Quale è stata per Voi la notizia
del giorno? Nella palude della politica del bel paese ha avuto risalto e
sollecitato attenzione ed apprensione ad un tempo la notizia del sequestro
degli “elasticini” vivamente colorati con i quali una fetta più o
meno grande della nostra infanzia d’oggi si diletta a creare braccialetti multicolori.
Il sequestro è scattato a seguito del sospetto – al momento solamente un sospetto
– della possibile cancerogenesi indotta dai materiali utilizzati per fare facilmente
denaro. Chi di Voi, che come me è divenuto nonno da un bel pezzo, non ha sussultato
alla notizia del giorno? Egoisticamente, lo ammetto, ho subito pensato ai miei
pargoli con i quali sino a qualche giorno addietro inanellavo gli “elasticini”
per creare i coloratissimi braccialetti. Ma oltre la notizia? Poiché nelle cose
degli umani c’è sempre un “oltre” che ha ben altra sostanza. Nel caso afferente
alla notizia del giorno la sostanza di quell’”oltre” si sostanzia – orribile
cacofonia – nei diritti acquisiti ed oggigiorno messi in discussione se non disattesi
o distrutti. Poiché è in questo angolo di mondo, che ha per nome Europa, che la
“religione dei diritti” ha preso forma e sostanza che non in qualsiasi altra
parte del pianeta Terra. Diritto alla salute – messo in discussione dagli “elasticini”
famigerati -, diritto all’istruzione, diritti sui posti di lavoro, diritto ad
un ambiente che sia salubre ecc. ecc. E sì che gli “elasticini” incriminati
vengono dall’opificio del mondo, da quell’angolo della Terra una volta chiamato
“impero
celeste”. Oggigiorno di celeste ha ben poco, continua a denominarsi
paese comunista ma spaccia il suo capitalismo selvaggio e senza diritti per l’intero
globo terracqueo. Ma come possono denominarsi “comunisti” – termine desueto ed
antistorico - o solamente “di sinistra” quei paesi, quei governi che non
abbiano a cuore i diritti faticosamente conquistati in questo angolo del
pianeta Terra denominato Europa? La legge selvaggia del capitalismo dell’oggi
tende a vanificare la conquista di quei diritti in tutti gli angoli del
pianeta: una globalizzazione all’incontrario nella quale ad essere sabotati
sono i diritti inalienabili che la gente d’Europa ha saputo conquistarsi a
ridosso del secondo conflitto mondiale. Ovvero, conculcare i “diritti” in nome
di una concorrenza sleale laddove quei diritti sono divenuti l’essenza stessa
della democrazia. A proposito dei “diritti” che si tende a negare ha scritto
oggi Nadia Urbinati sul quotidiano la Repubblica – “L’articolo 18 che divide la sinistra” -:
La Sinistra é nata in occidente
insieme al lavoro salariato, per rappresentarne le esigenze e però anche le
potenzialità di trasformazione sociale. Emancipare il lavoro dalla servitù non
ha significato soltanto tradurlo in un servizio compensato (più o meno
equamente), ma anche assegnarne una funzione sociale, farne un sinolo di altri
diritti per coloro (la stragrande maggioranza) che non hanno altro potere se
non la loro intraprendenza. Il legame della Sinistra con il lavoro non si é
affievolito con la sua trasformazione democratica. Si é anzi perfezionato e
arricchito. La legislazione sulla sicurezza del lavoro e la previdenza sociale,
sull’eguaglianza di considerazione e di non discriminazione per ragioni di
genere, di religione o di ideologia politica: a partire dal Secondo dopoguerra,
tutti questi ambiti ruotano intorno al lavoro come rapporto sociale e luogo di
diritti. (…). Si dirà: nella sfera economica vale la libertà di disporre
ciascuno della sua proprietà. Ma è vero anche che la nostra costituzione
riconosce il diritto di proprietà non come un fatto esclusivamente privato e
anarchico (anche perché nessuna proprietà esisterebbe senza il potere dello
Stato). A ben guardare, è l’arbitrio che l’articolo 18 vuole limitare, non la
libertà economica. Esso è la conseguenza naturale dell’articolo 41 della
Costituzione poiché impone una responsabilità di cittadinanza alla sfera degli
interessi economici. Si ripete ormai da anni che l’articolo 18 ha comunque poco
impatto, operando su aziende medio-grandi mentre l’Italia ha in maggioranza
aziende medio-piccole o familiari. Allora perché insistere tanto? Perché, dice
chi è per la sua abolizione, lo vogliono i mercati, gli investitori. È una
decisione simbolica, un segnale. Ma perché i mercati hanno bisogno di questo
tipo di segnale? Molto probabilmente perché pensano che la democrazia debba
avere una nuova regia: non la legge (il legislatore, lo stato), ma il mercato.
