Ha scritto Nadia Urbinati in chiusura del Suo
pregevolissimo “pezzo” che ha per titolo “I
partiti sono vuoti perché i militanti non contano più niente”, pubblicato
sul quotidiano la Repubblica, di martedì 7 di ottobre 2014: Discutere
delle politiche del partito, delle scelte da prendere o non prendere, in
sostanza dei valori e dei principi che uniscono i militanti: questo significa
dare a chi si schiera un senso di reale appartenenza e rilevanza. Significa
anche concepire il partito come un luogo e un veicolo di educazione alla vita
pubblica, alla deliberazione critica, alla leadership democratica. L’opposto,
come si intuisce, di un partito plebiscitario e personalistico. Ma anche l’opposto
di un partito vuoto. È che la trasformazione dei partiti come da sempre
intesi di “collettivi” su base ampia di idee e di pensieri è avvenuta molto
prima dell’avvento al potere del Renzi Matteo. I partiti “personali” o “padronali”
ne hanno rappresentato un prodromo. Oggi si continua nel solco tracciato
all’inizio degli anni novanta del secolo ventesimo smentendo così
clamorosamente la vulgata del “cambiare verso”. Ciò che stupisce è
che nessun segnale d’allarme scatta nella gran parte della pubblica opinione. E
sì che segnali d’insofferenza giungono un po’ da tutte le parti: Livorno
insegna, Bologna insegna, la Calabria, con il risultato delle primarie di
domenica 5 di ottobre, insegna. Ma a chi?
Ma non è questo il punto. È che
persiste una confusione di idee che non aiuta a dipanare l’intricata matassa.
L’allegra combriccola al governo, per bocca di alcuni suoi poco autorevoli affiliati,
continua a dichiarare ai quattro venti di ispirarsi alle politiche della “sinistra”.
Ciò non turba la pubblica opinione. Come avviene in questi giorni sull’acconto
del TFR. Quei dobloni sonanti che si lanciano per aria per catturare la
(dis)attenzione dei più non ha nulla di quel grande tema proprio della
“sinistra” che va per “giustizia sociale”, per “redistribuzione” più equa della
ricchezza di un paese, per un riequilibrio nel rapporto tra colletti bianchi e
maestranze che il liberismo dal liberismo reaganiano ha esasperato rendendolo
insopportabile ed immorale. I dobloni, oggi sonanti elettoralmente, del TFR
hanno rappresentato da sempre quel gruzzolo di risparmio proprio del lavoratore
che ha consentito poi, una volta terminata l’attività lavorativa, di tappare i
buchi di uno stato sociale disastrato ed inefficiente. Del resto si è andato
sostenendo dall’anno 2088 – anno primo della crisi – che se non fosse esistito
quel particolare “stato sociale” costituito dai gruzzoli dei nonni o dei padri
ben difficilmente si sarebbe realizzata la “tranquillità sociale” della quale
abbiamo goduto negli anni di “crisi”. La politica economica che
si propone è in perfetta sintonia con il liberismo più sfrenato che ha
attraversato il mondo intero e che, tanto per non dimenticarlo, ha generato la “crisi”
attuale. È lo stesso liberismo sfrenato ed immorale che non ha saputo poi, a “crisi”
conclamata, risanare le piaghe purulente create nel tessuto sociale. Nella
generalità dei casi sono state le collettività che hanno dovuto far fronte al
disastro finanziario. Il “pannicello caldo” che oggigiorno si vuole mettere in
atto con la “rapina” del TFR è l’ennesima riprova di un governo che ha
accantonato le idee proprie della “sinistra”: equità, solidarietà, redistribuzione
della ricchezza, ascesa sociale. In un contesto ben delineato di reale
“tradimento” delle idee della “sinistra” il dissolversi della forma partitica
necessaria a quelle idee affinché avessero vita e gambe per andare avanti, forma
partitica così ben delineata da Nadia Urbinati, quel dissolvimento torna
auspicabile anzi, va sempre più incoraggiato. Ha scritto in proposito Gad
Lerner, sempre sul quotidiano la Repubblica del 7 di ottobre - “La frontiera del trasformismo” -: (…).
