Come oggi - 22 di luglio di 18
anni addietro - moriva Indro Montanelli. Su “il Fatto Quotidiano” del 21 di
luglio dell’anno 2011 – nel decennale della scomparsa - Marco Travaglio lo
ricordava con l’editoriale “Il Caso
Montesi, Montanelli e l’eterna questione morale”. Il titolo di quell’oramai
remoto editoriale – nella labile memoria collettiva che ci si ritrova - non può
apparire una forzatura giornalistica poiché ancor oggi, dopo “rottamazioni”
e “cambiamenti”
la “questione
morale” rimane il problema centrale che affligge ed imbarbarisce la
vita politica e sociale del Paese. In quell’editoriale, quasi come in premessa,
veniva riportata del grande Indro una delle Sue “stanze” – ché erano così
chiamati i “corsivi” a firma di Indro Montanelli pubblicati sul Corriere della
Sera. Quella “stanza”, del 28 di febbraio dell’anno 2000, Montanelli la
dedicava al Suo grande amico Edmund Stevens (al quale era diretta anche la
lunghissima lettera postata ieri su questo blog e scritta probabilmente a metà
degli anni ’50): Stevens è una delle figure più singolari del cosmo giornalistico di
questo secolo, ma anche una delle più misteriose. Io lo conobbi alla fine del '39 a Helsinki. C’era venuto
per seguire la guerra di Finlandia, dove si cementò la nostra amicizia che non
subì mai incrinature. Di sé, a me disse molte cose, probabilmente non tutte, ma
quelle che mi disse erano vere. Disse che a Mosca era andato giovanissimo, e
non come corrispondente di qualche giornale o agenzia americana, ma per una
scelta ideologica. Conoscendone già la lingua (in questo era un fenomeno: ne
parlava correntemente sei o sette, fra cui l’italiano), voleva viverci da
russo, impiegato in una casa editrice moscovita. Ma non da russo la polizia
russa lo aveva trattato, sibbene da infiltrato per conto dei servizi segreti
americani.
Solo quando il più elitario quotidiano americano, il Christian Science Monitor, se lo prese come corrispondente, gli fu riconosciuto, e anche lui riconobbe a se stesso, lo status di giornalista. Non si era più mosso da Mosca, aveva sposato una russa a cui la polizia aveva dato il permesso di sposarlo solo su impegno di carpire i suoi segreti (e lui lo sapeva). Ma al momento delle grandi “purghe” ('37-'38), lo avevano espulso. E ora lui smaniava tornarci perché lì aveva la sua casa, una delle più belle di Mosca. Questo il suo racconto pieno di zone d’ombra. Ma che bastava a spiegare la condizione d’imbarazzo in cui si trovava lì in Finlandia. Lui lo combatteva prendendo nelle sue esemplari cronache un tale distacco dagli avvenimenti che non si capiva per quale delle due parti battesse il suo cuore. Stemmo insieme per tutta la guerra condividendo anche la camera nell’affollatissimo Hotel Kemp. Insieme ci trovammo più tardi a Oslo, unici giornalisti stranieri testimoni del colpo di mano tedesco sulla Norvegia, e insieme assistemmo allo sbarco anglo-francese a Namsos, che mi fece tremare: sembrava quello di un esercito di Franceschiello. Insieme girovagammo per i Paesi balcanici su cui già si stendeva la svastica di Hitler. E insieme facemmo la guerra di Grecia, ma sui due fronti opposti: lui quello greco, io quello nostro. Pochi giorni dopo la Liberazione, mi raggiunse a Roma con la moglie Nina e la bellissima figlia Anastasia, già ballerina del Bolscioi e in seguito, (…), suicida. Lavorava per Time e Life di Henry Luce, e per conto di quel gruppo si riaccasò, dopo la morte di Stalin, a Mosca. Ci ritrovammo, nella primavera del '56, a Belgrado, dove lui giunse al seguito di Kruscev che veniva a chiedere scusa a Tito della scomunica inflittagli anni prima, e dove, al ricevimento che il Maresciallo gli diede, mi trovai coinvolto in una delle più buffe scene della mia vita. Completamente ubriaco, Kruscev, scorgendo accanto a me Stevens completamente ubriaco anche lui, corse ad abbracciarlo, ma poi cominciarono a litigare coinvolgendomi in quella rissa da barboni e spintonando anche me sotto gli occhi sprezzanti dell’imponente Maresciallo Tito e quelli atterriti del nostro ambasciatore Guidotti che mi aveva procurato l’invito e ora vedeva delinearsi l’incidente diplomatico. Finché sopravvenne Mikoyan a trascinar via il “compagno”. L’indomani andai a svegliare Edmund (alloggiavamo nello stesso albergo), e gli chiesi: “Ma cosa è diventata questa tua Russia?”