"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 2 ottobre 2014

Storiedallitalia. 62 “Le ragioni non dette del ritardo italiano”.



Se c’è una ragione per la quale la grande ripresa non accenna a manifestarsi in Italia è per l’esistenza dell’obbrobrioso art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. È giusto quindi che i liberisti al governo liberino le stanze dall’ingombro. Sono essi sicuri che, trapassato quello, la crescita sarà vigorosa e tutti torneranno al lavoro come non mai. È che in questo stramaledetto paese tutte le colpe sono da farsi risalire a quello stramaledetto articolo. Gli attori principali ed unici, nel bene e nel male, sono sempre gli stessi, i lavoratori, quelli che pagano le tasse, quelli che si suole spremere con tasse e balzelli vari sino all’ultimo centesimo per risanare le disastrate pubbliche finanze. Ma è da credere una panzana simile? È che in un paese allo sbando il prestidigitatore di turno ha modo e mezzi da far vedere, come suol dirsi, le lucciole per lanterne. E poi, con lo spettacolo indecoroso delle truppe cammellate al seguito, in prima fila la libera stampa, è facile far credere che quella panzana sia la cosa giusto pronunciata dal “pifferaio” – copyright di Eugenio Scalfari – di turno. Scriveva invece Massimo Riva sul numero 29 del settimanale Affari&Finanza del 5 di maggio ultimo – “La prima ragione del ritardo italiano -:
(…). …la pur giustificata ossessione per lo stato dei conti pubblici ha finito per distogliere l’attenzione, interna e internazionale, dai problemi connessi alla debolezza crescente del sistema produttivo. Che sono poi quelli a cui sarebbe più logico far risalire in larga misura la spiegazione della specifica lentezza italiana nell’aggancio alla ripresa generale. Anche prima che la recessione innescata dalla crisi finanziaria esplosa nel 2008 l’Italia sopravviveva con tassi di crescita minimali rispetto alle altre maggiori economie, europee e non. Sono parecchi anni, insomma, che il Pil domestico stenta a reggere il ritmo altrui per cui serve a poco, anzi a nulla, cercare la ragione di tanta fragilità nei soli guai derivanti dalla cattiva finanza pubblica. La realtà da guardare finalmente in faccia è quella che si riassume nella nozione di calante competitività del “made in Italy” nel suo complesso: fatti salvi i settori e le aziende che, per fortuna, hanno saputo investire e innovare per stare al passo con la concorrenza altrui. Ma poiché la competitività va sottobraccio con la produttività occorre ancora segnalare un falso problema sul quale si è perso prezioso tempo per anni: il costo del lavoro. Oggi della questione si parla molto meno anche perché le classifiche europee dimostrano che non solo le retribuzioni italiane sono fra le più basse ma che, perfino in termini di cuneo fiscale, il nostro Erario è meno esoso in tasse e contributi di quanto lo siano quelli tedeschi e francesi, le altre due maggiori realtà manifatturiere della zona euro. Purtroppo, però, per lungo tempo si è andati avanti a ragionare nei termini per cui la produttività (e connessa competitività) si sarebbe migliorata soltanto facendo muovere più rapidamente il braccio dei lavoratori come nel celebre film di Charlie Chaplin. Cosicché l’indispensabile ruolo degli investimenti diretti a innovare prodotti e processi produttivi è rimasto patrimonio di una minoranza di imprenditori più coraggiosi e lungimiranti mentre il grosso del sistema si richiudeva su se stesso, si concentrava in impieghi finanziari, rifiutava in sostanza le peculiari responsabilità economiche legate all’esercizio della propria attività. Non è un caso del resto che in questa ultima fase di torsione della crisi stia raccogliendo ampi consensi nel mondo delle piccole e medie imprese - di davvero grandi, del resto, ne rimangono assai poche - la predicazione dei ciarlatani che propongono la fuoriuscita dall’euro come terapia per tutti i mali del paese. (…). …in conclusione, avesse ragione chi cerca solo nello scarso rigore della finanza pubblica le cause della devianza italiana. Purtroppo, il problema di fondo è ben più complesso e chiama in causa la specifica arretratezza, culturale oltre che finanziaria, di ancora larga parte della nostra classe imprenditoriale. Sembra scritto in un’altra epoca e riferito ad un imprecisato paese. È che è necessario andare a scovare quella stampa che della professionalità ne fa una ragione primaria. Tutto il gran bailamme di questi giorni sull’articolo 18 e dintorni non è altro che l’ennesima trovata elettorale, ovvero l’ennesima manovra di “distrazione di massa” che quel bontempone al governo, con gli accoliti suoi, mettono in campo nell’impossibilità di mantenere impegni e promesse e fornire soluzioni adeguate. Sono passati, dall’articolo di Massimo Riva, cinque mesi appena e sull’ultimo numero di quello stesso settimanale Federico Fubini mette il dito nella piaga purulenta del sistema produttivo del bel paese. Scrive infatti nel Suo “pezzo” che ha per titolo “Quando è l’impresa a frenare la crescita”:  Pochi Paesi sono ossessionati come l'Italia dal proprio declino, pochissimi sembrano così incapaci di venirne a capo. Dalle regole del lavoro alla