Ha scritto Stefano Feltri su “il Fatto Quotidiano”
del 16 di ottobre ultimo – “Carta vince,
carta perde” -: Evviva, evviva: Matteo Renzi sfascia l’austerità, taglia le tasse di 18
miliardi, regala soldi alle imprese, infila la liquidazione in busta paga ai
dipendenti, conferma gli 80 euro, favorisce le assunzioni, c’è perfino qualcosa
per le partita Iva. Tutti felici e tutti grati al premier e al Pd: un utile
consenso, casomai arrivassero presto le elezioni. È che di quel gioco
della “carta vince, carta perde” ne ho un tenerissimo ricordo
d’infanzia. È che, ogni qual volta si giungesse nella stazione di Piazza
Garibaldi sotto al Vesuvio dormiente, l’immancabile spettacolino del
tavolinetto traballante e dei tre figuri attorno ad esso disposti
immancabilmente attirava, calamitava quasi, e non esisteva forza superiore che
spingesse ad andare oltre. I tre figuri erano i degni “compari” di una messa in
scena, di una sublime rappresentazione che riservava sempre cose nuove ed
invenzioni tanto da poter gareggiare in bravura con i migliori attori
dell’avanspettacolo, se non della migliore commedia dell’arte. Insomma,
un’avventura imperdibile per i viaggiatori appena scesi dal treno.
Il gioco, o
meglio la magistrale rappresentazione, aveva inizio con i soli tre comprimari.
Ma appena il primo malcapitato si appressava al traballante tavolinetto era tutto
uno sfoggio di abilità da parte del “compare” principale che maneggiava le tre
carte coperte opportunamente e segnate da tre elastici multicolori. Ed avveniva
sempre che il raggruppamento attorno al tavolinetto traballante si infoltisse
rapidamente tanto da divenire in breve tempo una piccola folla. È che la magia
della rappresentazione necessitava ogni volta di un “pollo”. Ed immancabilmente
il “pollo” lo si trovava. Ed era allora che, individuato unanimemente il
“pollo” di turno, la rappresentazione sembrava come sgonfiarsi d’interesse,
come se all’improvviso si disperdesse il mistero di quella rappresentazione, ed
era allora che mio padre solerte mi portava via per la mano lasciandomi come
attonito di fronte al mistero ed alla maestria sprigionati attorno a quel
tavolinetto traballante. Il mistero di quelle rappresentazioni è sopravvissuto
a lungo nel mio personale immaginario, radicandosi in me la convinzione che
quelli rappresentazioni potessero aver luogo solamente all’ombra del Vesuvio e
che non potessero avere vita in qualsivoglia altro posto dell’intero pianeta
Terra. Fino a ricredermi di quell’errata convinzione in età giovane ma puranco
avanzata rispetto a quegli affettuosi ricordi d’infanzia. È che della perfida
pratica del “carta vince, carta perde” invece ho potuto ritrovare il vero
significato, ma non l’infantile attrazione e mistero che allora suscitava in
me, a seguito della “discesa in campo” del signor B. Da allora ho saputo che il
bel paese troverebbe la più significativa rappresentazione attorno proprio ad
un tavolinetto traballante. Sino a scoprire poi quanto sia diffusa quella
pratica discendendo, dal nord brumoso al sud solatio, per le ubertose contrade
del bel paese. Dalla “padania” inventata e falsamente celtica, al “lungarno”
ove si sciacquavano le nostre nuove forme linguistiche, i tre “figuri” del “carta
vince, carta perde” sono e rimarranno, forse in eterno, gli imbonitori
sempre tanto invocati e tanto attesi. Una disdetta per un paese che si voglia
pensare moderno ed avanzato! Scrive ancora Stefano Feltri: Qualche obiezione però dovrebbe
essere lecita. Primo: le coperture sono, come sempre, all’italiana. Oltre 11
miliardi arrivano dall’aumento del deficit: come dire che la copertura non c’è.
Ma visto che ormai siamo tutti keynesiani, chiudiamo un occhio. Però ci sono i
tagli: non ai tanto odiati “sprechi”, visto che il commissario alla revisione
Carlo Cottarelli è stato licenziato e il suo lavoro sepolto negli archivi. No,
si taglia (poco) sui ministeri e (molto, 6,2 miliardi) su Regioni ed enti
locali: solo chi è in malafede può sostenere che ci sia ancora grasso da
asportare. Dopo quattro anni in cui lo Stato centrale ha sottratto oltre 40
miliardi a Regioni e Comuni, ogni ulteriore stretta ridurrà i servizi, visto
che le tasse non si possono più alzare senza rivolte di piazza (anche se il
ministro Padoan è favorevole a un aggravio delle imposte locali). L’austerità è
ottusa, non c’è dubbio. E va ridiscussa perché non sta funzionando. Ma ancora
una volta l’Italia viola i suoi impegni, oggi su debito e domani sul deficit, e
non per finanziare investimenti che creino la base della crescita dei prossimi
anni, ma per una versione rinforzata della deludente “operazione 80 euro”. (…).
