Scrive Carlo Buttaroni - presidente
dell'istituto di ricerca Tecné – sul quotidiano l’Unità (“La resistibile ascesa del partito non-partito”): Giovanni
Sartori l’ha definito «liquidismo». Rimuovere senza avere nulla da offrire,
nessun riscatto, nessun annuncio. Solo risentimento. (…). Quando la società (…)
approda al liquidismo, allora è inevitabile che trovino spazio gli imbonitori,
i comici, gli intrattenitori. Perché la chiave del successo non è più nelle
idee e nella capacità di progettare il futuro, ma soltanto nel sottrarre
qualcosa a qualcuno, attraverso l’insulto, la delegittimazione, le
insinuazioni, occupando quel territorio grigio al confine fra politica e farsa.
È stato facile – e quasi scontato - nei commenti serotini dell’estate –
con una fetta di fresco cocomero tra le mani - scoprire il corso delle cose nel
bel paese. Alla domanda di un futuro prossimo pronunciamento elettorale a gran
voce e copiosa ne è venuta fuori l’idea nuova (?) di un voto massiccio al
movimento grillino. Un mantra che ha dominato sotto la calura esagerata di
questa estate da delirio. Grillo perché? Ne è seguita un’elencazione sempre
uguale dei guasti provocati dall’antipolitica – sì, proprio l’antipolitica - che
nel bel paese è la politica – che regge la cosa pubblica - condotta con altri
mezzi (non sempre commendevoli). Grillo perché? Vien voglia di ri-citare quanto
ebbe a sostenere Ugo Ojetti nel bel volume di Indro Montanelli “Soltanto un giornalista”, ovvero che “il
nostro è un Paese di contemporanei senza antenati né posteri. Cioè senza
passato e senza futuro”. Senza una memoria. Senza un’idea di futuro.
Senza un’anima. Ecco perché – continua
Carlo Buttaroni - (…). Grillo è solo un interprete casuale sulla scena del nostro Paese.
(…). Quasi fosse un istinto incastonato nel Dna del nostro paese, che rimane
latente fino a quando circostanze particolari lo fanno riemergere, nutrendolo
dei problemi irrisolti e degli stati d’animo più deleteri lisciati per ragioni
elettorali. (…). Una nuova tappa. Sotto questo punto di vista il grillismo è
solo una nuova tappa evolutiva del partito leggero e del partito personale che
ha segnato la storia politica degli ultimi vent’anni: la persona che diventa
partito. Un partito «non-partito», con un leader che non è possibile mettere in
discussione, organi d’informazione che dettano il nuovo verbo liquidatorio e
liturgie che di democratico, aperto, inclusivo hanno ben poco. Ove
bisognerebbe aggiungere (o specificare) trattarsi non tanto di una “nuova”
tappa quanto di una tappa successiva di quel lungo sentiero lastricato
convenientemente negli ultimi lustri dall’uomo di Arcore. Essendo i due uomini
esperti conoscitori e facitori del mondo della rappresentazione, il più delle
volte grottesca. Un duo insuperabile, che le strane circostanze della vita non
hanno permesso di trasformare in un formidabile tandem. Se ne sarebbero viste
delle belle! Ed il Buttaroni ancora scrive: Il liquidismo-grillismo si
afferma e si diffonde perché il problema è in quel sentimento che fa leva su un
nichilismo lieve e che porta a preferire il nulla anziché il cambiamento,
trasformando il risentimento in una protesta cieca, senza prospettive e
direzioni, favorendo una forma di apatia, quando non di vera e propria
ostilità, verso le stesse istituzioni democratiche. Se cresce, infatti, la
critica nei confronti dei partiti, cresce anche l’antiparlamentarismo, il
leaderismo esasperato, l’insofferenza verso il confronto e il dibattito.
