"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 9 settembre 2012

Cosecosì. 27 Sono stato un padre così.



Scrive Claudia De Lillo – in arte Elasti – sull’ultimo numero del settimanale “D” del quotidiano la Repubblica – col titolo “Delegate, amiche delegate tutto” -: (…). Un giorno sentii dire a un medico calvo e arguto: "Le madri evitano che i figli cadano. I padri li aiutano a rialzarsi". Le madri li proteggono, i padri li guardano avventurarsi là fuori. Loro, i padri, si assumono il rischio. Noi no, non per i nostri bambini. Anche se, dovremmo saperlo, chi non rischia non diventerà mai grande. Loro non hanno l'ansia di perfezione che rode noi. Loro si dimenticano il cambio, l'acqua, i compiti di matematica e l'appuntamento dal dentista. Loro non si accorgono della chiazza di sugo sulla maglietta, del baffo nero sulla guancia, dei capelli che crescono e si fanno foresta, del moccio al naso, delle scarpe slacciate. Se ne fregano. E sono felici, insieme a quei figli macchiati, baffuti, capelloni e sbrindellati. Chi lo ha detto che un bambino in ordine è un bambino sereno e sarà un adulto contento? Loro non possiedono la maledizione del multitasking. Quando lavorano, lavorano, quando cucinano, cucinano, quando guidano, guidano e quando giocano coi figli, giocano e non lavorano, non cucinano, non guidano. Non ne sono capaci, e, a pensarci bene, non è un male. Non si sentono in colpa e non vorrebbero essere in ufficio mentre sono al parco e al parco quando sono ai giardini. E i bambini lo sentono e lo apprezzano. Sanno giocare più e meglio di noi. Perché si divertono sul serio. Si divertono a calciare un pallone, a fare il mostro e la lotta con i cuscini. Io li invidio parecchio perché ho perso quell'incanto al compimento dei 13 anni e non l'ho più ritrovato. (…). Così scrive Elasti. Allora riconosco che vi è dell’irrisolto in me. Non sono stato un buon padre. È che non ho avuto la caratura che ne viene fuori dalla Sua magistrale scrittura. Sono stato invece un padre che all’alternarsi delle stagioni si preoccupava della canottiera giusta – spalline, mezze maniche, maniche lunghe -; che al primo acquazzone dopo la calura dell’estate – o anche nel corso di essa – si premurava che i bimbi – due – avessero calzini a scarpette. Non più piedini nudi e sandali! Tutti coperti. Sono stato il padre che nelle correnti d’aria, necessarie – oggi lo riconosco - nella calura che imperversa nei posti frequentati nella stagione estiva, vedeva un diretto attentato alla salute presente e/o futura dei suoi figlioli. E quando i pargoli si sbizzarrivano ai giardini pubblici o su di un immenso prato erboso trepidava per l’immancabile ruzzolone che chissà quali gravissime conseguenze avrebbe arrecato all’integrità fisica degli incolpevoli pargoli. Sono stato un padre fatto così. Sono stato un padre nel quale il “lato” occultato della genitorialità, il lato materno, aveva voce potente che non finiva mai di sovrapporsi all’altra voce, quella paterna e mascolina. Sono stato un padre così. Ha fatto parte della mia complessione – data dall’incontro della mia psiche con ciò che è il mio organismo di muscoli ed ossa - un “lato” materno – forse esagerato, esasperato, frutto dell’educazione ricevuta nella famiglia d’origine? - che mi ha accompagnato travalicando le naturali fasi della fanciullezza e della adolescenza dei miei figli. Non sono stato un buon padre? Ecco: sono stato un padre che adorava “il pantalone lungo - baluardo contro il freddo, i raffreddori e le broncopolmoniti –“ e che non ha dato una diversa interpretazione – sociopolitica - al trionfo del “pantalone lungo” nei confronti del “calzone corto”. Non sono stato un padre, insomma, in preda alla nevrosi ed alla “scema convinzione secondo cui il freddo tempra l'anima e il corpo”. Ecco, non sono stato un padre così. Di “pantaloni lunghi” e di “calzoni corti” ne ha scritto, sempre magistralmente, Giacomo Papi sul settimanale “D” del 2 di aprile dell’anno 2011 col titolo “I calzoni corti”. Di seguito lo trascrivo in parte.

Forse tutto iniziò quando finirono i calzoni corti. Quelli che sono stati bambini negli anni 70 lo sanno. Anche d'inverno, nei giorni di nebbia o sotto la neve, i bambini maschi cominciarono a indossare pantaloni a zampa di elefante, di jeans o di velluto a coste, quasi sempre con le toppe, che gli arrivavano alle caviglie. Qualcuno a gambe nude in giro si vedeva ancora. Avevano la pelle delle ginocchia come quelle dei polli, e alle loro spalle s'intuiva il permanere di padri autoritari e madri ubbidienti abbarbicati alla scema convinzione secondo cui il freddo tempra l'anima e il corpo. A ripensarci adesso, 40 anni dopo, i bambini con i pantaloni lunghi avevano coscienza di partecipare allo storia e condividevano nel profondo il sentimento raro per cui l'apparire (e sentirsi) adulti coincideva con l'essere (e sentirsi) moderni. I pantaloni erano soltanto il sintomo visibile di processo profondo, in atto da decenni, che trascinava nella propria corsa contraddizioni inestricabili. (…). Il pantalone lungo - baluardo contro il freddo, i raffreddori e le broncopolmoniti - annunciava un paradosso: perché se il pericolo reale diminuiva, il pericolo percepito aumentava? È che la storia - quella collettiva e quella individuale - non è mai simultanea. È una media, una tendenza generale, in cui galleggiano rimasugli del passato e anticipazioni del futuro, mischiandosi al presente. Nella fine dei calzoni corti erano rimasti impigliati riflessi dell'Italia di fine Ottocento e si annunciavano tratti del secolo successivo. È una confusione tra tempi diversi che avviene anche nelle nostre vite. Scrisse nel 1904 in Le rughe della psiche, Herbert Koncilia, lo psicologo viennese coevo di Sigmund Freud e compagno di classe di Arthur Schnitzler: ‘I disagi dell'individuo sono spesso dovuti alla distanza tra l'immagine privata e l'immagine pubblica di sé. Dall'adolescenza in poi ognuno di noi impiega dai tre ai cinque anni per formarsi un'idea coerente di se stesso. Il risultato è che ci concepiremo per sempre di tre (o cinque) anni più giovani di quel che siamo. In ogni vecchio ritorna a galla il bambino, in ogni bambino è incastonato il vecchio’. Koncilia proponeva perciò di definire per legge, anche stabilendo pene per i trasgressori, i confini tra le età della vita e i comportamenti consoni a ognuna di esse. Per fortuna, morì nel 1960, poco prima che tutto avesse inizio e che i riti di passaggio fossero aboliti. Il tramonto dei calzoni corti d'inverno - rito di passaggio per eccellenza - annunciò un'epoca in cui le differenze tra bambini e adulti sarebbero andate via via sfumando, di un tempo in cui i bambini si sarebbero vestiti da grandi e i grandi da bambini. La linea d'ombra sarebbe rimasta sempre in ombra. E sarebbe stato più difficile riconoscere il giorno in cui diventare grandi. In tutti - e quelli che furono bambini negli anni Settanta lo sanno - rimase un senso di attesa perenne, la sensazione che la propria vita debba essere ancora inaugurata e la consapevolezza che probabilmente non lo sarà mai.

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