Spendere in deficit e sbertucciare Bruxelles è facile. La parte difficile è
affrontare le sanzioni europee – (…) – e l’eventuale furia dei mercati. Oltre a
quella dei cittadini, se dovessero scoprire che i regali della politica sono
prestiti con tasso di interesse da usura. Ed è qui che il giuoco del “carta
vince, carta perde” raggiunge traguardi e vette inesplorate. Il
tonitruante primo ministro, che sino a pochi giorni addietro mandava a dire per
i quattro venti d’infischiarsene dei tecnocrati europei, che l’Italia per suo
mezzo non avesse da attendere ordini da chicchessia, e bla, bla, bla, oggi
finge di cantare vittoria e con uno spettacolare “carta vince, carta perde”
farà credere all’imbesuito pubblico del bel paese di avere avuto facile
vittoria contro i riottosi tecnocrati d’oltralpe. Il guaio è che tutto ciò
avviene non già all’ombra del sempre minaccioso Vesuvio ma nei palazzi del
potere, potere che utilizza i mezzucci di strada per obnubilare le coscienze. Si
dirà, è il potere, bellezza mia! Riporta Eugenio Occorsio, sul quotidiano la
Repubblica di ieri 29 di ottobre, l’opinione dell’economista Jean-Paul Fitoussi
- "Roma e Parigi si sono piegate,
il diktat europeo andava rifiutato" -: "Katainen adesso dice che
non ce l'aveva con nessuno, ma io resto convinto che Italia e Francia hanno
perso una grossa occasione per agire insieme, tenendo una posizione più ferma e
cominciando a forzare la nuova Commissione a un'impostazione del tutto diversa
della politica economica, a farla ragionare in termini più flessibili". (…).
Si augurava una reazione più decisa, stile Montebourg, il ministro francese
"dimissionato" da Hollande perché troppo critico con i tedeschi?
"Beh, così ci avevano fatto capire sia Renzi che soprattutto il nuovo
ministro francese Sapin: quest'ultimo aveva iniziato a dire che la Francia
supera i tetti di deficit e non ha nessuna intenzione di autoinfliggersi
ulteriori pesanti sacrifici in nome di un dogmatismo di marca tedesca del tutto
irragionevole. E invece proprio questo è successo. La Francia, come l'Italia,
attraversa una situazione economica gravissima e non è assolutamente in grado
di tollerare ulteriori tagli di spesa, aumenti delle tasse, riduzione dei
servizi. Le misure aggiuntive non so proprio che conseguenze potranno avere su
due Paesi così provati". Fino all'altra mattina, e fino all'ingresso nel
consiglio europeo, la posizione di entrambi i Paesi sembrava molto più
"sfidante". Poi la Francia ha annunciato ulteriori tagli così come
aveva fatto l'Italia poche ore prima, e infine ieri i due governi li hanno
ratificati in tutta fretta. Cosa è successo? Un cedimento in nome della diplomazia?
"Secondo me è andata malissimo. Due governi democratici che eseguono gli
ordini, anche piuttosto discutibili, di un funzionario europeo. Sia Padoan che
Sapin si sono adattati alle indicazioni, forse sarebbe meglio chiamarle diktat,
della Commissione sulla crescita potenziale per l'anno prossimo, il frutto di
una elaborazione puramente teorica che Bruxelles ha fatto calare dall'alto
adducendo un potere d'imperio che non ha. Perché considerare per la Francia
l'1,2 anziché l'1,5? Nessuno è stato in grado di spiegarcelo. E analogo
discorso per l'Italia. Hanno sbagliato a prenderlo per buono senza eccepire, ad
accettare anche loro, ripeto due governi democraticamente eletti, questa
confusione fra contabilità aritmetica ed economia reale. Andava detto:
guardate, voi sbagliate, i nostri calcoli sono diversi, e per il nostro Paese i
calcoli li facciamo meglio noi. Ora l'unico risultato, in tempi di deflazione,
è che i deficit caleranno in misura minima ma continueranno a salire i debiti
pubblici. Non era tempo di compromessi: nessuno consuma e sempre meno lo farà
con nuovi tagli, questo bisognava far capire. È tempo di fare l'opposto del
rigore, cioè di impostare politiche espansive altrimenti l'economia non si
riprenderà mai". Quindi lei è d'accordo con il suo collega, l'economista
tedesco Wolfgang Munchau, che prevede una stagnazione di 10-20 anni per
l'Europa? "Potrebbe aver ragione. Andrà sicuramente così se non si cambia
radicalmente impostazione. Possibile lo è certamente: guardate al Giappone che
non riesce a uscire dalla spirale perversa della deflazione da moltissimi anni.
Ecco perché bisogna dire basta a terapie che non fanno che aggravare il male.
Italia e Francia avevano un'occasione d'oro, se la sono lasciata
sfuggire". Però, anche se non eletta, la Commissione, per quanto
influenzata dall'eccessivo rigore del socio forte tedesco, è pur sempre
l'organismo cui i Paesi hanno demandato il governo europeo. "Infatti è il
momento di fare un salto di qualità in Europa iniziando a pensare a una Commissione
eletta dal popolo come vogliono le più elementari regole di democrazia. Non
possiamo farci governare da tecnici per di più scarsamente intelligenti”. Come
sempre, “carta vince, carta perde”. Gli eterni illusionisti al potere.
Ora i tagli ai fabbisogni della gente si aggireranno sui 4,5 miliardi di euro. “Carta
vince, carta perde”.
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