. Stropicciandosi gli occhi, mi rispose: “Quello che hai visto stanotte”. Pochi mesi dopo scoppiava la rivolta d’Ungheria. Come corrispondente da Mosca del nostro Giornale, Stevens lavorava poco, ma quel poco era sempre uno “scoop”. La sua vecchiaia (eravamo coetanei) fu triste. Col “dio che ha fallito”, si sentiva fallito anche lui. Non lo disse, ma me lo fece varie volte capire. Di lui conservo una cinquantina di lettere. Ma non le pubblicherò mai. Cosa è stato e cosa ha rappresentato “il caso Montesi” che il titolo di quel remoto editoriale di Marco Travaglio perentoriamente ha richiamato collegandolo alla sempiterna “questione morale” che avvilisce il “bel Paese”? Marco Travaglio, proprio in quello stesso editoriale, ne tratteggiò gli aspetti politicamente più inquietanti: Il caso Montesi fu il primo grande scandalo politico-sessuale dell’Italia repubblicana. L’11 aprile 1953 viene rinvenuto, sulla spiaggia di Torvaianica (Roma), il cadavere di una bella ragazza ventunenne, Wilma Montesi, che tentava di sfondare nel mondo del cinema e stava per sposare il suo fidanzato. Morta probabilmente dopo un rapporto intimo. Sulle prime il caso viene archiviato come suicidio, poi viene riaperto come omicidio dopo una campagna di stampa che allude a un insabbiamento per coprire responsabilità in alto loco. Salta fuori il nome del musicista Piero Piccioni, figlio di Attilio, vicepresidente del Consiglio, ministro degli Esteri e numero uno della Democrazia cristiana dopo il settennato degasperiano. Si parla di un’orgia in una villa di Capocotta, di proprietà del marchese Ugo Montagna, frequentata da personaggi della “Roma bene”, della nobiltà e della politica, durante il quale Wilma avrebbe assunto un cocktail letale a base di alcol e cocaina che l’avrebbe portata a un malore mortale. Dopodiché il suo cadavere sarebbe stato trasportato sul lido di Torvaianica da alcuni partecipanti al festino. La testimone-chiave è l’aspirante attrice Maria Augusta Moneta Caglio, ex amante di Montagna, subito ribattezzata dalla stampa “Cigno Nero”, la quale giura che la Montesi aveva intrecciato a sua volta una relazione con il marchese. Lo scandalo impazza sui giornali per un paio d’anni, facendone lievitare le tirature, ma suscitando anche un forte dibattito sui limiti del diritto di cronaca e sulla necessità di un’autodisciplina della libertà di stampa (che porterà, di lì a poco, alla rinascita dell’Ordine dei giornalisti). La vita politica ne esce vieppiù avvelenata dalle faide interne alle correnti della Dc e dai feroci attacchi delle sinistre al partito di maggioranza, al governo (sono i mesi della cosiddetta “legge truffa”) e alla polizia. L’opinione pubblica si appassiona, dividendosi tra innocentisti e colpevolisti. Nel 1954 Piero Piccioni e Montagna vengono arrestati, rispettivamente per omicidio e uso di droghe e per favoreggiamento. Poco dopo Attilio Piccioni si dimette da ogni carica nel governo e nel partito: carriera finita. Nel 1955 tutti gli imputati vengono assolti. Nessuno saprà mai come è morta Wilma Montesi, e perché. Nel pieno dello scandalo, Montanelli coglie l’occasione per illustrare (…) all’amico e collega americano trapiantato a Mosca alcuni tratti del Dna degli italiani, cattolici “alla democristiana” e dunque ipocritamente autoindulgenti fino al cinismo, tutt’affatto diversi dagli americani, figli dei padri pellegrini protestanti che diedero vita agli Stati Uniti. Quattro pagine fitte, vergate da Montanelli senza praticamente correzioni sulla leggendaria Olivetti Lettera 22, che sembrano scritte oggi, quasi sessant’anni dopo, tra il caso Strauss-Kahn, lo scandalo Murdoch e le nostre eterne Tangentopoli.
