Da “Racconto
un sacco di balle, ma se lo chiamo storytelling…” di Alessandro Robecchi,
su “il Fatto Quotidiano” del 10 di dicembre dell’anno 2014: Dicesi
storytelling un complesso sistema di pubblicazioni, notizie, modi di
comunicarle, stili innovativi, segnali mediatici, ripetizioni ossessive perché
il concetto entri anche nelle teste più dure, nuovi approcci, citazioni.
Insomma un po’ tutto quello che una volta si chiamava “comunicazione” e ora fa
più fico dirlo in inglese. (…). Immaginiamo, per esempio, un medio imprenditore
tedesco, o cinese che voglia investire qui. Potrà valutare lo storytelling
corrente e ben oliato dai media – ottimismo, ripresa, riforme, Jobs act, camice
bianche, ministri da copertina, modernità, parole inglesi – oppure valutare lo
stato delle cose: leggi complicatissime, giustizia lenta, corruzione, malavita,
er Guercio, il mondo di mezzo e altro ancora. Potrà leggere i discorsi
“luminosi e progressivi”, oppure i titoli delle inchieste in corso. I recenti
fatti di cronaca, per esempio, rendono l’attuale storytelling governativo,
tutto incentrato sul futuro, un po’ fuori luogo. Bella storia, insomma, ma
smentita ogni giorno. Si è provato, è vero, all’inizio e per un annetto a
ridicolizzare che si opponeva al racconto sorridente, ottimista e positivo (
“gufi”, è già parola soprassata, sepolta), ma poi le smentite della realtà si
sono fatte implacabili, e quel racconto, quello storytelling, oggi non sfonda
più, non conquista. Non perché gli manchino elementi di fascino: a chi non
piacerebbe essere moderni, carini, sexy, glamour, con un’economia frizzante e
un governo di ragazzini ben pettinati? Piuttosto perde credibilità perché
fornisce immagini troppo distanti dalla realtà che si vive ogni giorno. In
certi casi, insomma, anche se è inglese e fa fico, costruire un elaborato
racconto – una narrazione – troppo
lontano da quel che accade può trasformarsi in autogol.
Un caso di scuola è
l’uso del concetto di “futuro” per la nuova classe dirigente renzista. Lasciamo
da parte gli slogan facili e leopoldeschi e prendiamo invece il succo: faremo,
saremo – o meglio torneremo ad essere – svilupperemo, cresceremo, attireremo
capitali stranieri, eccetera eccetera. Lo storytelling è positivo e ottimista e
si lascia intendere che domani andrà tutto molto meglio. Intanto, non domani ma
oggi, uno non riesce ad avere un appalto perché non conosce nazisti
dell’Illinois, o di Roma, oppure viene licenziato, oppure viene demansionato,
oppure ascolta la solfa dell’abbassamento delle tasse più poderoso dai tempi di
Ramsete II e si trova a pagarne di più. Ecco, allarme: lo storytelling renziano
è molto distante dalla realtà. Futuro è un concetto luminoso ma distante,
mentre qui e ora di luminoso c’è pochino. E siccome sanno tutti che per avere
un buon futuro si parte da oggi e non da domani, la storia scricchiola, stona,
suona falsa, e può diventare irritante. Si richiede un veloce ridisegno dello
storytelling, una cosa che in italiano potrebbe suonare così: “Su, ragazzi,
raccontatecene un’altra, che questa non ha funzionato”.
Da “Tra il
vintage Dc e House of Cards. Lo storytelling del leader nuovo" di
Filippo Ceccarelli, sul quotidiano la Repubblica del 16 di marzo 2015: La
prima cosa che ci si chiede è: quanto dura? E la seconda: come va a finire? La
storia infatti non è una fiction, né ha molto a che fare con lo storytelling.
Anche per questo è difficile collocare Matteo Renzi nella vicenda nazionale. Il
vero dilemma è se il giovane premier rappresenti una continuità, un'evoluzione
o una rottura. Non che lui si nasconda, anzi pur essendo appena arrivato al
comando il problema è di attraversare una mole di materiali da lui stesso
prodotti, confezionati, lanciati, la rottamazione, la rivoluzione e via
dicendo. Ma un leader è qualcosa che nemmeno lui sa di essere. (…). Renzi ha
parecchio di Fanfani. Energia, curiosità tecnologica, egocentrismo, arroganza.
Già cinque anni fa si giudicava in grado di "scalare" l'Italia. Il verbo
ascensionale a suo modo richiama quello idealmente raffigurato nell'emblema del
socialismo "rampante" degli anni Ottanta. E Renzi ha qualcosa anche
di Craxi. Come lui è un innovatore, va al sodo, rifiuta la mediazione, detesta
il piagnisteo. Ma non è solo una questione di questo o quel personaggio o
antenato. In un'epoca post-ideologica, la chiave per comprendere e inscrivere
il nuovo potere nella storia politica sta nell'alternarsi delle generazioni, i
nonni, i padri, i figli, adesso i nipoti. E dunque in Italia la "meglio
gioventù" scalza la precedente, anch'essa a suo tempo ritenutasi migliore,
ma poi ogni ricambio è condannato all'inesorabile fallimento in un paese in cui
i rivolgimenti si possono a loro volta comprendere sulla base di due categorie
più scientifiche, filo- e poetiche che politiche: il moto e il vuoto. In questa
costante oscillazione i lampi di tre grandi intellettuali come Pasolini,
Calvino e Sciascia finiscono per assurgere ad autentiche profezie. Ma nessuno
di loro c'era più al momento del passaggio più prossimo e decisivo, quando
crolla il castello della Prima Repubblica. È qui che si afferma il terzo
ispiratore di Renzi. C'è in proposito un passaggio-presagio piuttosto
impressionante e comunque prezioso che riguarda La ruota della fortuna, così si
chiamava la trasmissione a quiz che segnala l'epifania del giovane leader sulle
reti berlusconiane. Non tanto per il richiamo alla pagina di Machiavelli che
incoraggia il Principe a battere e urtare la Sorte, ma perché l'espressione
"ruota della fortuna" si trova nell'ultima e drammatica lettera di
Sergio Moroni, il deputato socialista che si uccise all'esordio di Tangentopoli.
(…). Se l'orizzonte della Prima Repubblica è venuto glorificandosi nella
rappresentanza e quello della Seconda si è esaurito nella rappresentazione, con
Renzi si arriva all'auto-rappresentazione dell'ego, e quindi alla liturgia del
selfie che misura e alimenta il grado di prossimità fra il leader e il suo
pubblico. Al dunque, l'"impasto" che forma l'homo novus del potere
italiano e la sua tribù è: «Cattolicesimo senza sigle, cultura pop senza
ideologia, carrierismo politico e televisione ». Si direbbe pure che una
speciale e inedita leggerezza, anch'essa figlia dei tempi, colmi il baratro che
esiste fra Giorgio La Pira, su cui Renzi fece la sua tesi di laurea, e House of
Cards. Fra le massime di Frank Underwood (…) quella che dice: «Nessuno è un boy
scout. Nemmeno un boy scout». (…).
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