Scrive Massimo Giannini nel primo
numero settembrino – i refoli più freschi di questa stagione non smorzeranno il
“caldissimo”
dell’autunno incipiente – del settimanale “Affari&Finanza”: (…).
È un vezzo ricorrente. Quando sono a corto di idee e di risorse, i governi
propongono “patti”. Patto sociale, patto per la crescita, patto tra le
generazioni. Ce n’è per tutti i gusti, nel vasto campionario della
“patto-mania” italiana. Ora va di moda il “patto per la produttività”. L’ha
lanciato Corrado Passera. Non che il ministro dello Sviluppo abbia sbagliato.
La produttività è il vero “spread” che ammorba il Paese. Un costo del lavoro
per unità di prodotto che cresce da almeno dieci anni, mentre quello della Germania
nello stesso periodo si riduce, è una zavorra che schianta il Sistema-Italia.
Ma quando si propone un patto si ha il dovere di dire cosa ci si vuole metter
dentro. E allora. Cosa può mettere sul tavolo il governo di Monti, che non ha
un euro da spendere? Cosa può mettere sul tavolo la Confindustria di Squinzi,
che al discorso di investitura ha tuonato il suo no ad ogni forma di cogestione
alla tedesca? Cosa può mettere sul tavolo la Cgil di Camusso, che continua a
invocare sgravi sui salari che aiutano ma non risolvono? I patti, senza fatti,
sono semplici slogan. Il primo a proporre un “patto tra i produttori” fu
Togliatti nel ’46, nel famoso discorso di Reggio Emilia su “Ceto medio e Emilia
rossa”. Di lì non ci siamo più mossi. È che anche “lor signori”, i
cosiddetti tecnici, hanno imparato, dai politici del politichese imperante e
dell’antipolitica (la “politica buona” auspicata da
Bersani fatta però con altri mezzi), a procedere per proclami. Ne avevamo
avuta esperienza dirompente nell’era del signore di Arcore. Sembrava che fosse
stata messa da parte. Non è vero! Leggo sui quotidiani di stamane: 180.000
lavoratori a rischio di perdere il lavoro; il famigerato Pil, sull’altare del
quale tutto si sacrifica, come nei più tragici, cruentissimi riti propiziatori
dell’era arcaica della (in)civiltà umana, crolla del 2,6% nel 2012; intanto al
ministero si tengono aperto 150 (!) tavoli. Per farne che cosa? Intanto
qualcuno intravede la luce in fondo al tunnel: ché non sia quella di un treno
in corsa verso un probabile deragliamento sociale? Intanto qualcuno vede la “ripresa”
di già avviata: ma per chi? Domande oziose in questo smemorato paese. A
quando il risveglio? Leggo sul numero del 1° di settembre della rivista “Left”
a firma di Manuele Bonaccorsi – “Obiettivo
fallito” -: (…). Niente pareggio di bilancio nel 2013, nessuna riduzione del
debito. (…). Quindi, gli impegni europei – per perseguire i quali Monti era
salito al Quirinale e aveva ricevuto la fiducia larghissima del Parlamento – non
potranno essere rispettati. (…). Basti pensare che a dicembre del 2011 Monti
immaginava per il 2012 una diminuzione del Pil dello 0,4 per cento. Ad aprile i
professori stimavano un -1,2. Ma ad agosto l’Istat certifica per il 2012 un
drammatico -2,5 per cento. Non è poca cosa. Ogni punto di Pil vale circa 20
miliardi. (…). La cura ha fatto molto più male della malattia. Dopo i 145
miliardi recuperati da Berlusconi (le due manovre d’emergenze estive di
Tremonti, datate 2011) i tecnici hanno tagliato la spesa e tassato gli italiani
per 63,2 miliardi (tra manovra Salvaitalia e spending review). Le manovre hanno
causato una riduzione del reddito del Paese di circa 20miliardi. Rendendo così
irraggiungibili gli obiettivi per i quali tagli e tasse erano stati escogitati.
Sembra una maledizione, ma non lo è. L’equazione è semplice: più tasse e meno
servizi uguale cittadini più poveri. Quindi meno consumi, quindi meno
produzione, meno reddito, più debito. (…). Nel Def dell’aprile 2012 il governo
stimava di raggiungere un disavanzo nei conti pubblici dello 0,2 per cento sul
Pil, cioè un sostanziale pareggio di bilancio. E nel 2013 vaticinava
addirittura un avanzo di quasi un punto di Pil, lo 0,8 per cento. Invece,
sostiene il Cer, che usa uno dei più validi modelli econometrici disponibili,
il 2012 si chiuderà con un -1,5, e il 2013 con uno -0,4. Si tratta, però di
dati “corretti”, in linguaggio tecnico si dice “saldi strutturali”. Secondo una
convenzione usata nell’Unione europea i governi possono stimare i loro dati
macroeconomici depurandoli dal ciclo negativo. Un trucco bello e buono, seppur
perfettamente legale. Perché la realtà è molto più grave. Il 2012, secondo il
Cer, si chiuderà con un deficit del 2,4 per cento, e nel 2013 si rimarrà al
-1,6. (…). Nonostante l’Imu, l’aumento dell’Iva, la miriade di nuove tasse, il
taglio delle pensioni, il blocco di stipendi e turn over nel pubblico impiego,
il patto di stabilità che strangola gli enti locali, le entrate dello Stato
sono diminuite. (…). L’Italia ha ridotto la spesa di ben 23 miliardi, ma nello
stesso periodo ha subìto una riduzione delle entrate di 83 miliardi. (…). Secondo
il Cer, i professori hanno sovrastimato le entrate fiscali di una ventina di
miliardi (…). Causando, quindi, un buco nel bilancio dello Stato. Che ci
costringerà a dire addio agli impegni europei sul pareggio di bilancio.