…per gestire senza esserne travolto questa fase di impoverimento forse
inevitabile del lavoro dipendente, Renzi necessita di un partito della nazione piuttosto
che di un partito della sinistra. Ovvero di un partito del leader capace di
riunire gli italiani contro un nemico comune, da individuarsi nella tecnocrazia
europea fautrice dell’austerità. Il Pd degli iscritti e delle primarie non può
bastargli in questa operazione – politica a tutto tondo - di deregulation
interna ed esterna. Senza voler dare a questo termine alcun significato morale
negativo, Giovanni Orsina definisce tecnicamente “trasformistica” l’operazione
completata da Renzi, con diretto riferimento alla conquista del Parlamento del
Regno d’Italia riuscita un secolo prima a Giovanni Giolitti. Scrive Orsina che
il premier “ha colmato parte del fossato che divide destra da sinistra,
preparando il terreno per una grande confluenza al centro” (La Stampa,
18/09/14). Così, profittando anche dell’evanescenza delle opposizioni, si è
affermato come leader “inevitabile”. (…). Se il trasformismo renziano possa
rappresentare la chance di un nuovo inizio, sul terreno decisivo dei rapporti
di lavoro, è un azzardo che si svelerà ben presto. È sul “presto”
auspicato dall’illustre notista, alla luce della storia politica del bel paese,
che bisognerà misurare, un domani, il risultato nefasto dell’agire politico
dell’oggi. Ritornando al pregevole “pezzo” di Nadia Urbinati: La
situazione del Pd è (…) paradossale perché (…) si tratta di un partito che è un
vero asso pigliatutto. Come ha detto Renzi, esso ha portato a casa risultati
elettorali strabilianti a partire dalle elezioni europee. E resta nei sondaggi
intorno al 40%. E intanto gli iscritti crollano, crolla l’affluenza alle
primarie di fine settembre in Emilia-Romagna. L’assenteismo dilaga sia nelle
sezioni che sotto i gazebo. Il Pd “governa il vuoto”, per parafrasare il titolo
di un bel libro sulla fine del partito-partecipazione di Peter Mair (Ruling the
Void). Perché quel che ancora chiamiamo “partito” ha subito una così radicale
metamorfosi da assomigliare a una casta di notabili. Come spiegare questo
“partito vuoto”? Forse cercando di mettersi nei panni di un potenziale
militante. Perché un cittadino o una cittadina dovrebbe decidere di tesserarsi?
Almeno tre sono le ragioni che lo scoraggiano. Prima di tutto per la pessima
reputazione che ha il partito politico, anche secondo la leadership del Pd. E
se il partito è un carrozzone e esserne parte equivale a meritarsi la
rottamazione o la disistima, perché iscriversi? La seconda ragione sta
nell’irrilevanza del ruolo dei militanti. È vero quel che dice Renzi, che è
meglio produrre buone idee che tessere fasulle. E se le tessere non fossero
fasulle? Ovvero, perché presumere l’alternativa tra avere tessere fasulle e
buone idee? È chiaro che per diventare una fucina di idee un partito deve
essere aperto al dialogo, al dibattito, ad una partecipazione che conta: ma i
settemila e duecento circoli esistenti in Italia e all’estero sono pressoché
inattivi. Ancora più triste il destino delle sezioni. Sembra che si sia persa
l’abitudine al discorso pubblico e che parli o abbia voce solo chi decide, cioè
chi sta dentro le istituzioni. La terza ragione completa questo quadro: i
militanti non hanno potere neanche di decidere la leadership. E lo statuto lo
conferma. Il primo articolo recita così: “Il Partito Democratico è un partito
federale costituito da elettori ed iscritti”. Costituito non da chi ha una
determinata idea politica, ma da chi ha diritto di voto, cioè potenzialmente da
