Da “Questo
sistema serve alla politica” di Bruno Tinti, su “il Fatto Quotidiano” del
13 di dicembre dell’anno 2014: (…). La prescrizione. Renzi&C. dicono
che vogliono aumentarla. Di quanto? In realtà non importa. (…). La pena è
finta. Fino a 4 anni in prigione non ci si va. Ma ci pensate? Si spendono una
marea di soldi, si passano anni e anni a giocare in aule di giustizia e, sempre
che si arrivi a sentenza definitiva di condanna, si dice all’imputato; sei
colpevole, ti toccano 3 anni e 11 mesi. Vai pure a casa. Se poi la condanna è
di 5 anni, si sconteranno 7 mesi e mezzo; e se fosse di 6 (praticamente mai si
danno pene del genere) si sconterebbe 1 anno e mezzo. 10 anni di galera sono
poco più di 3. Ma dai! In queste condizioni, perché corruttori e corrotti
dovrebbero smettere di delinquere? L’unico guaio che gli può toccare, dopo aver
messo al sicuro una barca di soldi, è farsi pochi mesi di carcerazione
preventiva (fino a quando la politica non la eliminerà, come periodicamente
minaccia di fare. Ma si sa, è una conquista di civiltà). Quale riforma possono
partorire Renzi&C. se non modificano questa situazione? Che non sarà
modificata. Pensateci. Quale cittadino di normale buon senso potrebbe volere un
sistema del genere? Chi (esclusi gli amici di mafiosi e criminali e di politici
associati, tanti ma pur sempre una minoranza della popolazione) direbbe al suo
politico di collegio elettorale: ti voto, vai e realizza un sistema così?
Nessuno, ovviamente. Allora come ci si è arrivati? Perché alla politica serve
un sistema così. Perché la politica è fondata sul malaffare, perché i politici
campano di reati o di sovvenzioni criminali. E non possono permettersi un
sistema penale che blocchi il sistema che gli dà da vivere, anche nel senso
stretto del termine. Una prova? C’è un sistema semplicissimo per battere la
corruzione. Spezzare il sodalizio necessario tra corrotto e corruttore. Oggi
entrambi, se scoperti, sono punibili, tutti e due in galera. Ma, se si
prevedesse che il primo che denuncia l’altro, anche prima di un’indagine, andrà
esente da pena, il vincolo è reciso. Chi si fiderebbe a farsi corrompere
sapendo che, appena c’è in giro puzza di indagini, qualcuno può comprarsi
l’impunità denunciandolo. E viceversa. Sistema banale, non a caso adottato da
sempre negli Usa e di cui io parlai la prima volta negli anni 70 a Beniamino
Andreatta, un Dc onesto e preparato che fu subito d’accordo. Naturalmente non
se ne fece niente. Ma, se quello denuncia il falso? Va in prigione per
calunnia. Non è che basti la denuncia per condannare, ci vanno i riscontri. Se
non si trovano, poveretto lui.
