Da “Cambiare
tutto senza cambiare nulla” di Tito Boeri, sul quotidiano la Repubblica
dell’1 di ottobre 2014: Oggi un datore di lavoro che volesse
licenziare un dipendente può addurre sia ragioni di natura disciplinare (legate
al comportamento del lavoratore) che economica (legate alla performance dell’impresa).
Se il giudice ritiene che queste motivazioni siano infondate (si parla di
“manifesta insussistenza” nel caso di licenziamenti economici), può imporre la
reintegrazione del lavoratore. Si vuole ora mantenere questa possibilità per i
soli licenziamenti disciplinari. Ma il confine fra licenziamenti economici e
licenziamenti disciplinari è molto sottile. I datori di lavoro avranno, nel
caso in cui questa modifica entrasse in vigore, l’incentivo a perseguire solo
la strada dei licenziamenti economici, anche nel caso di comportamenti
opportunistici di un proprio dipendente, dato che, almeno sulla carta, i
licenziamenti economici costano di meno dei licenziamenti disciplinari. Mentre
un lavoratore licenziato per ragioni economiche potrà sempre far valere davanti
al giudice il fatto che l’azienda volesse in realtà punirlo per il proprio
comportamento. In questo caso, anche se il difetto del lavoratore fosse
documentabile, ma l’impresa avesse altri modi di “punire” il lavoratore senza
licenziarlo (ad esempio cambiando gli orari di lavoro), il giudice potrà imporre
all’azienda il reintegro del dipendente.
Si tratta perciò di una modifica
marginale, del tipo di quella imposta dalla Legge Fornero con il principio
della “manifesta insussistenza”, che viene peraltro in questo caso introdotta
solo per i nuovi assunti, mentre la legge Fornero cambiava le regole per tutti
i lavoratori. Per quanto il legislatore possa definire con precisione i
licenziamenti disciplinari (“la qualificazione specifica della fattispecie” cui
fa riferimento il testo approvato lunedì), con questa mediazione si crea una
forte asimmetria fra licenziamenti illegittimi di diversa natura, aprendo lo
spazio al contenzioso. Nei paesi Ocse, la norma è quella di trattare tutti i
licenziamenti illegittimi allo stesso modo, indipendentemente dalle ragioni
inizialmente addotte dalle imprese. Da noi, invece, si mettono paradossalmente
in una posizione di vantaggio i lavoratori coinvolti in un procedimento
disciplinare rispetto a quelli coinvolti in una crisi aziendale di cui non
hanno colpa alcuna. Se il licenziamento viene considerato legittimo, non
riceveranno nulla come pure i lavoratori che hanno perso il lavoro per motivi
economici. Se, invece, il licenziamento venisse considerato dal giudice senza
giusta causa, il lavoratore licenziato per questioni disciplinari potrà essere
reintegrato sul posto di lavoro, a differenza di chi ha avuto la sfortuna di
trovarsi in un’azienda in crisi. Gli incentivi sono perversi: per aumentare la
produttività bisognerebbe proprio scoraggiare i comportamenti opportunistici. A
chi oggi deve creare lavoro in Italia importano due cose. Primo, vuole essere
rassice curato sul fatto che un eventuale errore nella selezione dei candidati,
inevitabile quando si assume per le prestazioni più complesse richieste dalla
stragrande maggioranza dei nuovi lavori, questo errore fosse rimediabile con
costi certi e contenuti, tipo una compensazione monetaria fissata per legge.
Secondo, vuole essere sicuro che il dipendente si impegnerà a svolgere sempre
meglio le proprie mansioni “imparando facendo”. Il Jobs act uscito dalla
direzione del Pd non cambia nulla su questi due piani. Di più, non viene
neanche a sanare la contraddizione introdotta dal decreto Poletti che,
permettendo di fatto un periodo di prova di tre anni, scoraggia qualsiasi
assunzione a tempo indeterminato e la stessa conversione dei contratti
temporanei in contratti permanenti, come certificato dai dati sulle
comunicazioni obbligatorie raccolti dal ministero di cui Poletti è titolare.
(…). Credevamo che con la nuova politica, l’arte del confronto, della
mediazione e della ricerca del consenso, fosse un’altra cosa.
Tratto da “Da
destra verso destra, Renzi e il modello Reagan” di Furio Colombo, su “il
Fatto Quotidiano” del 5 di ottobre 2014: Perché l’Italia, adesso, dovrebbe ispirarsi
a un sistema fallito, il capitalismo d’avventura dei ricchi, visto che ha già
definitivamente rifiutato l’altro sistema simmetrico e fallito, il comunismo?
