Scriveva Furio Colombo in un Suo
editoriale domenicale del 5 di agosto su “il Fatto Quotidiano” – “Che paura tutto questo ignoto” -: (…).
Il mercato è una strana bestia che un giorno (o una settimana) si infuria fino
a far perdere tutto (o almeno questa è l’impressione dei disperati spettatori)
e un giorno o una settimana sorride placido e restituisce alle spiagge
competenti (non ai cittadini che continuano a vivere nel terrore del prossimo
annuncio) una parte della ricchezza rubata o anche di più. E così i veri
narratori della guerra in corso, i nuovi Hemingway, sono diventati coloro che
narrano la Borsa, e non disdegnano di aggiungere un po’ di fiction perché
altrimenti le cose non si spiegano. Tipo: “I mercati oggi sono nervosi dopo
l’accenno di…. La frase, giunta di prima mattina, ha subito frenato gli
investitori…La riunione ha fatto capire che le risorse ci sono, facendo partire
d’impeto un’ondata di ottimismo che continua in tutte le borse… “. Ovvero, come
accade nella fiction, l’evento inatteso cambia la storia. Di questo spettacolo,
che produce immense ondate di ansia, siamo spettatori passivi e forse è meglio
ammettere che questo ruolo tocca anche alla politica, che ascolta, esegue
(salvo qualche scena drammatica che non cambia nulla) e poi finge di avere
approvato “riforme” e “misure” a cui non ha messo mano. (…). Ecco il
punto: la politica ed il suo ruolo. Che non c’è. Se non al traino degli eventi
della finanza globalizzata. Un ruolo “passivo”, “marginale”, che non
lascia intravvedere nulla di buono. Poiché, quando la politica lancia il suo
pezzo di carne succulento e sanguinolento ai mastini sempre affamati della
finanza creativa e globalizzata, non fa altro che venire incontro ai loro appetiti
che, seppur appagati al momento, torneranno a mordere alla prima occasione. Non
si spiega altrimenti l’altalena, incomprensibile ai più, di un rialzo e/o di un
ribasso conseguenti al pronunciamento di questo o di quel trombone della
politica dell’intero globo terracqueo. Ed intanto si da in pasto ai mastini
dalle fauci sempre spalancate il destino degli stati e delle genti tutte.
Scende lo spread? Bene. I mastini si sono assicurati per il futuro che i debiti
degli stati saranno onorati. Ma questi debiti saranno sempre la conseguenza di
un imperativo che i mastini della finanza impongono ed imporranno: consumare
per spendere, consumare ossessivamente per quella che i più definiscono la
ripresa. Quale ripresa? Di un vivere migliore? Di un ambiente risanato?
Rispettato? Da lasciare nelle migliori condizioni alle generazioni future? Di
uno stato sociale che non lasci nessuno indietro? Nulla di tutto questo.
L’importante è crescere, che significa consumare. E se si cresce nello spreco,
meglio ancora: i debiti che ne deriveranno hanno la garanzia degli stati
sovrani. Un losco giro di partita doppia.
Quale è la consapevolezza diffusa tra i più di “questo ignoto” che segna
la vita delle genti? È tornato a riflettere sull’argomento, magistralmente come
sempre, Furio Colombo nell’ultimo Suo editoriale della domenica – “La finanza modello al Qaeda” – su “il
Fatto Quotidiano – che Egli conclude con queste parole: Un fatto è evidente: il punto o i
punti di ogni decisione sulla vita dei popoli e degli Stati sono stati del
tutto sottratti al controllo della democrazia, benché la democrazia sia, in
apparenza, intatta. È un fenomeno nuovo, vasto, sconosciuto. Ecco il
punto: “un fenomeno nuovo, vasto, sconosciuto” che sfugge all’abilità,
prima consolidata, dei soloni della economia e della politica.
Quale è il grado di consapevolezza, tra le genti, di questa stortura epocale?
Garantiti i debiti degli stati sovrani i mastini detteranno sempre le regole:
crescete, ovvero consumate, poiché solo così a noi sarà garantito il futuro
speculativo più roseo. Continua l’illustre editorialista nell’ultimo Suo
pregevole pezzo: (…). Il potere della finanza, che riesce a governare, spostare,
sottomettere il mondo, che ha devastato e trasformato le esistenze di tutti (e
costruito ricchezze enormi per pochi, spesso del tutto ignoti) ha reso in pochi
anni irriconoscibile il paesaggio sociale del mondo, e cancellato la precedente
epoca industriale, (…). Non ha una patria, non ha uno Stato con cui coincidere,
non condivide ideali, storia o interessi, comanda dovunque e non lo puoi
trovare. Esige da Stati, persone, governi potenti e gruppi in rovina, somme
immense che vengono restituite in minima parte, detraendo di volta in volta una
parte della ricchezza comune. Si tratta dunque, (…), di un potere grande ed
eccentrico, senza Stato e senza popolo, ma con la forza di decidere quali e
quanti popoli devono di volta in volta obbedire. È chiaro – spero – che non sto
parlando di questo o di quel governo e neppure di organismi internazionali.
Parlo, con la stessa incertezza di chi non fa il finto esperto e la stessa
paura di ogni cittadino, del cielo sopra i governi. È un cielo gravido di
nuvole impenetrabili sopra tutto ciò che sappiamo, un cielo in cui occasionali
schiarite non sono mai una promessa. Non è più capitalismo, nel senso di Weber,
Smith, Stuart Mills. La prova: non è il mercato. Il mercato, infatti, è una
delle due strutture nel mondo connesso della produzione e dello scambio, che è
stato tolto di mezzo, annullando merito del lavoro e valore del prodotto,
sostituito dai versamenti rapidi e obbligati continuamente in corso, detti
rating o spread arbitrari in cui vaste ricchezze passano di mano in mano, verso
l'alto, fino a far perdere le tracce. L'altra è l’improvvisa e brutale
aggressione al welfare, visto come una intollerabile sottrazione di risorse al
versamento globale, che è la nuova regola imposta senza elezioni e senza
Parlamenti, e che tutti i governi hanno dovuto accettare. (…). È la bandiera
della civiltà finanziaria che ha iniziato l'invasione (prima di tutto negli
Usa), spingendo ai margini la civiltà industriale. E non si può dire che sia
americano il dominio o il profitto, misterioso e immenso, della nuova epoca,
perché, (…), la cittadinanza dei vari operatori non coincide con gli interessi
di uno Stato o della politica di un governo. È cominciata una nuova
internazionalità del capitalismo che non ha più come centro un Paese e neppure
una cultura (…), ma è una struttura schermata e indipendente che provvede, con
espedienti sempre diversi, a un continuo, esorbitante prelievo globale, senza
riguardi e senza privilegi. (…). I governi, con sempre meno potere, subiscono
imposizioni pesanti, pena multe gravissime ai rispettivi Paesi, senza badare
alle spinte di rivolta che creano. Quelle rivolte riguardano territori e
governi, non il cielo del grande passaggio di ricchezza in corso. Non sto
dicendo che un nuovo fantasma si aggira per il mondo. Dico che si è messa in
moto la grande rivoluzione della ricchezza che esige sempre più ricchezza, prelevandola
ovunque, non intende rendere conto, sa come dare ordini e sa come punire.
Mantiene, soprattutto, una incertezza infinita. (…). È contro “questo
ignoto” che necessiterebbe una mobilitazione delle coscienze. Niente di
tutto ciò all’orizzonte. Almeno per ora.
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