Solo quando il più elitario quotidiano americano, il Christian Science Monitor, se lo prese come corrispondente, gli fu riconosciuto, e anche lui riconobbe a se stesso, lo status di giornalista. Non si era più mosso da Mosca, aveva sposato una russa a cui la polizia aveva dato il permesso di sposarlo solo su impegno di carpire i suoi segreti (e lui lo sapeva). Ma al momento delle grandi “purghe” ('37-'38), lo avevano espulso. E ora lui smaniava tornarci perché lì aveva la sua casa, una delle più belle di Mosca. Questo il suo racconto pieno di zone d’ombra. Ma che bastava a spiegare la condizione d’imbarazzo in cui si trovava lì in Finlandia. Lui lo combatteva prendendo nelle sue esemplari cronache un tale distacco dagli avvenimenti che non si capiva per quale delle due parti battesse il suo cuore. Stemmo insieme per tutta la guerra condividendo anche la camera nell’affollatissimo Hotel Kemp. Insieme ci trovammo più tardi a Oslo, unici giornalisti stranieri testimoni del colpo di mano tedesco sulla Norvegia, e insieme assistemmo allo sbarco anglo-francese a Namsos, che mi fece tremare: sembrava quello di un esercito di Franceschiello. Insieme girovagammo per i Paesi balcanici su cui già si stendeva la svastica di Hitler. E insieme facemmo la guerra di Grecia, ma sui due fronti opposti: lui quello greco, io quello nostro. Pochi giorni dopo la Liberazione, mi raggiunse a Roma con la moglie Nina e la bellissima figlia Anastasia, già ballerina del Bolscioi e in seguito, (…), suicida. Lavorava per Time e Life di Henry Luce, e per conto di quel gruppo si riaccasò, dopo la morte di Stalin, a Mosca. Ci ritrovammo, nella primavera del '56, a Belgrado, dove lui giunse al seguito di Kruscev che veniva a chiedere scusa a Tito della scomunica inflittagli anni prima, e dove, al ricevimento che il Maresciallo gli diede, mi trovai coinvolto in una delle più buffe scene della mia vita. Completamente ubriaco, Kruscev, scorgendo accanto a me Stevens completamente ubriaco anche lui, corse ad abbracciarlo, ma poi cominciarono a litigare coinvolgendomi in quella rissa da barboni e spintonando anche me sotto gli occhi sprezzanti dell’imponente Maresciallo Tito e quelli atterriti del nostro ambasciatore Guidotti che mi aveva procurato l’invito e ora vedeva delinearsi l’incidente diplomatico. Finché sopravvenne Mikoyan a trascinar via il “compagno”. L’indomani andai a svegliare Edmund (alloggiavamo nello stesso albergo), e gli chiesi: “Ma cosa è diventata questa tua Russia?”. Stropicciandosi gli occhi, mi rispose: “Quello che hai visto stanotte”. Pochi mesi dopo scoppiava la rivolta d’Ungheria. Come corrispondente da Mosca del nostro Giornale, Stevens lavorava poco, ma quel poco era sempre uno “scoop”. La sua vecchiaia (eravamo coetanei) fu triste. Col “dio che ha fallito”, si sentiva fallito anche lui. Non lo disse, ma me lo fece varie volte capire. Di lui conservo una cinquantina di lettere. Ma non le pubblicherò mai. Cosa è stato e cosa ha rappresentato “il caso Montesi” che il titolo di quel remoto editoriale di Marco Travaglio perentoriamente ha richiamato collegandolo alla