burocrazia, alle tasse, ovunque vengono additati dei colpevoli. Una categoria però sembra attraversare indenne il crollo della produzione industriale del 25% in questi anni: coloro che ad essa hanno presieduto, gli imprenditori. Valutazioni sulla capacità e competenza di molti di loro non entrano nei dibattiti sulle riforme strutturali. Qualche indizio dice che è il caso di iniziare a farlo. Non sarà tutta colpa dell'articolo 18 se le imprese italiane sono fra le più fragili in Europa: nelle loro strutture finanziarie, il capitale proprio è il 15% (il resto è debito), contro il 24% della Francia, i128% della Germania, il 44%della Gran Bretagna. Gli imprenditori non mettono i loro soldi in azienda e non lasciano che lo facciano altri, magari in Borsa. (…). Gli imprenditori italiani hanno azzoppato la produttività del Paese perché spesso hanno preferito circondarsi di manager scarsi ma fedeli piuttosto che bravi. Il virus del familismo ha portato al potere nelle imprese troppi incompetenti, che non sono riusciti a cavalcare la rivoluzione tecnologica. Dicono Pellegrino e Zingales (docenti rispettivamente presso l'Università della California e di Chicago n.d.r.): -  Il clientelismo e favoritismo nelle imprese sono le cause ultime della malattia italiana -.  Se ne è mai parlato di queste cause? È facile menar fendenti sulla parte debole del rapporto di lavoro. Imprenditori e manager non sono mai tirati in ballo a fronte degli insuccessi crescenti delle produzioni. Anzi, il più delle volte, inetti manager sfilano dalle tasche della collettività immeritate buonuscite. Una vergogna! Ha scritto Federico Fubini in “Radiografia di un declino” sul quotidiano la Repubblica del 7 di agosto ultimo: Puntualmente il governo di turno annuncia la ripresa, che poi non arriva. Nell’ultimo decennio il Tesoro ha sempre sbagliato per eccesso le stime di crescita dell’anno in corso. Dall’avvio dell’euro l’Italia è il solo Paese, Grecia inclusa, nel quale il reddito per abitante è calato. Negli ultimi venti anni non c’è stata quasi crescita economica, il risultato peggiore fra le 34 democrazie avanzate dell’Ocse. In questo secolo la produttività – la capacità di generare reddito in un’ora di lavoro – è rimasta ferma mentre è salita in Germania, Francia, Gran Bretegna, Stati Uniti, Spagna, Svezia e una quantità di altri concorrenti. Eurostat stima che l’export di alta tecnologia è il 6% del totale per l’Italia, ma il 16% nella media europea. Le istituzioni economiche ereditate dal fascismo, sopravvissute con molte metamorfosi, si stanno dimostrando incompatibili con il ventunesimo secolo. Non si può più vivere di protezionismo e autarchia (…). Ciò che fa vivere è la capacità di innovare e sostenere imprese pensate per stare su mercati globali, invece la struttura dell’economia italiana ha prodotto l’opposto. Il tempo medio per una causa civile o commerciale è di 2992 giorni (900 in Germania) perché gli avvocati continuano a prendere parcelle basate sulla durata di un caso, mentre i magistrati sono pochi e non vengono valutati sul loro rendimento. Normale poi che in queste condizioni gli investimenti diretti esteri in Italia fra il 2009 e il 2013 siano stati di 80 miliardi, contro i 126 della Francia, 143 della Spagna, 187 della Germania e 261 della Gran Bretagna. Quanto alle aziende, ormai la loro dimensione media è di appena quattro addetti e solo una su cento ne ha più di 50. Gli imprenditori vengono incoraggiati a restare piccoli, con tanto di retorica sul loro eroismo, quando invece è ormai ovvio che per stare sul mercato hanno bisogno di una taglia più grande. (…). Eppure in Italia si incentivano ancora le imprese a restare nane offrendo contratti di lavoro meno blindati solo a chi assume non oltre 15 persone: così il lavoro diventa meno efficace, i prodotti poco competitivi e vendibili solo a prezzi bassi, dunque il fatturato cala, i compensi anche, crolla la domanda interna e non basteranno certo 80 euro a rianimarla. (…). C’è anche l’incredibile, addirittura offensiva complessità. Confartigianato stima che fra aprile 2008 e marzo 2014 sono state introdotte in Italia 629 nuove leggi tributarie, due alla settimana negli ultimi sei anni. Per ognuna che semplificava, oltre cinque hanno introdotto una nuova complicazione. Gli adempimenti impongono quasi due mesi di lavoro di un mini-imprenditore l’anno: tutto tempo negato all’innovazione, alla cura del prodotto, ai viaggi per ricavarsi nuovi mercati esteri. E poi dicono che si intravvede una luce in fondo al tunnel. Quale? Quello della Manica? Spero non vi sia sfuggito quanto ha scritto Federico Fubini:  Il tempo medio per una causa civile o commerciale è di 2992 giorni (900 in Germania) perché gli avvocati continuano a prendere parcelle basate sulla durata di un caso, mentre i magistrati sono pochi e non vengono valutati sul loro rendimento. Capito l’arcano? Si è parlato qualche volta, nel corso di questa “grande crisi”, del ruolo svolto dalla casta degli avvocati? Perché non se ne è parlato? Boh!   

1 commento:

  1. Caro Aldo Ettore, vedo che andiamo sempre d' accordo sulle valutazioni politiche. Un abbraccio. Franca.

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