Da “La prescrizione salva il maltolto” di Antonio Esposito - Presidente della II sezione della Corte di Cassazione -, su “il Fatto Quotidiano” del 21 di marzo 2015: (…). A nulla è valsa, ai fini di rimuovere l'inerzia della classe politica, la ratifica, con legge n° 116/2009, della Convenzione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite contro la Corruzione che, all'art. 29 stabilisce: "...ciascuno Stato parte fissa, nell'ambito del proprio diritto interno, un lungo termine di prescrizione entro il quale i procedimenti possono essere avviati per uno dei reati stabiliti conformemente alla presente Convenzione". Così come a nulla è valso il rapporto del 2-7-2009 del "Gruppo di Stati" contro la corruzione che agisce nell'ambito del Consiglio europeo ("Greco") che - nel valutare le politiche anticorruzione poste in essere dall'Italia - ha sottolineato in termini negativi il fatto che "in Italia i processi per corruzione sovente non arrivano a una decisione di merito, in considerazione del maturare del termine di prescrizione del reato prima di una pronuncia definitiva". Nonostante l'ecatombe dei processi, vero "scandalo" della giustizia italiana, Parlamento e governo sono rimasti inerti per dieci anni. Solo il 29-8-2014 il governo ha approvato un ddl riguardante anche la prescrizione, al quale non è stata data alcuna corsia preferenziale e che, comunque, risolve solo in minima parte il problema, limitandosi a far valere brevi periodi di sospensione (due anni per l'appello, uno per il ricorso in Cassazione) anziché stabilire che l'ulteriore corso della prescrizione del reato deve ritenersi precluso dal concreto esercizio dell'azione penale mediante l'instaurazione del giudizio. Ma il problema più grave è che la prescrizione, non solo elimina applicazione della pena, quanto impedisce allo Stato di riottenere la restituzione del denaro "frutto" del - la truffa ai suoi danni, di confiscare i beni dei corrotti, ovvero "il denaro, i beni e le altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza" (art. 12 quinquies L. 552/92). Invero le Sezioni Unite (S.U.), con sentenza n. 38834/08, hanno affermato che non è possibile procedere alla confisca obbligatoria dei beni che costituiscono il "prezzo" del reato di corruzione, e, cioè, delle cose date o promesse per indurre il p.u. a commettere il reato, di fronte a una sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione, essendo sempre necessaria una sentenza di condanna. Va precisato che le S.U. - nel risolvere un forte contrasto insorto tra le varie sezioni e tra le stesse S.U. - hanno, comunque, invitato il legislatore a "riflettere" per evitare l'arricchimento "antigiuridico e immorale" degli imputati che ottengono la restituzione del prezzo della corruzione. Tale invito è rimasto disatteso, così come sono state disattesi gli appelli di varie associazioni che avevano invitato il Parlamento e il ministro della Giustizia ad adottare provvedimenti atti a consentire la confisca dei beni dei corrotti anche in caso di estinzione del reato per prescrizione. Tale interpretazione delle S.U. - del tutto inconciliabile con le esigenze di lotta al crimine organizzato - è stata, comunque, incisivamente contrastata dalla sezione II della Cassazione (sentenza n. 32273/10), la quale ha affermato che - oltre che nel caso di sentenza di condanna, in cui va sempre disposta la confisca del "profitto" del reato di cui all'art. 240 secondo comma n. 1 c.p. ovvero "del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza" di cui agli articoli 12 quinquies e sexies L. 552/92 - anche nella ipotesi di proscioglimento per estinzione del reato per prescrizione, il giudice può disporre la confisca delle cose suddette; in tal caso, il provvedimento ablatorio è subordinato all'accertamento (incidentale) da parte del giudice del fatto costituente reato. Si è affermato in tale decisione che la confisca obbligatoria risponde a una duplice finalità, ossia quella di colpire il soggetto che ha acquisito i beni illecitamente e quella di eliminare in maniera definitiva dal mondo giuridico e dai traffici commerciali valori patrimoniali, la cui origine risale all'attività criminale posta in essere, essendo il provvedimento ablativo correlato a una precisa connotazione obiettiva di illiceità che investe la res determinandone la pericolosità in sé. Tale interpretazione è stata confermata sempre dalla II Sez. della Corte con sentenza n. 39756/11 nel procedimento penale a carico di Massimo Ciancimino ed altri, ove, pur nella declaratoria di estinzione per prescrizione del reato, si è confermata la confisca del patrimonio del Ciancimino disposta con la sentenza di condanna di II grado. A fronte dell'invito rivolto dalle S.U. e del contrasto giurisprudenziale in atto, ci si aspettava un pronto intervento del legislatore che - partendo dal dato incontestabile che l'obiettivo della confisca obbligatoria, è quello di privare l'autore del reato degli illeciti vantaggi economici che da esso derivano e di contrastare i più diffusi fenomeni di criminalità - riconosca, in caso di estinzione del reato, al giudice poteri di accertamento del reato stesso ai fini dell'applicazione della confisca (anche per equivalente) allo stesso modo in cui è normativamente riconosciuto al giudice di appello e di legittimità il potere di accertamento (incidentale) del reato ai fini delle statuizioni civili. L'appello dei magistrati della Corte non è stato finora accolto dal legislatore consentendosi, così, che il pubblico ufficiale corrotto, non punibile per il mero decorso del tempo, continui a "godersi" il denaro che egli ebbe a ricevere per commettere il fatto delittuoso.
