"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 1 ottobre 2014

Quellichelasinistra. 6 "Dignità e diritti, le parole chiave".



Quale è stata per Voi la notizia del giorno? Nella palude della politica del bel paese ha avuto risalto e sollecitato attenzione ed apprensione ad un tempo la notizia del sequestro degli “elasticini” vivamente colorati con i quali una fetta più o meno grande della nostra infanzia d’oggi si diletta a creare braccialetti multicolori. Il sequestro è scattato a seguito del sospetto – al momento solamente un sospetto – della possibile cancerogenesi indotta dai materiali utilizzati per fare facilmente denaro. Chi di Voi, che come me è divenuto nonno da un bel pezzo, non ha sussultato alla notizia del giorno? Egoisticamente, lo ammetto, ho subito pensato ai miei pargoli con i quali sino a qualche giorno addietro inanellavo gli “elasticini” per creare i coloratissimi braccialetti. Ma oltre la notizia? Poiché nelle cose degli umani c’è sempre un “oltre” che ha ben altra sostanza. Nel caso afferente alla notizia del giorno la sostanza di quell’”oltre” si sostanzia – orribile cacofonia – nei diritti acquisiti ed oggigiorno messi in discussione se non disattesi o distrutti. Poiché è in questo angolo di mondo, che ha per nome Europa, che la “religione dei diritti” ha preso forma e sostanza che non in qualsiasi altra parte del pianeta Terra. Diritto alla salute – messo in discussione dagli “elasticini” famigerati -, diritto all’istruzione, diritti sui posti di lavoro, diritto ad un ambiente che sia salubre ecc. ecc. E sì che gli “elasticini” incriminati vengono dall’opificio del mondo, da quell’angolo della Terra una volta chiamato “impero celeste”. Oggigiorno di celeste ha ben poco, continua a denominarsi paese comunista ma spaccia il suo capitalismo selvaggio e senza diritti per l’intero globo terracqueo. Ma come possono denominarsi “comunisti” – termine desueto ed antistorico - o solamente “di sinistra” quei paesi, quei governi che non abbiano a cuore i diritti faticosamente conquistati in questo angolo del pianeta Terra denominato Europa? La legge selvaggia del capitalismo dell’oggi tende a vanificare la conquista di quei diritti in tutti gli angoli del pianeta: una globalizzazione all’incontrario nella quale ad essere sabotati sono i diritti inalienabili che la gente d’Europa ha saputo conquistarsi a ridosso del secondo conflitto mondiale. Ovvero, conculcare i “diritti” in nome di una concorrenza sleale laddove quei diritti sono divenuti l’essenza stessa della democrazia. A proposito dei “diritti” che si tende a negare ha scritto oggi Nadia Urbinati sul quotidiano la Repubblica – “L’articolo 18 che divide la sinistra” -:
La Sinistra é nata in occidente insieme al lavoro salariato, per rappresentarne le esigenze e però anche le potenzialità di trasformazione sociale. Emancipare il lavoro dalla servitù non ha significato soltanto tradurlo in un servizio compensato (più o meno equamente), ma anche assegnarne una funzione sociale, farne un sinolo di altri diritti per coloro (la stragrande maggioranza) che non hanno altro potere se non la loro intraprendenza. Il legame della Sinistra con il lavoro non si é affievolito con la sua trasformazione democratica. Si é anzi perfezionato e arricchito. La legislazione sulla sicurezza del lavoro e la previdenza sociale, sull’eguaglianza di considerazione e di non discriminazione per ragioni di genere, di religione o di ideologia politica: a partire dal Secondo dopoguerra, tutti questi ambiti ruotano intorno al lavoro come rapporto sociale e luogo di diritti. (…). Si dirà: nella sfera economica vale la libertà di disporre ciascuno della sua proprietà. Ma è vero anche che la nostra costituzione riconosce il diritto di proprietà non come un fatto esclusivamente privato e anarchico (anche perché nessuna proprietà esisterebbe senza il potere dello Stato). A ben guardare, è l’arbitrio che l’articolo 18 vuole limitare, non la libertà economica. Esso è la conseguenza naturale dell’articolo 41 della Costituzione poiché impone una responsabilità di cittadinanza alla sfera degli interessi economici. Si ripete ormai da anni che l’articolo 18 ha comunque poco impatto, operando su aziende medio-grandi mentre l’Italia ha in maggioranza aziende medio-piccole o familiari. Allora perché insistere tanto? Perché, dice chi è per la sua abolizione, lo vogliono i mercati, gli investitori. È una decisione simbolica, un segnale. Ma perché i mercati hanno bisogno di questo tipo di segnale? Molto probabilmente perché pensano che la democrazia debba avere una nuova regia: non la legge (il legislatore, lo stato), ma il mercato. Per questo, essi pensano che una parte importante della sfera sociale debba tornare a essere privata. Il limite della “giusta causa” che l’articolo 18 impone è il vero ostacolo che si vuole rimuovere dunque, quello che segnala la priorità del pubblico sul privato, della legge sul mercato: che impone al datore di lavoro di rendere conto della ragione della sua decisione di licenziare. L’articolo stabilisce che il rapporto di lavoro non è solo un fatto privato, legittimato