Per questo, essi pensano che una parte importante della sfera sociale debba
tornare a essere privata. Il limite della “giusta causa” che l’articolo 18
impone è il vero ostacolo che si vuole rimuovere dunque, quello che segnala la
priorità del pubblico sul privato, della legge sul mercato: che impone al
datore di lavoro di rendere conto della ragione della sua decisione di
licenziare. L’articolo stabilisce che il rapporto di lavoro non è solo un fatto
privato, legittimato dal consenso dei contraenti. (…). Il punto nodale sta (…)
nel cogliere la filosofia che sta dietro la sua specifica formulazione. Essa
invita a non considerare il lavoro come un fatto privato. Pone un limite alla
libertà di licenziamento nelle aziende private con più di quindici dipendenti:
il limite della “giusta causa”. Non toglie la libertà di licenziare, ma la
regola affinché essa non sia puro arbitrio, esito di una decisione
discrezionale in forza di un’asimmetria di potere. Questo articolo rispecchia
il principio fondamentale della democrazia, che è la libertà dal dominio e
dall’arbitrio. E ogni riforma proposta dalla sinistra dovrebbe mirare a
confermare questo principio di libertà. (…). Il fatto nuovo al quale assistiamo
in questi giorni è che la lotta fra queste due prospettive è interna alla
Sinistra, celata dietro la lotta generazionale. Dei “diritti” – ovvero di
tutti i diritti spettanti agli esseri umani - si è da sempre fatto infaticabile
portavoce Stefano Rodotà. E dopo la notizia-bomba degli “elasticini” potenzialmente
cancerogeni mi garba proporre la bella intervista concessa dal professore a
Simonetta Fiori sul quotidiano la Repubblica del 23 di luglio dell’anno 2013. Titolo
della intervista: "Dignità: oggi è
questa la parola chiave". «Perché mi applaudono nelle
piazze e nei teatri? In questi anni ho continuato a parlare di eguaglianza,
lavoro, solidarietà, dignità. Sì, ho detto delle cose di sinistra, che nel
grande silenzio della politica ufficiale hanno provocato un investimento
simbolico inaspettato. Una reazione che naturalmente lusinga, ma mi crea anche
qualche imbarazzo». (…). In molti, anche tra i suoi antichi compagni di
battaglia, sostengono che la distinzione tra destra e sinistra non ha più
senso. «(…). Cosa vuol dire che non c’è più distinzione? Vuol dire che dobbiamo
essere i fautori della pacificazione? La distinzione esiste, ed è marcata: sia
sul piano storico che su quello teorico. Chi non la vuole vedere mi suscita una
profonda diffidenza politica». Proviamo a indicare qualche punto essenziale di
distinzione. «Un principio inaccettabile per la sinistra è la riduzione della
persona a homo oeconomicus, che si accompagna all’idea di mercato naturalizzato:
è il mercato che vota, decide, governa le nostre vite. Ne discende lo
svuotamento di alcuni diritti fondamentali come istruzione e salute, i quali
non possono essere vincolati alle risorse economiche. Allora occorre tornare
alle parole della triade rivoluzionaria, eguaglianza, libertà e fraternità, che
noi traduciamo in solidarietà: e questa non ha a che fare con i buoni
sentimenti ma con una pratica sociale che favorisce i legami tra le persone.
Non si tratta di ferri vecchi di una cultura politica defunta, ma di bussole
imprescindibili. Alle quali aggiungerei un’altra parola-chiave fondamentale che
è dignità». Una parola molto presente nella tradizione cattolica. «In parte
viene da lì. E qui ho dovuto rivedere alcuni miei giudizi giovanili insofferenti
al personalismo cattolico, che lasciò una forte traccia sulla Costituzione. Ma
la dignità è anche legata al tema del lavoro. C’è un passaggio essenziale della
Carta, l’articolo 36, che stabilisce che la retribuzione deve garantire al
lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La nostra
Costituzione, insieme a quella tedesca, rappresentò l’unica vera novità del
costituzionalismo del dopoguerra. Noi con il lavoro, i tedeschi con
l’inviolabilità della dignità umana, principio reso necessario dai crimini del
nazismo». Le uniche due novità provenivano dai paesi sconfitti? «Sì, Italia e
Germania avvertivano più degli altri il bisogno di uscire da un mondo tragico
per rifondarne uno radicalmente diverso ». In fase costituente, il giurista
Costantino Mortati tentò di introdurre una distinzione tra diritti civili e
diritti sociali, tra quelli che non hanno un costo e quelli vincolati alle
risorse dello Stato, quindi garantendo a priori i primi e impegnando lo Stato a
trovare le risorse per i secondi, ma senza assicurarne il pieno godimento. (…).
«Due obiezioni essenziali. Primo: il ritenere questi diritti indivisibili non è
un principio sovversivo, ma viene sancito anche dalla Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea. Secondo: esso vale come vincolo nella
ripartizione delle risorse. Dire che l’Italia è una Repubblica fondata sul
lavoro mi costringe a tenerne conto quando distribuisco le voci di bilancio. Lo
so che la salute costa, ma quando l’articolo 32 mi dice che è un diritto
fondamentale, la politica non può prescinderne. E venendo alla formazione, se
la scuola pubblica è un obbligo per lo Stato, finché io non ne ho soddisfatto
tutti i bisogni, alla scuola privata non do niente. Troppo brutale?». No, molto
chiaro. «È evidente che il welfare va rivisto sulla base delle risorse, ma chi
agita la bandiera dei “diritti che costano” mi sembra voglia liberarsi
dell’ingombrante necessità di discutere di politiche redistributive. Spesso
sono gli stessi che dicono che non c’è distinzione tra destra e sinistra». (…).».
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