Se c’è una ragione per la quale la grande ripresa
non accenna a manifestarsi in Italia è per l’esistenza dell’obbrobrioso art. 18
dello Statuto dei Lavoratori. È giusto quindi che i liberisti al governo liberino
le stanze dall’ingombro. Sono essi sicuri che, trapassato quello, la crescita sarà
vigorosa e tutti torneranno al lavoro come non mai. È che in questo
stramaledetto paese tutte le colpe sono da farsi risalire a quello
stramaledetto articolo. Gli attori principali ed unici, nel bene e nel male,
sono sempre gli stessi, i lavoratori, quelli che pagano le tasse, quelli che si
suole spremere con tasse e balzelli vari sino all’ultimo centesimo per risanare
le disastrate pubbliche finanze. Ma è da credere una panzana simile? È che in
un paese allo sbando il prestidigitatore di turno ha modo e mezzi da far
vedere, come suol dirsi, le lucciole per lanterne. E poi, con lo spettacolo
indecoroso delle truppe cammellate al seguito, in prima fila la libera stampa,
è facile far credere che quella panzana sia la cosa giusto pronunciata dal “pifferaio”
– copyright di Eugenio Scalfari – di turno. Scriveva invece Massimo Riva sul
numero 29 del settimanale Affari&Finanza del 5 di maggio ultimo – “La prima ragione del ritardo italiano -:
(…).
…la pur giustificata ossessione per lo stato dei conti pubblici ha finito per
distogliere l’attenzione, interna e internazionale, dai problemi connessi alla
debolezza crescente del sistema produttivo. Che sono poi quelli a cui sarebbe
più logico far risalire in larga misura la spiegazione della specifica lentezza
italiana nell’aggancio alla ripresa generale. Anche prima che la recessione
innescata dalla crisi finanziaria esplosa nel 2008 l’Italia sopravviveva con
tassi di crescita minimali rispetto alle altre maggiori economie, europee e
non. Sono parecchi anni, insomma, che il Pil domestico stenta a reggere il
ritmo altrui per cui serve a poco, anzi a nulla, cercare la ragione di tanta
fragilità nei soli guai derivanti dalla cattiva finanza pubblica. La realtà da
guardare finalmente in faccia è quella che si riassume nella nozione di calante
competitività del “made in Italy” nel suo complesso: fatti salvi i settori e le
aziende che, per fortuna, hanno saputo investire e innovare per stare al passo
con la concorrenza altrui. Ma poiché la competitività va sottobraccio con la
produttività occorre ancora segnalare un falso problema sul quale si è perso
prezioso tempo per anni: il costo del lavoro. Oggi della questione si parla
molto meno anche perché le classifiche europee dimostrano che non solo le
retribuzioni italiane sono fra le più basse ma che, perfino in termini di cuneo
fiscale, il nostro Erario è meno esoso in tasse e contributi di quanto lo siano
quelli tedeschi e francesi, le altre due maggiori realtà manifatturiere della
zona euro. Purtroppo, però, per lungo tempo si è andati avanti a ragionare nei
termini per cui la produttività (e connessa competitività) si sarebbe
migliorata soltanto facendo muovere più rapidamente il braccio dei lavoratori
come nel celebre film di Charlie Chaplin. Cosicché l’indispensabile ruolo degli
investimenti diretti a innovare prodotti e processi produttivi è rimasto
patrimonio di una minoranza di imprenditori più coraggiosi e lungimiranti
mentre il grosso del sistema si richiudeva su se stesso, si concentrava in
impieghi finanziari, rifiutava in sostanza le peculiari responsabilità
economiche legate all’esercizio della propria attività. Non è un caso del resto
che in questa ultima fase di torsione della crisi stia raccogliendo ampi
consensi nel mondo delle piccole e medie imprese - di davvero grandi, del
resto, ne rimangono assai poche - la predicazione dei ciarlatani che propongono
la fuoriuscita dall’euro come terapia per tutti i mali del paese. (…). …in
conclusione, avesse ragione chi cerca solo nello scarso rigore della finanza
pubblica le cause della devianza italiana. Purtroppo, il problema di fondo è
ben più complesso e chiama in causa la specifica arretratezza, culturale oltre
che finanziaria, di ancora larga parte della nostra classe imprenditoriale.
