Da “Il
cassiere che poteva cambiare la storia” di Gianni Barbacetto, su “il Fatto
Quotidiano” del 9 di ottobre 2014: Alla fine, la condanna è arrivata solo per
lui. Roberto Buzio è l’ultimo “cassiere” delle tangenti della Prima Repubblica.
È stato per 15 anni il segretario di Giuseppe Saragat e poi, dopo la sua morte,
ha continuato a lavorare per il Psdi, il Partito socialdemocratico italiano.
Allo scoppio di Mani Pulite è scappato dall’Italia, per evitare l’arresto. Da
allora vive in Alta Savoia, in Francia. Nel marzo 2012 ha rilasciato a il Fatto
Quotidiano un’intervista in cui ha rivelato episodi inediti di Tangentopoli di
cui era stato protagonista. “Antonio Cariglia, ultimo presidente del Psdi, mi
chiese di andare da alcuni imprenditori a raccogliere contributi per il
partito. Tra questi, c’era anche Silvio Berlusconi, che fino al 1992 ha
sostenuto i partiti della Prima Repubblica. Ho ricevuto diversi contributi di
Berlusconi dalle mani di Gianni Letta. L’ultimo, a ridosso delle elezioni
dell’aprile 1992. Lo andai a ritirare in un ufficio nel centro di Milano”.
Negli archivi di Mani Pulite c’è la traccia di una tangente pagata da Letta a
Buzio: 70 milioni di lire, versati nel 1989. Anche Letta l’ha ammessa, in un
interrogatorio all’allora pm della procura di Milano Antonio Di Pietro. Ma
tutto è coperto dalla provvidenziale amnistia che arrivò quell’anno. “La storia
però era diversa: intanto i milioni non erano 70, bensì 200″, ha raccontato
Buzio al Fatto. “E poi rivelammo solo quella dazione, d’accordo con i nostri
avvocati, perché sapevamo che era coperta dall’amnistia. Eppure i pagamenti
continuarono fino al 1992. Erano parecchie centinaia di milioni. Non solo,
nell’ambiente sapevamo che a riscuotere non era soltanto il Psdi: Berlusconi
sosteneva tutto il pentapartito”. Troppo tardi. L’avesse raccontata nel 1993,
forse la storia italiana sarebbe andata diversamente.
Forse ci saremmo
risparmiati il ventennio berlusconiano. Invece Buzio si sfoga solo nel 2012,
per protestare contro quelli che, a differenza di lui, sono passati indenni
dalla Prima alla Seconda Repubblica. “Io andavo solo a prenderli, i soldi”,
dice oggi più amareggiato che mai, “e ho dovuto scappare in Francia e diventare
cittadino francese. Quelli che invece li usavano sono ancora lì”. Fa i nomi di
alcuni big del suo partito, il Psdi, che sono passati nel fronte berlusconiano.
Carlo Vizzini, per esempio. “E Simona Vicari? Ce la siamo inventata io e
Vizzini”. Oggi è sottosegretario al ministero dello Sviluppo economico del
governo di Matteo Renzi, in quota Ncd. “Ed Enrico Ferri? L’ho portato io al
partito e l’ho presentato a Saragat. Divenne ministro e segretario del Psdi.
Ora suo figlio, Cosimo, è sottosegretario alla Giustizia e siede a fianco dei
carnefici di suo padre”. La settimana scorsa, Buzio è stato condannato: per
diffamazione, proprio per l’intervista concessa due anni fa al Fatto. Un anno
di reclusione sostituito con due anni di libertà controllata, più il pagamento
di 16 mila euro al querelante che lo ha portato in giudizio: Antonio Di Pietro,
nei cui confronti Buzio aveva avuto parole dure, sostenendo, nell’intervista,
che i pm di Mani Pulite agivano colpendo qualcuno e salvando altri. Si
salvarono, in verità, quelli su cui non furono trovate prove. Tra questi
Berlusconi e Letta, che la scamparono anche perché Buzio, “d’accordo con gli
avvocati”, rivelò soltanto le tangenti coperte dall’amnistia. Ora l’ultimo dei
“cassieri” continua a raccontare quella che ritiene la sua verità nel suo sito
web (“Dalla Francia con amore”, www.robertobuzio.fr). E ripete: “Cosa crede?
Che non sarei potuto andare anch’io da Berlusconi, negli anni scorsi? Ora sarei
deputato. Ma a me interessa ristabilire la verità storica. Lo farò, a ogni
costo”.
Da “Il
fantasma della peste” di Adriano Prosperi, sul quotidiano la Repubblica del
9 di ottobre 2014: In Africa occidentale si moriva da tempo a causa di Ebola. Ma si
voltavano le spalle, si diceva che tutto era sotto controllo. Non era vero.