Da “La prescrizione salva il maltolto” di Antonio Esposito - Presidente della II sezione della Corte di Cassazione -, su “il Fatto Quotidiano” del 21 di marzo 2015: (…). A nulla è valsa, ai fini di rimuovere l'inerzia della classe politica, la ratifica, con legge n° 116/2009, della Convenzione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite contro la Corruzione che, all'art. 29 stabilisce: "...ciascuno Stato parte fissa, nell'ambito del proprio diritto interno, un lungo termine di prescrizione entro il quale i procedimenti possono essere avviati per uno dei reati stabiliti conformemente alla presente Convenzione". Così come a nulla è valso il rapporto del 2-7-2009 del "Gruppo di Stati" contro la corruzione che agisce nell'ambito del Consiglio europeo ("Greco") che - nel valutare le politiche anticorruzione poste in essere dall'Italia - ha sottolineato in termini negativi il fatto che "in Italia i processi per corruzione sovente non arrivano a una decisione di merito, in considerazione del maturare del termine di prescrizione del reato prima di una pronuncia definitiva". Nonostante l'ecatombe dei processi, vero "scandalo" della giustizia italiana, Parlamento e governo sono rimasti inerti per dieci anni. Solo il 29-8-2014 il governo ha approvato un ddl riguardante anche la prescrizione, al quale non è stata data alcuna corsia preferenziale e che, comunque, risolve solo in minima parte il problema, limitandosi a far valere brevi periodi di sospensione (due anni per l'appello, uno per il ricorso in Cassazione) anziché stabilire che l'ulteriore corso della prescrizione del reato deve ritenersi precluso dal concreto esercizio dell'azione penale mediante l'instaurazione del giudizio. Ma il problema più grave è che la prescrizione, non solo elimina applicazione della pena, quanto impedisce allo Stato di riottenere la restituzione del denaro "frutto" del - la truffa ai suoi danni, di confiscare i beni dei corrotti, ovvero "il denaro, i beni e le altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza" (art. 12 quinquies L. 552/92). Invero le Sezioni Unite (S.U.), con sentenza n. 38834/08, hanno affermato che non è possibile procedere alla confisca obbligatoria dei beni che costituiscono il "prezzo" del reato di corruzione, e, cioè, delle cose date o promesse per indurre il p.u. a commettere il reato, di fronte a una sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione, essendo sempre necessaria una sentenza di condanna. Va precisato che le S.U. - nel risolvere un forte contrasto insorto tra le varie sezioni e tra le stesse S.U. - hanno, comunque, invitato il legislatore a "riflettere" per evitare l'arricchimento "antigiuridico e immorale" degli imputati che ottengono la restituzione del prezzo della corruzione. Tale invito è rimasto disatteso, così come sono state disattesi gli appelli di varie associazioni che avevano invitato il Parlamento e il ministro della Giustizia ad adottare provvedimenti atti a consentire la confisca dei beni dei corrotti anche in caso di estinzione del reato per prescrizione. Tale interpretazione delle S.U. - del tutto inconciliabile con le esigenze di lotta al crimine organizzato - è stata, comunque, incisivamente contrastata dalla sezione II della Cassazione (sentenza n. 32273/10), la quale ha affermato che - oltre che nel caso di sentenza di condanna, in cui va sempre disposta la confisca del "profitto" del reato di cui all'art. 240 secondo comma n. 1 c.p. ovvero "del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza" di cui agli articoli 12 quinquies e sexies L. 552/92 - anche nella ipotesi di proscioglimento per estinzione del reato per prescrizione, il giudice può disporre la confisca delle cose suddette; in tal caso, il provvedimento ablatorio