D’altronde il grillismo non è la cura, ma soltanto il segnale d’allarme che
invia il corpo di un sistema che vive gli affanni dell’inadeguatezza. (…). Per
vincere la sfida con il «liquidismo» occorre ridare forza e ruolo alla politica
dopo anni di degenerazione e delegittimazione che hanno progressivamente eroso
la fiducia nei partiti e nelle istituzioni, minando le basi stesse della
democrazia. (…). Ben detto. Poiché è l’antipolitica al potere da sempre
che ha detronizzato la politica buona – oggi Pier Luigi Bersani sul quotidiano
l’Unità sostiene che “La politica buona è possibile” – per
il solito tornaconto dei furbi. A ben vedere sol che lo si voglia, scrive
Francesco Merlo su la Repubblica (“Il
cortocircuito di Grillo”), (…). …raccontano che da giovane attore
burlesco già Grillo parodiava i calabresi goffi e sproloquianti immigrati nella
sua Genova, di cui rappresentava in teatro il fondo più cattivo. Prendeva in
giro per bastonare, per tenere lontani i terroni: attenzione ai calabresi che
si sforzano di sembrare genovesi. E tutto era giocato sulle vocali aspirate del
catanzarese. Insomma, robaccia da gradasso sbruffone, <vanteria e
palanche>, ma sempre con un linguaggio tecnico da palcoscenico comico dove
il sangue è sugo di pomodoro e il cadavere respira. Per non dire di
quando si faceva carico, negli anni trascorsi, di gabellare le case
farmaceutiche tutte accusandole di sfruttamento delle sventure e del dolore
altrui e sostenendo, in quella sua visionaria missione, la bontà della cura
oncologica del dottor Di Bella. O come quando osò bollare come una grande balla
l’allarme internazionale lanciato per l’incontrollata diffusione dell’AIDS.
Tutte cose che, per dirla con le parole dell’Ojetti, possono avvenire in un
malandato paese “senza passato e senza futuro”, che tutto tollera e che tutto
dimentica. Continua Francesco Merlo: Dunque, l’unica novità preoccupante è che Grillo sembra ormai aver perso la
misura della sua dismisura lessicale. È l’unico attore che è ‘diventato’ la sua
parte, come se Gassman si fosse convinto di essere davvero Brancaleone. È tutto
qui il corto circuito verbale di Grillo che, praticando in politica il codice
del suo precedente mestiere, far ridere con gli attrezzi del ridicolo, comincia
a credere anche letteralmente a quel che dice, al punto da autoconvincersi di
essere estremamente pericoloso e da autoiscriversi alla schiera dei morti
ammazzati, dei Matteotti e dei Gramsci (per la qual cosa quei grandi si
rivolteranno nelle tombe). Non più Totò, Macario e Nino
Taranto ma Dalla Chiesa, Ambrosoli e De Mauro: il vittimismo come comica
finale, dal marameo al ‘maramao perché sei morto’. (…). Ma è difficile
immaginare che qualcuno voglia uccidere chi rutta e fa pernacchie, o chi
insulta e chi denigra con la smorfie del teatro, o chi fa caricature dei nomi e
dei cognomi. (…). E i servizi segreti
deviati non mettono bombe nell’avanspettacolo, anche quando esso si fa
politica. La farsa non è mai tragedia e alla fine della farsa non c’è il morto,
c’è il sipario. (…). Insomma voglio dire che il risultato di Grillo è quello di
avere eccitato l’avanspettacolo che prevede altro avanspettacolo, sino al
lancio degli ortaggi. Ma non prevede uno sparo nel buio. (…). Le sue parole
infatti non sono pietre e nella sua utopia eversiva fa comizi non a militanti
che fremono ma a militanti che ridono e irridono. E però come Robespierre che a
forza di tagliare teste perse la sua, così a forza di ridicolizzare tutta la
politica Grillo ha finito col ridicolizzare anche la propria politica. E
adesso, persino se lo trovassimo steso per terra, penseremmo: guarda cosa deve
fare per tirare a campare un povero professionista del ridicolo.
Chi lo sa se i primi più temperati refoli autunnali possano portare a ben
diversi consigli gli smemorati italici elettori!
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