Sembra scritto in un’altra epoca e riferito ad un imprecisato paese. È che è
necessario andare a scovare quella stampa che della professionalità ne fa una
ragione primaria. Tutto il gran bailamme di questi giorni sull’articolo 18 e
dintorni non è altro che l’ennesima trovata elettorale, ovvero l’ennesima
manovra di “distrazione di massa” che quel bontempone al governo, con gli
accoliti suoi, mettono in campo nell’impossibilità di mantenere impegni e
promesse e fornire soluzioni adeguate. Sono passati, dall’articolo di Massimo
Riva, cinque mesi appena e sull’ultimo numero di quello stesso settimanale Federico
Fubini mette il dito nella piaga purulenta del sistema produttivo del bel
paese. Scrive infatti nel Suo “pezzo” che ha per titolo “Quando è l’impresa a frenare la crescita”: Pochi Paesi sono ossessionati come l'Italia
dal proprio declino, pochissimi sembrano così incapaci di venirne a capo. Dalle
regole del lavoro alla burocrazia, alle tasse, ovunque vengono additati dei
colpevoli. Una categoria però sembra attraversare indenne il crollo della
produzione industriale del 25% in questi anni: coloro che ad essa hanno
presieduto, gli imprenditori. Valutazioni sulla capacità e competenza di molti
di loro non entrano nei dibattiti sulle riforme strutturali. Qualche indizio
dice che è il caso di iniziare a farlo. Non sarà tutta colpa dell'articolo 18
se le imprese italiane sono fra le più fragili in Europa: nelle loro strutture
finanziarie, il capitale proprio è il 15% (il resto è debito), contro il 24%
della Francia, i128% della Germania, il 44%della Gran Bretagna. Gli
imprenditori non mettono i loro soldi in azienda e non lasciano che lo facciano
altri, magari in Borsa. (…). Gli imprenditori italiani hanno azzoppato la
produttività del Paese perché spesso hanno preferito circondarsi di manager
scarsi ma fedeli piuttosto che bravi. Il virus del familismo ha portato al
potere nelle imprese troppi incompetenti, che non sono riusciti a cavalcare la
rivoluzione tecnologica. Dicono Pellegrino e Zingales (docenti
rispettivamente presso l'Università della California e di Chicago n.d.r.): - Il clientelismo e favoritismo nelle imprese
sono le cause ultime della malattia italiana -. Se ne è mai parlato di queste cause? È
facile menar fendenti sulla parte debole del rapporto di lavoro. Imprenditori e
manager non sono mai tirati in ballo a fronte degli insuccessi crescenti delle
produzioni. Anzi, il più delle volte, inetti manager sfilano dalle tasche della
collettività immeritate buonuscite. Una vergogna! Ha scritto Federico Fubini in
“Radiografia di un declino” sul
quotidiano la Repubblica del 7 di agosto ultimo: Puntualmente il governo di turno
annuncia la ripresa, che poi non arriva. Nell’ultimo decennio il Tesoro ha
sempre sbagliato per eccesso le stime di crescita dell’anno in corso.
Dall’avvio dell’euro l’Italia è il solo Paese, Grecia inclusa, nel quale il reddito
per abitante è calato. Negli ultimi venti anni non c’è stata quasi crescita
economica, il risultato peggiore fra le 34 democrazie avanzate dell’Ocse. In
questo secolo la produttività – la capacità di generare reddito in un’ora di
lavoro – è rimasta ferma mentre è salita in Germania, Francia, Gran Bretegna,
Stati Uniti, Spagna, Svezia e una quantità di altri concorrenti. Eurostat stima
che l’export di alta tecnologia è il 6% del totale per l’Italia, ma il 16%
nella media europea. Le istituzioni economiche ereditate dal fascismo,
sopravvissute con molte metamorfosi, si stanno dimostrando incompatibili con il
ventunesimo secolo. Non si può più vivere di protezionismo e autarchia (…). Ciò
che fa vivere è la capacità di innovare e sostenere imprese pensate per stare
su mercati globali, invece la struttura dell’economia italiana ha prodotto
l’opposto. Il tempo medio per una causa civile o commerciale è di 2992 giorni
(900 in Germania) perché gli avvocati continuano a prendere parcelle basate
sulla durata di un caso, mentre i magistrati sono pochi e non vengono valutati
sul loro rendimento. Normale poi che in queste condizioni gli investimenti
diretti esteri in Italia fra il 2009 e il 2013 siano stati di 80 miliardi,
contro i 126 della Francia, 143 della Spagna, 187 della Germania e 261 della
Gran Bretagna. Quanto alle aziende, ormai la loro dimensione media è di appena
quattro addetti e solo una su cento ne ha più di 50. Gli imprenditori vengono
incoraggiati a restare piccoli, con tanto di retorica sul loro eroismo, quando
invece è ormai ovvio che per stare sul mercato hanno bisogno di una taglia più
grande. (…). Eppure in Italia si incentivano ancora le imprese a restare nane
offrendo contratti di lavoro meno blindati solo a chi assume non oltre 15
persone: così il lavoro diventa meno efficace, i prodotti poco competitivi e
vendibili solo a prezzi bassi, dunque il fatturato cala, i compensi anche,
crolla la domanda interna e non basteranno certo 80 euro a rianimarla. (…). C’è
anche l’incredibile, addirittura offensiva complessità. Confartigianato stima
che fra aprile 2008 e marzo 2014 sono state introdotte in Italia 629 nuove
leggi tributarie, due alla settimana negli ultimi sei anni. Per ognuna che
semplificava, oltre cinque hanno introdotto una nuova complicazione. Gli
adempimenti impongono quasi due mesi di lavoro di un mini-imprenditore l’anno:
tutto tempo negato all’innovazione, alla cura del prodotto, ai viaggi per
ricavarsi nuovi mercati esteri. E poi dicono che si intravvede una luce
in fondo al tunnel. Quale? Quello della Manica? Spero non vi sia sfuggito
quanto ha scritto Federico Fubini: Il
tempo medio per una causa civile o commerciale è di 2992 giorni (900 in
Germania) perché gli avvocati continuano a prendere parcelle basate sulla
durata di un caso, mentre i magistrati sono pochi e non vengono valutati sul
loro rendimento. Capito l’arcano? Si è parlato qualche volta, nel corso
di questa “grande crisi”, del ruolo svolto dalla casta degli avvocati? Perché
non se ne è parlato? Boh!
Caro Aldo Ettore, vedo che andiamo sempre d' accordo sulle valutazioni politiche. Un abbraccio. Franca.
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