tutti gli italiani. Potrebbe sembrare che questa visione inclusiva sia in
sintonia con la sua natura democratica: non chiudere le paratie con la società,
rendere il partito permeabile e aperto. Ma l’apparenza inganna. Questo
ecumenismo è un problema non un pregio, perché disegna un partito che non vuole
avere militanti ma solo votanti. E infatti in questa sua forma post-partitica,
la figura più importante è quella dell’elettore (delle primarie), non
dell’iscritto, che dovrebbe essere invece il vero protagonista del partito
perché ha rinunciato alla segretezza del voto dicendo a tutto il mondo da quale
“parte” sta. È per questa ragione che sarebbe ovvio supporre che le cariche di
partito fossero oggetto di decisione solo da parte degli iscritti. A questa
condizione diventare un militante avrebbe un senso. Ma se basta essere
elettore, allora perché iscriversi? Apertura a tutti implica togliere potere a
chi è militante. È evidente che lo statuto del Partito democratico ha
un’impronta plebiscitaria, per cui il collettivo degli iscritti ha meno
importanza del numero dei votanti. Anche per questa ragione la sua vita
politica interna è nulla e il numero dei suoi iscritti crolla. (…). Ha scritto
Silvia Truzzi su “il Fatto Quotidiano” del 5 di ottobre – “Un problema lo abbiamo risolto: sinistra non ha più significato”
:- (…).
…Openpolis, il sito che monitora l’attività dei parlamentari, c’informa che le
larghe intese veleggiano alla grandissima. La comunità d’intenti di due tra le
maggiori forze (al governo e all’opposizione) è altissima e la matematica ci
viene in soccorso. In Senato i capigruppo di Forza Italia e Pd, Paolo Romani e
Luigi Zanda, hanno una percentuale di votazioni comuni che sfiora il 91%.
Matteo Richetti (Pd) e Francesco Paolo Sisto (Fi), hanno votato allo stesso
modo 1.605 volte: il voto convergente arriva all’86,4%. Il ministro Maria Elena
Boschi (Pd) e l’onorevole Daniela Santanchè (FI) hanno una concordanza di
opinioni pari all’81,5%. La percentuale di votazioni uguali tra il renziano
Lorenzo Guerini e l’onorevole forzista Annagrazia Calabria tocca l’87%. Il
desiderio di essere come tutti, ma proprio tutti. (…). …sono (i)
numeri a dirci che la questione destra e sinistra, lungi dall’essere superata
nei dibattiti, è semplicemente inutile. Un confronto fatto di slogan
completamente svuotati di significato, e non perché i vecchi bacucchi nipotini
di Togliatti non capiscono – come dicono i giovani virgulti che hanno preso il
Palazzo d’inverno – che l’articolo 18 è un totem (qualche volta è anche un
tabù, dipende dal dichiarante). (…). Il dibattito sta facendo (anzi: ha già
fatto) la fine ingloriosa dell’infinita e ormai superflua querelle fascismo/antifascismo.
Una brutta vicenda di rimozione collettiva, invenzione e mistificazione: finita
la guerra abbiamo finto di averla vinta, ognuno si è inventato un fratello o un
cugino partigiano (con gli anni diventato nonno), la Resistenza è diventata
l’epica salvifica e opportunista di un paese sconfitto. La guerra santa
combattuta da pochi e utilizzata, dopo, da molti. Ora siamo arrivati allo
stesso punto: il dibattito è inutile perché le visioni della società – dunque i
valori – dei due schieramenti sono sostanzialmente allineati. Fine delle
ideologie, fine delle idee, diciamo fine anche alle finte categorie politiche.
Così magari ci sentiamo anche un po’ meno presi in giro. (…) …sarà bene
ricordarsi quel che già nel ‘94 cantava Gaber: “È evidente che la gente è poco
seria quando parla di sinistra o destra”.
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