è subordinato all'accertamento (incidentale) da parte del giudice del fatto costituente reato. Si è affermato in tale decisione che la confisca obbligatoria risponde a una duplice finalità, ossia quella di colpire il soggetto che ha acquisito i beni illecitamente e quella di eliminare in maniera definitiva dal mondo giuridico e dai traffici commerciali valori patrimoniali, la cui origine risale all'attività criminale posta in essere, essendo il provvedimento ablativo correlato a una precisa connotazione obiettiva di illiceità che investe la res determinandone la pericolosità in sé. Tale interpretazione è stata confermata sempre dalla II Sez. della Corte con sentenza n. 39756/11 nel procedimento penale a carico di Massimo Ciancimino ed altri, ove, pur nella declaratoria di estinzione per prescrizione del reato, si è confermata la confisca del patrimonio del Ciancimino disposta con la sentenza di condanna di II grado. A fronte dell'invito rivolto dalle S.U. e del contrasto giurisprudenziale in atto, ci si aspettava un pronto intervento del legislatore che - partendo dal dato incontestabile che l'obiettivo della confisca obbligatoria, è quello di privare l'autore del reato degli illeciti vantaggi economici che da esso derivano e di contrastare i più diffusi fenomeni di criminalità - riconosca, in caso di estinzione del reato, al giudice poteri di accertamento del reato stesso ai fini dell'applicazione della confisca (anche per equivalente) allo stesso modo in cui è normativamente riconosciuto al giudice di appello e di legittimità il potere di accertamento (incidentale) del reato ai fini delle statuizioni civili. L'appello dei magistrati della Corte non è stato finora accolto dal legislatore consentendosi, così, che il pubblico ufficiale corrotto, non punibile per il mero decorso del tempo, continui a "godersi" il denaro che egli ebbe a ricevere per commettere il fatto delittuoso.
Da “Il partito degli indagati fa la legge anti-corrotti” di Peter Gomez, su “il Fatto Quotidiano” del 21 di marzo 2015: (…). A Palazzo Madama, 12 su 36 senatori del partito di Maurizio Lupi e Angelino Alfano risultano avere o aver avuto a che fare, come imputati o indagati, con i tribunali. E una situazione analoga si verifica a Montecitorio dove, forse in nome del bicameralismo perfetto, 11 su 33 deputati Ncd sono coinvolti, o lo sono stati, in procedimenti penali. Si tratta di una percentuale record – il 33% – impossibile da trovare persino tra gli inquilini dei palazzi più malfamati delle periferie metropolitane, ma presente nelle riunioni parlamentari infragruppi di un partito che, va detto con franchezza, dimostra coi fatti di essere la vera bad company del defunto Pdl (in Forza Italia il tasso di presunta devianza è più basso). Queste cifre hanno ovviamente delle importanti conseguenze. Da una parte è difficile ritenere che i rappresentanti Ncd, al di là dell’esito processuale delle varie vicende, possano guardare di buon occhio al controllo di legalità operato dalla magistratura. Dall’altra, la maggioranza, già condizionata da larghi settori del Pd inquinati da clientelismo e malaffare (si pensi ai casi di Mafia Capitale, Expo e Mose), deve fare pure i conti con decine di parlamentari, decisivi per la tenuta del governo, che rispetto alla giustizia si trovano in posizione di perenne conflitto di interessi. Gente che, in base all’esperienza personale, sa tutto di leggi e pandette e che, se colpevole, ha un unico obbiettivo: mettere i bastoni tra le ruote a procure e tribunali. Anche per questo non è irragionevole presumere che al termine della discussione delle Camere le nuove norme su tangenti, falso in bilancio e prescrizione, peggioreranno ancora. (…).
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