Nessuno sa dirci chi ha ordinato, o autorevolmente consigliato, di andare
sempre un po’ più a destra. Dati i fallimenti paurosi incassati dalla storia
(l’ultimo, la finanza americana che ha scosso il mondo nel 2008, e a cui Obama,
presidente “di sinistra”, ha posto rimedio nel 2014) può essere il disegno di
chi ha a cuore un futuro politico? Eppure i segnali di una clamorosa svolta a
destra sono chiari. E non sono (come spesso accade in Italia), vecchia destra
fascista. Sono una dichiarazione aperta del capitalismo puro e semplice che
rivuole i diritti incontrastati che aveva prima che un secolo di riforme
imponessero un minimo di equilibrio. Al punto che il Ministro dei Beni
Culturali e il sindaco di Roma, uniscono la forza e il prestigio delle loro
immagini e licenziano in tronco, via messaggio telefonico, tutta l’ orchestra e
tutto il coro dell’Opera di Roma, che sta dando noie sindacali. Impossibile non vedere la coincidenza
simbolica ma anche politica con il non dimenticato primo atto presidenziale di
Ronald Reagan (1980): il licenziamento in tronco di tutti i controllori di volo
che erano in sciopero contro gli orari eccessivi e pericolosi, quando Reagan è arrivato
alla Casa Bianca. Reagan era un personaggio affabile, simpatico, eccellente
comunicatore, e si pensava che avrebbe portato alla presidenza americana poca
ideologia e molto buon senso. Invece ha iniziato in modo sistematico il cammino
da destra verso destra che nel mondo continua ancora: lo smantellamento del New
Deal roosveltiano, una lotta senza quartiere ai sindacati (vilipesi e accusati
di tutto nei modi più grotteschi), il prosciugamento dei fondi federali alle
università e alle attività culturali, il principio secondo cui hai diritto alle
cure mediche se puoi, e se hai una assicurazione privata (che comunque decide
sulle tue cure) oppure non entrerai in alcun ospedale (si ricordi, in proposito
il documentario di Michael Moore, il regista che racconta e filma i casi di
malati gravi americani espulsi dai loro ospedali per insolvenza). Nasce a
questo punto, nella visione conservatrice di Reagan, l’idea di rovesciare la
credenza socialistoide secondo cui chi ha di più deve dare di più. Reagan taglia le tasse in modo da stabilire
che chi ha di più deve dare di meno. In tal modo, migliorando sempre di più la
qualità della vita in alto, ci saranno più incentivi a chiedere servizi a chi
sta in basso, e ci sarà più lavoro. Modesto, ma ci sarà. Ciascuno al suo posto.
Ma aumenterà la voglia, tipica dei più intraprendenti, di “fare impresa”. Il
principio ispiratore era, ed ancora, lo smantellamento progressivo dello Stato
che “non risolve il problema perchè è il problema”. Lo Stato, come apparato
organizzativo che tutela i cittadini, viene ridotto, “snellito”, se necessario
umiliato (perchè blocca lo slancio della nostra iniziativa) in modo da
ri-orientare noi tutti, la nostra fiducia, il nostro impegno, il nostro voto,
verso il privato e il privatizzato, in nome di una benefica concorrenza che
naturalmente non esiste, dati gli incroci di interessi commerciali e finanziari
che attraversano il mondo Ecco dunque dove stiamo andando: da destra verso
destra. La strada delle “riforme” è ancora lunga.
Da “Sior
paron dalle belle brache bianche caccia le palanche” di Eugenio Scalfari, sul quotidiano la
Repubblica del 5 di ottobre 2014: A questo punto si pone il problema, (…),
sulla natura del Partito democratico italiano. Il nostro giornale ha dato
notizia che gli iscritti al Pd sono attualmente centomila mentre furono
cinquecentomila appena un anno fa. I circoli del partito sono praticamente
vuoti; i leader di corrente quando vogliono mobilitare i loro amici li
riuniscono in luoghi fuori dai circoli dove dovrebbero parlare a tutti anziché
soltanto ai loro. Si chiama partito liquido o così lo chiamano e sarebbe
appunto basato non sui militanti ma sul popolo e sono tre i partiti o movimenti
di questa natura: il Pd guidato da Renzi, Forza Italia guidata da Berlusconi e
i 5 Stelle guidati da Grillo. Tre partiti populisti. Può piacere o meno questa
definizione ma di questo si tratta e Renzi infatti non sembra affatto
preoccupato di questo declino quantitativo; sembra anzi che gli faccia piacere
e lo ha anche pubblicamente detto. Lui si rivolge al popolo e naturalmente al
popolo di sinistra visto che noi abbiamo aderito per sua iniziativa e come era
giusto avvenisse al Partito socialista europeo. Dunque siamo socialisti. Dalle
riforme fin qui annunciate (ma pochissimo eseguite) di socialismo non pare ci
sia granché. Tant'è che mentre i sindacati battono i piedi e pensano al peggio
il presidente della Confindustria è felice della situazione e non è il solo, ce
ne sono molti altri come lui altrettanto felici. Non che ricevano favori
specifici ma promesse d'incentivi, quelli sì, miglioramento della loro
posizione nelle aziende sicuramente e infine l'abolizione di questo articolo 18
che a loro certo non dispiace. In realtà Renzi ha realizzato un piccolo
capolavoro, bisogna dargliene atto e per quanto mi riguarda lo faccio con
piacere: ha creato un nuovo partito il quale in sede europea aderisce ai
socialisti ma poi va molto d'accordo sia con Hollande che certamente socialista
è sia con Cameron che è un conservatore della più schietta specie. Il partito
Pd trattiene o addirittura recupera dagli astenuti una parte dei votanti ma
prende anche molti voti dalla destra berlusconiana o da quegli astenuti che
votarono l'ultima volta per Forza Italia e questa volta hanno preferito Renzi.
(…). Ripeto: è un piccolo capolavoro ma la natura del partito è completamente
cambiata. (…).
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