Anche
lo stock di debito, di conseguenza, è destinato a salire. Nel 2012 e nel 2013
il rapporto debito/Pil resterà al 124 per cento (i prof stimavano nel 2013 un
ottimistico 121,5). Ridurre il debito, cioè, è stato impossibile. (…). …in
un’Italia diventata più povera. (…). Ma quali conseguenze avrà il mancato
rispetto degli impegni europei? «Per ora nessuno», spiega Fassina. «Il vero
problema viene dopo, dovrà pensarci il prossimo governo. E si chiama fiscal
compact». Il trattato europeo recentemente approvato dal Parlamento, infatti,
prevede una riduzione del debito pubblico superiore al 60 per cento del Pil di
un ventesimo l’anno, per vent’anni. Una mannaia pesantissima, che nel Belpaese
potrebbe significare un obbligo a tagli netti del debito per 40-50 miliardi
l’anno. Qualcosa di inimmaginabile, a meno di non voler vendere la Sardegna,
come diceva l’indimenticabile Tremonti nella parodia di Guzzanti, e chiudere
tutte le scuole e gli ospedali pubblici. (…). Il quadro è questo. Con
le sue tinte fosche. Quale luce si intravede alla fine del tunnel? Scrive
Oreste Pivetta – l’Unità, “Le radici
dell’infelicità” -: (…). …italiani tristi, italiani che si sono
dimenticati la gaiezza spendacciona degli anni ottanta, quando comandava Craxi
in barba al deficit che spiccava il volo, italiani più inclini a piangere su se
stessi che a rimboccarsi le maniche e inventarsi lotte, come poteva capitare
nei duri anni della ricostruzione, quando la vita era pesante, ma intanto si
cresceva accanto ad altri, c’erano i “compagni”, con i quali rivendicare
salari, diritti, persino cultura (…). L’infelicità degli italiani nasce da
quello stato cui ci hanno condotto la crisi, la globalizzazione, la finanza
padrona del mondo, lo spread, Berlusconi, il professor Monti, Fornero, la
rinuncia a una politica di investimenti, l’economia in nero, la mafia, la
camorra, l’evasione, la siccità, le alluvioni, i salari fermi, le pensioni
immobili, la disoccupazione, la politica... e quel fantasma che s’è aggirato
per decenni e che s’è infine materializzato, prima da noi che in Cina, prima in
America che in Africa, che non è il comunismo, che è invece il consumismo,
incontrastato trionfatore su ogni conflitto. La felicità, nella maniera più evoluta
fare shopping, è partecipare alla festa del consumo. I
tuoi hobby? chiedono in tv alla ragazzina campionessa di nuoto: ascoltare
musica e fare shopping. La mutazione in senso ludico di una attività una volta
solo funzionale... una volta, quando si comperava, chi poteva, un paio di
scarpe solo perché si avvicinava l’inverno e ce n’era bisogno per non gelarsi i
piedi... La crisi, nelle sue varie espressioni, ci costringe ad una revisione:
non girano soldi, si torna all’indispensabile (…). Sarebbe il momento di
inventarsi un nuovo modello d’esistenza che tenga conto del valore del limite,
per noi, per l’ambiente. La felicità è un traguardo universale, da quando la
prima scimmia o il primo uomo sono comparsi sulla terra. Poi ciascuno l’ha
inseguita come meglio preferiva. Per San Francesco felicità era dare ai poveri,
contemplare il creato. Martini parlava di contemplazione come capacità di
osservare la realtà e operare per migliorarla, per accendere una piccola fiamma
di speranza. Non teneva in gran conto lo shopping.(…). Bellissime le
parole di Oreste Pivetta con le quali è detto che, nel tempo durissimo della
ricostruzione post-bellica, intanto si cresceva accanto ad altri,
c’erano i “compagni”, con i quali rivendicare salari, diritti, persino cultura.
Perché non cogliere l’occasione della “crisi” per divenire, nel
tempo che ci è dato di vivere, “diversamente” felici pensando anche
a quelli che verranno dopo di noi? Possibile farlo?
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