Finché l’8 agosto scorso l’Organizzazione mondiale della santità per bocca del
suo direttore ha dichiarato che siamo in piena emergenza internazionale. E
oggi, nei nostri Paesi, basta un nome di un sospetto contagiato per scatenare
un’ansia spaventosa. Nessun uomo, nessuna donna è un’isola: questo è certo e
indiscutibile, soprattutto ai nostri tempi. Ma questo si traduce nel fatto che
quando si tratta di Ebola basta un nome a fare l’effetto di un sasso nello
stagno. Le onde che se ne dipartono sono le isoipse di un altro contagio,
diverso da quello del virus e a diffusione assai più rapida: quello della
paura. Che effetti può fare la paura? Il più evidente lo vediamo nella
deformazione del modo di percepire gli spazi del mondo. All’improvviso l’idea di
un mondo più piccolo, senza confini, senza frontiere, ha perduto l’alone di
ottimismo che circondò pochi anni fa l’idea della mondializzazione: si è
rovesciato nel suo opposto, appare come una minaccia, ci fa regredire col
desiderio al tempo dei viaggi lenti per mare e per terra, delle lunghe soste in
quarantena nei porti di mare. Oggi sono i porti dell’aria, gli aeroporti, a
trovarsi nella tempesta. Si guarda a loro come alla falla irrimediabile della
nostra sicurezza: guardiamo al nostro vicino d’aereo col dubbio: chissà da
quale remoto contatto col mondo africano è arrivato proprio lì, accanto a noi.
E l’idea della quarantena si affaccia, suggerita dall’esperienza storica e
dalle norme sanitarie elaborate nei secoli. Quarantena significa sospensione della
vita, attesa, paura. Tutte cose in conflitto col ritmo turbinoso della vita nel
mondo attuale. Isolamento, osservazione: tempi lunghi da trascorrere in un
mondo alieno, abitato da presenze che non hanno niente di umano. Le fotografie
mostrano esseri con tute da astronauta, maschere, attrezzature per trattare a
distanza corpi pericolosi. Tutto questo non è nuovo. Abbiamo immagini della
grande peste del 1630 a Venezia che mostrano esseri mostruosi: volti nascosti
dietro una maschera con occhialoni e una specie di lungo becco adunco al posto
del naso, corpi coperti da vesti lunghe fino a terra, stivaloni, guanti enormi.
Era la tenuta di sicurezza dei medici: dentro il becco tenevano foglie di
rosmarino, bacche di ginepro, spicchi d’aglio, per non sentire il fetore dei
corpi dei malati. In mano, avevano un lungo bastone per sollevare lenzuoli e
scoprire corpi. Intanto gli appestati erano isolati sull’isola del Lazzaretto
Vecchio; e chi aveva avuto contatti con loro era confinato su quella del
Lazzaretto Nuovo. Per chi trasgrediva le regole igieniche e alimentari, c’era
una forca eretta su di una nave. Intanto i morti si ammassavano nelle case e
chi poteva ne gettava i corpi dentro le apposite barche che passavano nei
canali. Quell’epidemia devastò città e campagne dell’Italia
centro-settentrionale. Rimase celebre quella di Milano. La grande letteratura
che riesce a far rivivere il presente nascosto sotto i panni del passato ce ne
ha offerto un’idea coi Promessi sposi del Manzoni: anche, se non di più, con la
sua Storia della colonna infame . Senza il terrore che dominava le menti, senza
il sospetto e l’odio che avvelenavano i rapporti umani, non ci sarebbe stato
nel 1630 il mostruoso processo contro il barbiere Gian Giacomo Mora e il
commissario di sanità Guglielmo Piazza. Dietro il vicino, il passante
qualsiasi, si vedeva l’untore, l’avvelenatore che dissemina deliberatamente il
contagio. E ben prima dei due sfortunati milanesi tanti altri avevano pagato
con la vita il sospetto di essere i colpevoli delle epidemie di peste. Gli
eretici, i bestemmiatori, le prostitute attiravano l’ira di Dio, alla fine
toccò anche ai malati di Aids. Nella serie dei capri espiatori non potevano
mancare gli ebrei: furono loro a finire sui roghi quando la Peste Nera del 1348
devastò l’Europa. Fu quello il momento capitale dell’esperienza della fragilità
della specie, l’attacco che mise a rischio la sopravvivenza stessa degli esseri
umani in una vasta e progredita area continentale. A quel momento storico ci si
deve rivolgere sempre come al laboratorio degli effetti devastanti di
un’epidemia: non solo per la dimensione apocalittica del fenomeno, che apparve
allora misterioso e incomprensibile se non rifacendosi all’idea dell’ira di un
Dio da placare con penitenze e purgazione della società dai membri sospetti. Ma
anche e soprattutto per capire quali siano gli effetti della paura del
contagio. I cronisti della Peste Nera ce lo hanno detto: Matteo Villani scrisse
che «le madri e’ padri abbandonavano i figliuoli, e i figliuoli le madri e’ padri,
e l’uno fratello l’altro e gli altri congiunti». E più d’ogni altra fonte
storica è un scrittore della grandezza di Giovanni Boccaccio che vale la pena
di rileggere a questo proposito: «L’un fratello l’altro abbandonava, li padri e
le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire
schifavano». Ecco il punto: l’esperienza del terrore può dissolvere i vincoli
più sacri fra gli esseri umani. L’aggressione di un nemico invisibile, di una
minaccia mortale senza riparo, può davvero trasformare l’essere umano in lupo
per il suo simile. E oggi Ebola minaccia di rinnovare questa esperienza:
all’abisso già esistente tra l’Africa e il resto del mondo che ci ha reso
insensibili davanti alle stragi del Mediterraneo, oggi si aggiunge la minaccia
di abissi anche più profondi all’interno delle nostre società e dei nostri
rapporti umani abituali. (…).
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