sempiterna “questione morale” che avvilisce il “bel Paese”? Marco Travaglio, proprio in quello stesso editoriale, ne tratteggiò gli aspetti politicamente più inquietanti: Il caso Montesi fu il primo grande scandalo politico-sessuale dell’Italia repubblicana. L’11 aprile 1953 viene rinvenuto, sulla spiaggia di Torvaianica (Roma), il cadavere di una bella ragazza ventunenne, Wilma Montesi, che tentava di sfondare nel mondo del cinema e stava per sposare il suo fidanzato. Morta probabilmente dopo un rapporto intimo. Sulle prime il caso viene archiviato come suicidio, poi viene riaperto come omicidio dopo una campagna di stampa che allude a un insabbiamento per coprire responsabilità in alto loco. Salta fuori il nome del musicista Piero Piccioni, figlio di Attilio, vicepresidente del Consiglio, ministro degli Esteri e numero uno della Democrazia cristiana dopo il settennato degasperiano. Si parla di un’orgia in una villa di Capocotta, di proprietà del marchese Ugo Montagna, frequentata da personaggi della “Roma bene”, della nobiltà e della politica, durante il quale Wilma avrebbe assunto un cocktail letale a base di alcol e cocaina che l’avrebbe portata a un malore mortale. Dopodiché il suo cadavere sarebbe stato trasportato sul lido di Torvaianica da alcuni partecipanti al festino. La testimone-chiave è l’aspirante attrice Maria Augusta Moneta Caglio, ex amante di Montagna, subito ribattezzata dalla stampa “Cigno Nero”, la quale giura che la Montesi aveva intrecciato a sua volta una relazione con il marchese. Lo scandalo impazza sui giornali per un paio d’anni, facendone lievitare le tirature, ma suscitando anche un forte dibattito sui limiti del diritto di cronaca e sulla necessità di un’autodisciplina della libertà di stampa (che porterà, di lì a poco, alla rinascita dell’Ordine dei giornalisti). La vita politica ne esce vieppiù avvelenata dalle faide interne alle correnti della Dc e dai feroci attacchi delle sinistre al partito di maggioranza, al governo (sono i mesi della cosiddetta “legge truffa”) e alla polizia. L’opinione pubblica si appassiona, dividendosi tra innocentisti e colpevolisti. Nel 1954 Piero Piccioni e Montagna vengono arrestati, rispettivamente per omicidio e uso di droghe e per favoreggiamento. Poco dopo Attilio Piccioni si dimette da ogni carica nel governo e nel partito: carriera finita. Nel 1955 tutti gli imputati vengono assolti. Nessuno saprà mai come è morta Wilma Montesi, e perché. Nel pieno dello scandalo, Montanelli coglie l’occasione per illustrare (…) all’amico e collega americano trapiantato a Mosca alcuni tratti del Dna degli italiani, cattolici “alla democristiana” e dunque ipocritamente autoindulgenti fino al cinismo, tutt’affatto diversi dagli americani, figli dei padri pellegrini protestanti che diedero vita agli Stati Uniti. Quattro pagine fitte, vergate da Montanelli senza praticamente correzioni sulla leggendaria Olivetti Lettera 22, che sembrano scritte oggi, quasi sessant’anni dopo, tra il caso Strauss-Kahn, lo scandalo Murdoch e le nostre eterne Tangentopoli.
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