dal consenso dei contraenti. (…). Il punto nodale sta (…) nel cogliere la filosofia che sta dietro la sua specifica formulazione. Essa invita a non considerare il lavoro come un fatto privato. Pone un limite alla libertà di licenziamento nelle aziende private con più di quindici dipendenti: il limite della “giusta causa”. Non toglie la libertà di licenziare, ma la regola affinché essa non sia puro arbitrio, esito di una decisione discrezionale in forza di un’asimmetria di potere. Questo articolo rispecchia il principio fondamentale della democrazia, che è la libertà dal dominio e dall’arbitrio. E ogni riforma proposta dalla sinistra dovrebbe mirare a confermare questo principio di libertà. (…). Il fatto nuovo al quale assistiamo in questi giorni è che la lotta fra queste due prospettive è interna alla Sinistra, celata dietro la lotta generazionale. Dei “diritti” – ovvero di tutti i diritti spettanti agli esseri umani - si è da sempre fatto infaticabile portavoce Stefano Rodotà. E dopo la notizia-bomba degli “elasticini” potenzialmente cancerogeni mi garba proporre la bella intervista concessa dal professore a Simonetta Fiori sul quotidiano la Repubblica del 23 di luglio dell’anno 2013. Titolo della intervista: "Dignità: oggi è questa la parola chiave". «Perché mi applaudono nelle piazze e nei teatri? In questi anni ho continuato a parlare di eguaglianza, lavoro, solidarietà, dignità. Sì, ho detto delle cose di sinistra, che nel grande silenzio della politica ufficiale hanno provocato un investimento simbolico inaspettato. Una reazione che naturalmente lusinga, ma mi crea anche qualche imbarazzo». (…). In molti, anche tra i suoi antichi compagni di battaglia, sostengono che la distinzione tra destra e sinistra non ha più senso. «(…). Cosa vuol dire che non c’è più distinzione? Vuol dire che dobbiamo essere i fautori della pacificazione? La distinzione esiste, ed è marcata: sia sul piano storico che su quello teorico. Chi non la vuole vedere mi suscita una profonda diffidenza politica». Proviamo a indicare qualche punto essenziale di distinzione. «Un principio inaccettabile per la sinistra è la riduzione della persona a homo oeconomicus, che si accompagna all’idea di mercato naturalizzato: è il mercato che vota, decide, governa le nostre vite. Ne discende lo svuotamento di alcuni diritti fondamentali come istruzione e salute, i quali non possono essere vincolati alle risorse economiche. Allora occorre tornare alle parole della triade rivoluzionaria, eguaglianza, libertà e fraternità, che noi traduciamo in solidarietà: e questa non ha a che fare con i buoni sentimenti ma con una pratica sociale che favorisce i legami tra le persone. Non si tratta di ferri vecchi di una cultura politica defunta, ma di bussole imprescindibili. Alle quali aggiungerei un’altra parola-chiave fondamentale che è dignità». Una parola molto presente nella tradizione cattolica. «In parte viene da lì. E qui ho dovuto rivedere alcuni miei giudizi giovanili insofferenti al personalismo cattolico, che lasciò una forte traccia sulla Costituzione. Ma la dignità è anche legata al tema del lavoro. C’è un passaggio essenziale della Carta, l’articolo 36, che stabilisce che la retribuzione deve garantire al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La nostra Costituzione, insieme a quella tedesca, rappresentò l’unica vera novità del costituzionalismo del dopoguerra. Noi con il lavoro, i tedeschi con l’inviolabilità della dignità umana, principio reso necessario dai crimini del nazismo». Le uniche due novità provenivano dai paesi sconfitti? «Sì, Italia e Germania avvertivano più degli altri il bisogno di uscire da un mondo tragico per rifondarne uno radicalmente diverso ». In fase costituente, il giurista Costantino Mortati tentò di introdurre una distinzione tra diritti civili e diritti sociali, tra quelli che non hanno un costo e quelli vincolati alle risorse dello Stato, quindi garantendo a priori i primi e impegnando lo Stato a trovare le risorse per i secondi, ma senza assicurarne il pieno godimento. (…). «Due obiezioni essenziali. Primo: il ritenere questi diritti indivisibili non è un principio sovversivo, ma viene sancito anche dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Secondo: esso vale come vincolo nella ripartizione delle risorse. Dire che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro mi costringe a tenerne conto quando distribuisco le voci di bilancio. Lo so che la salute costa, ma quando l’articolo 32 mi dice che è un diritto fondamentale, la politica non può prescinderne. E venendo alla formazione, se la scuola pubblica è un obbligo per lo Stato, finché io non ne ho soddisfatto tutti i bisogni, alla scuola privata non do niente. Troppo brutale?». No, molto chiaro. «È evidente che il welfare va rivisto sulla base delle risorse, ma chi agita la bandiera dei “diritti che costano” mi sembra voglia liberarsi dell’ingombrante necessità di discutere di politiche redistributive. Spesso sono gli stessi che dicono che non c’è distinzione tra destra e sinistra». (…).».

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