Scrive Claudia De Lillo – in arte
Elasti – sull’ultimo numero del settimanale “D” del quotidiano la Repubblica –
col titolo “Delegate, amiche delegate
tutto” -: (…). Un giorno sentii dire a un medico calvo e arguto: "Le madri
evitano che i figli cadano. I padri li aiutano a rialzarsi". Le madri li
proteggono, i padri li guardano avventurarsi là fuori. Loro, i padri, si
assumono il rischio. Noi no, non per i nostri bambini. Anche se, dovremmo
saperlo, chi non rischia non diventerà mai grande. Loro non hanno l'ansia di
perfezione che rode noi. Loro si dimenticano il cambio, l'acqua, i compiti di
matematica e l'appuntamento dal dentista. Loro non si accorgono della chiazza
di sugo sulla maglietta, del baffo nero sulla guancia, dei capelli che crescono
e si fanno foresta, del moccio al naso, delle scarpe slacciate. Se ne fregano.
E sono felici, insieme a quei figli macchiati, baffuti, capelloni e
sbrindellati. Chi lo ha detto che un bambino in ordine è un bambino sereno e sarà
un adulto contento? Loro non possiedono la maledizione del multitasking. Quando
lavorano, lavorano, quando cucinano, cucinano, quando guidano, guidano e quando
giocano coi figli, giocano e non lavorano, non cucinano, non guidano. Non ne
sono capaci, e, a pensarci bene, non è un male. Non si sentono in colpa e non
vorrebbero essere in ufficio mentre sono al parco e al parco quando sono ai
giardini. E i bambini lo sentono e lo apprezzano. Sanno giocare più e meglio di
noi. Perché si divertono sul serio. Si divertono a calciare un pallone, a fare
il mostro e la lotta con i cuscini. Io li invidio parecchio perché ho perso
quell'incanto al compimento dei 13 anni e non l'ho più ritrovato. (…). Così
scrive Elasti. Allora riconosco che vi è dell’irrisolto in me. Non sono stato
un buon padre. È che non ho avuto la caratura che ne viene fuori dalla Sua
magistrale scrittura. Sono stato invece un padre che all’alternarsi delle
stagioni si preoccupava della canottiera giusta – spalline, mezze maniche,
maniche lunghe -; che al primo acquazzone dopo la calura dell’estate – o anche
nel corso di essa – si premurava che i bimbi – due – avessero calzini a
scarpette. Non più piedini nudi e sandali! Tutti coperti. Sono stato il padre
che nelle correnti d’aria, necessarie – oggi lo riconosco - nella calura che
imperversa nei posti frequentati nella stagione estiva, vedeva un diretto
attentato alla salute presente e/o futura dei suoi figlioli. E quando i pargoli
si sbizzarrivano ai giardini pubblici o su di un immenso prato erboso trepidava
per l’immancabile ruzzolone che chissà quali gravissime conseguenze avrebbe
arrecato all’integrità fisica degli incolpevoli pargoli. Sono stato un padre
fatto così. Sono stato un padre nel quale il “lato” occultato della
genitorialità, il lato materno, aveva voce potente che non finiva mai di
sovrapporsi all’altra voce, quella paterna e mascolina. Sono stato un padre
così. Ha fatto parte della mia complessione – data dall’incontro della mia
psiche con ciò che è il mio organismo di muscoli ed ossa - un “lato”
materno – forse esagerato, esasperato, frutto dell’educazione ricevuta nella
famiglia d’origine? - che mi ha accompagnato travalicando le naturali fasi
della fanciullezza e della adolescenza dei miei figli. Non sono stato un buon
padre? Ecco: sono stato un padre che adorava “il pantalone lungo - baluardo
contro il freddo, i raffreddori e le broncopolmoniti –“ e che non ha
dato una diversa interpretazione – sociopolitica - al trionfo del “pantalone
lungo” nei confronti del “calzone corto”. Non sono stato un
padre, insomma, in preda alla nevrosi ed alla “scema convinzione secondo cui il
freddo tempra l'anima e il corpo”. Ecco, non sono stato un padre così. Di
“pantaloni lunghi” e di “calzoni corti” ne ha scritto,
sempre magistralmente, Giacomo Papi sul settimanale “D” del 2 di aprile
dell’anno 2011 col titolo “I calzoni
corti”. Di seguito lo trascrivo in parte.
Forse tutto iniziò quando
finirono i calzoni corti. Quelli che sono stati bambini negli anni 70 lo sanno.
Anche d'inverno, nei giorni di nebbia o sotto la neve, i bambini maschi
cominciarono a indossare pantaloni a zampa di elefante, di jeans o di velluto a
coste, quasi sempre con le toppe, che gli arrivavano alle caviglie. Qualcuno a
gambe nude in giro si vedeva ancora. Avevano la pelle delle ginocchia come
quelle dei polli, e alle loro spalle s'intuiva il permanere di padri autoritari
e madri ubbidienti abbarbicati alla scema convinzione secondo cui il freddo
tempra l'anima e il corpo. A ripensarci adesso, 40 anni dopo, i bambini con i pantaloni
lunghi avevano coscienza di partecipare allo storia e condividevano nel
profondo il sentimento raro per cui l'apparire (e sentirsi) adulti coincideva
con l'essere (e sentirsi) moderni. I pantaloni erano soltanto il sintomo
visibile di processo profondo, in atto da decenni, che trascinava nella propria
corsa contraddizioni inestricabili. (…). Il pantalone lungo - baluardo contro
il freddo, i raffreddori e le broncopolmoniti - annunciava un paradosso: perché
se il pericolo reale diminuiva, il pericolo percepito aumentava? È che la
storia - quella collettiva e quella individuale - non è mai simultanea. È una
media, una tendenza generale, in cui galleggiano rimasugli del passato e
anticipazioni del futuro, mischiandosi al presente. Nella fine dei calzoni
corti erano rimasti impigliati riflessi dell'Italia di fine Ottocento e si
annunciavano tratti del secolo successivo. È una confusione tra tempi diversi
che avviene anche nelle nostre vite. Scrisse nel 1904 in Le rughe della
psiche, Herbert Koncilia, lo psicologo viennese coevo di Sigmund Freud e
compagno di classe di Arthur Schnitzler: ‘I disagi dell'individuo sono spesso
dovuti alla distanza tra l'immagine privata e l'immagine pubblica di sé.
Dall'adolescenza in poi ognuno di noi impiega dai tre ai cinque anni per
formarsi un'idea coerente di se stesso. Il risultato è che ci concepiremo per
sempre di tre (o cinque) anni più giovani di quel che siamo. In ogni vecchio
ritorna a galla il bambino, in ogni bambino è incastonato il vecchio’. Koncilia
proponeva perciò di definire per legge, anche stabilendo pene per i
trasgressori, i confini tra le età della vita e i comportamenti consoni a
ognuna di esse. Per fortuna, morì nel 1960, poco prima che tutto avesse inizio
e che i riti di passaggio fossero aboliti. Il tramonto dei calzoni corti
d'inverno - rito di passaggio per eccellenza - annunciò un'epoca in cui le
differenze tra bambini e adulti sarebbero andate via via sfumando, di un tempo
in cui i bambini si sarebbero vestiti da grandi e i grandi da bambini. La linea
d'ombra sarebbe rimasta sempre in ombra. E sarebbe stato più difficile
riconoscere il giorno in cui diventare grandi. In tutti - e quelli che furono
bambini negli anni Settanta lo sanno - rimase un senso di attesa perenne, la
sensazione che la propria vita debba essere ancora inaugurata e la
consapevolezza che probabilmente non lo sarà mai.
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