra
condotta sul terreno, combattuta palmo a palmo, con le armi e le azioni di
sempre, da parte di un esercito non più regolare ma che attinge la sua forza nel malessere profondo di un paese martoriato
ed allo stremo da decenni di embargo, mortificato ed ammutolito da una
dittatura crudele, senza tecnologie da
opporre alla strapotenza americana e che ha visto le sue forze armate, la
famosa “pistola fumante”, liquefarsi alla prime ondate di missili e di bombe
intelligenti, senza avere neppure il tempo per brandire quelle supposte “armi
di sterminio di massa” che avrebbero svolto forse una azione di contenimento e
di deterrenza. La più grande potenza del mondo ha affrontato il problema Iraq
inventando nel quotidiano le più inverosimili giustificazioni, giustificazioni da offrire agli alleati più servizievoli o
reticenti e ad una opinione pubblica mondiale manifestamente insofferente di
fronte a decisioni che sono sembrate subito improntate alla più cruda logica del “mestiere delle armi”, e senza nel contempo
prospettarsi e prospettare, con l’intelligenza della politica e non delle
bombe, altre “uscite di sicurezza”, tanto è stata cieca la fiducia nella
tecnologia delle armi possedute. Oggi l’invocazione del “serrare le fila” in
questa lotta al terrorismo, che la guerra tecnologica avrebbe dovuto
sconfiggere al primo urto, rivela la pochezza delle analisi degli strateghi
della più grande potenza del mondo e dei suoi proni alleati-vassalli, per i
quali ultimi inizia invece il calvario delle gravi e dolorose perdite in vite
umane, non essendo essi più al riparo dello scudo tecnologico creato dalla
gigantesca forza militare americana; sul terreno infatti, nelle azioni di
guerriglia di certo diffuse e di cui i media poco danno notizia, se non per i
fatti più eclatanti ed assordanti tali da bucare “il video”, il fattore umano
torna ad essere preponderante e il conflitto allora torna ad essere
asimmetrico, nel senso che nella battaglia condotta sul terreno conteranno di più
la determinazione e la rabbia degli uomini disposti a farsi bomba con le
proprie viscere, i propri muscoli, il proprio sangue, pur di sconfiggere un
nemico riconosciuto, al contrario di quegli uomini che, venuti da lontano,
hanno caricato tutta la loro determinazione sulla superiorità tecnologica la
quale, al momento non più utilizzata, li rende quasi inermi ed in balia delle
azioni avverse. Ha scritto David Grosmann in “Vivere in Europa ai tempi della paura così il terrorismo distrugge la
società” pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 14 di gennaio 2015: I
cittadini europei stanno cominciando a capire quali potrebbero essere gli
effetti del terrorismo islamico. (…). Sto parlando delle deformazioni che
un'esistenza sotto la minaccia del terrorismo produce nell'individuo e nella
società: la necessità di essere costantemente allerta, di mostrarsi sospettosi,
di scrutare ogni fotogramma di una tranquilla routine come se avesse un doppio
fondo. Sto parlando della paura del noto e dell'ignoto, della consapevolezza di
non essere in grado di proteggere i tuoi cari dalla cieca arbitrarietà del
terrorismo, dell'apatica rassegnazione alle misure di sicurezza che si fanno
più minuziose e più scrupolose dopo ogni attacco, dell'abitudine a catalogare,
rapidamente e automaticamente, chiunque incroci per strada o si venga a trovare
entro il tuo spazio fisico, a valutare istantaneamente il suo livello di
pericolosità in base al colore della pelle, all'abbigliamento, all'accento. Sto
parlando di come sarà difficile opporsi a un pensiero razzista quando si vive
in un clima di terrore. (…). Il vero potere distruttivo del terrorismo sta
infatti nel portarci a scoprire il male che esiste in noi esseri umani. La
grettezza, la barbarie, il caos. E questo è vero sia per i singoli individui
che per l'intera società. Il terrorismo — certamente quello degli assassini di
Parigi — non vuole intavolare un dialogo ma sgretolare la società contro la
quale opera. Mira a dissolvere i legami e le convenzioni che tengono uniti gli
esseri umani a dispetto delle loro differenze e delle loro controversie, a
disgregare rapporti creati e consolidati con grande fatica e non sempre con
successo tra persone appartenenti a gruppi diversi, ad abolire le aperture del
mondo illuminato all'uguaglianza, alla dignità umana, al riconoscimento della
libertà di espressione e alla democrazia, che sono fra le maggiori conquiste
dell'umanità. Il terrorismo tenta di colpire gli esseri umani nei punti in cui
— dopo secoli di guerre violente e brutali e un lento processo di maturazione
sociale e politica — questi ultimi sono riusciti a superare le pulsioni
primarie, la barbarie, la brutalità. E così facendo ferisce tutte le componenti
della società e anche gli appartenenti moderati dell'Islam. (…). È che
non è peregrino pensare che al tempo della globalizzazione e dei nuovi
equilibri internazionali – così come al tempo in cui Susan Sontag (1933-2004) intuiva
come alla parola “terrorismo” si potessero “accomunare un maggior numero di lotte e
interessi diversi”- quella paura
inoculata nelle arterie profonde di società di diseguali e di povertà sempre
crescenti possa tornare utile affinché quelle società, maledettamente sempre
più inquiete, possano essere meglio controllate restringendone libertà, diritti
fondamentali e disintegrando sogni e speranze per un nuovo umanesimo di milioni
e milioni di uomini e donne. Sono mutate forse le condizioni geopolitiche dal
tempo di quell’indimenticata intellettuale per la qual cosa i fatti di Parigi
non hanno scatenato ancora una nuova, ennesima operazione di prevenzione e lotta
al terrorismo? Il tempo verificherà la nuova stagione.
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