"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 26 maggio 2013

Cosecosì. 53 “La grande bellezza”.



Scriveva il 12 di luglio dell’anno 2008, sul numero 606 del settimanale “D” del quotidiano la Repubblica, Mara Einstein docente di “Media studies” al Queens College di New York: Nessuno vi segnerà a dito il lunedì se non siete stati a messa la domenica, perché la mancata partecipazione all'istituzione religiosa non genera più biasimo sociale. Ora siamo liberi di scegliere come praticare la nostra fede, o di praticarne anche più di una. Me ne sono ricordato, del ritaglio amorevolmente conservato intendo dire, nell’intervallo della proiezione dell’ultima straordinaria opera cinematografica di Paolo Sorrentino “La grande bellezza”. Non perdetela, andate a vederla. C’è un momento, nel film, che mi ha riportato a Mara Einstein. È quando su di un terrazzo lussuosamente arredato prospiciente il Colosseo, tra i rappresentanti di quel genere sociale che un tempo si definiva il “generone”, arriva l’ultra centenaria suor Maria, missionaria nell’Africa più povera, che nelle fattezze ricorda (o si allude) alla Teresa di Calcutta. Suor Maria – 104 anni - è definita la “Santa” e come tale è attesa e riverita. Avviene che, alle insistenze di una direttrice di rotocalco, per il quale scrive lo straordinario protagonista del film Toni Servillo, nella parte di Jep Gambardella, affinché la Santa conceda un’intervista, la stessa, come ispirata dall’alto, risponda: “La povertà non si racconta, la si prova”. Una risposta da gelare gli astanti di quel “generone” che ha determinato non poco le sorti del bel paese. È uno dei momenti topici del film. E prima di tornare allo scritto di Mara Einstein voglio ancora soffermarmi sul film. Uscendo come in trance dalla sala di proiezione si ha come l’impressione di ritornare alla più pura luce del giorno. Si ha l’impressione di tornare a respirare a pieni polmoni. E sì che il film è solare nella fotografie e nelle splendide immagini della città eterna. Una Roma così è ben difficile da vedere così come anche solamente da immaginare. Ma con tutta la luminosità delle riprese cala comunque sullo spettatore uno sconforto tale che gli animi è come se si incupissero per l’enorme degrado umano che il film porta coraggiosamente allo scoperto. E l’animo dello spettatore non può non cogliere la fortissima contraddizione, anzi l’opposizione, tra quel degrado umano e la bellezza storica, artistica e monumentale della città e dei suoi più che millenari lastricati. Paolo Sorrentino rende con coraggio, e come per magia d’immagini, questa contrapposizione tra una bellezza eternata e la bruttezza del mondo che quella bellezza popola ingordamente e sprezzantemente. È, il film di Paolo Sorrentino, la più amara delle metafore che abbia visto sul bel paese. Una contrapposizione stridente tra la bellezza immutabile di quel sito urbano e la bruttezza totale degli umani che lo degrada con la sola sua presenza. Quel “generone” così spietatamente rappresentato da Paolo Sorrentino rientra bene ed a tutto suo diritto nella rappresentazione che ne ha fatto Mara Einstein nel Suo scritto di allora: Ancora, la proliferazione dei media ci ha permesso di venire a conoscenza di una quantità di pratiche spirituali disponibili. Nell'odierna cultura della merce anche la religione è diventata un prodotto da vendere o da acquistare. Insieme alla pratica religiosa, anche il consumatore moderno è cambiato. Più di sessant'anni di consumi massificati combinati con l'azione dei mass media ci hanno portato a credere alla favola che l'acquisto dei prodotti giusti possa cambiarci la vita. Crediamo quindi che potremmo comprare anche salvezza e pace interiore. È ciò che incupisce l’animo dello spettatore che assiste alla proiezione de’ “La grande bellezza”. Un mondo, quello che ruota attorno al protagonista Jep Gambardella, che ha come punto di riferimento un’istituzione religiosa che più becera non la si potrebbe immaginare e che Paolo Sorrentino affida, nella rappresentazione che ha pensato e voluto, alla maestria recitativa di Roberto Herlitzka, il cardinale ossessionato dalle sue prodezze culinarie. Scriveva – nell’anno 2008, sembra quasi un’epoca preistorica - ancora Mara Einstein: Per dimostrare il proprio valore, la religione deve essere confezionata e venduta, deve dotarsi di un marchio. Che consiste di un simbolo (o una persona) e una mitologia. Le chiese di tutto il mondo usano il loro leader come simbolo. Possono avere o meno un logo, ma senza dubbio hanno una mitologia. Non quella del sistema di credenze a esse connesso, ma quella che ruota intorno alla persona diviene lo strumento attraverso il quale vendere la credenza. La commercializzazione della spiritualità abitua le persone all'idea di poterne diventare acquirenti, e questo è sufficiente a renderle più disponibili a comprare. Quando la gente vede la fede come qualcosa che si può acquistare, la religione deve incrementare il livello di marketing per potere competere contro le altre fedi. È così che stupendamente Paolo Sorrentino rappresenta quello che viene definito il centro della cattolicità. Una cattolicità vuota, corrosiva, senza un’anima e che non disdegna di convivere con ben altri “poteri” che l’affiancano senza esserne concorrenti, giammai avversaria per contrastarli nella loro azione criminogena. Ed è a questo punto che mi viene di parlare dell’altro momento topico del film. È quando Jep Gambardella dal suo lussuoso terrazzo prospiciente il Colosseo scopre che il coinquilino del terrazzo superiore viene portato via dagli agenti della DIA. È il più chiaro dei tantissimi messaggi che il film trasmette allo spettatore. Quel “generone”, oggigiorno e come sempre forse, è contaminato sin nelle più sottili delle sue fibre dalla malavita organizzata; è il bel paese tutto che vive come soggiogato da quell’intreccio che nessuna politica, succedutasi al governo del paese, è riuscita a sciogliere. È il messaggio più difficile da recepire, quello che sarà impossibile da accettare se si vuole che la democrazia e la vita associata non degradino nelle peggiori forme di confusione e corruzione istituzionale. Scriveva ancora Mara Einstein il 12 di luglio dell’anno 2008: Il marketing non è una novità - basti pensare ai testimoni di Geova che distribuiscono Torre di Guardia o ai Beatles quando promuovevano il Maharishi - ma la strategia si è fatta più pervasiva. Una grossolana operazione di commercio riflette lo stato della fede oggi. Più che con un luogo presso il quale recarsi, abbiamo a che fare con un prodotto da erogare. La frequenza alla chiesa è in declino in tutto il mondo. Persino negli Stati Uniti, dove la credenza religiosa raggiunge i picchi più alti tra le culture industrializzate, il 50% degli americani attinge la fede da luoghi diversi dall'istituzione religiosa. Media, organizzazioni paraecclesiastiche, turismo d'avventura spirituale, abbigliamento, libri: qualsiasi cosa può diventare fonte di sostentamento per lo spirito. Ma è difficile credere davvero di trovare la fede in una t-shirt, o nell'ultimo best seller. E sono convinto, profondamente convinto, che il mondo abbia camminato, in questo lustro che ci separa da quello scritto, nella direzione immaginata da Mara Einstein. E l’opera cinematografica di Paolo Sorrentino è una testimonianza dell’oggi. Non perdete “La grande bellezza”.

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