"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 27 luglio 2019

Memoriae. 12 «Il Dio dell’impresa che castiga(va) gli operai».


È passata sotto silenzio anche per Voi la data della scomparsa di Sergio Marchionne? È mancato il 25 di luglio dell’anno 2018, di un anno fa. Come è passato sotto il più assordante silenzio generale – politico ed istituzionale - che il 25 di luglio dell’anno 1943 il cavaliere d’Italia Benito Mussolini veniva sfiduciato dal Gran Consiglio del Fascismo - che approvava l'ordine del giorno del Maresciallo Grandi -, e che il dittatore in quella stessa data veniva arrestato a Villa Savoia dai capitani dei Carabinieri Paolo Vigneri e Raffaele Aversa e sostituito al governo dal Maresciallo Pietro Badoglio. Vi sembra una data che si possa dimenticare? Quella data di fatto ha segnato la caduta del fascismo con tutto ciò che ne conseguì; la “repubblichina tedesca” di Salò, con il gran capo ritornato in sella, la Resistenza e finalmente la Liberazione. Cose da poco? Aveva ragione quel mattacchione – non me ne voglia Andrea da lassù – di Camilleri che a proposito della memoria degli italiani sosteneva che «purtroppo ricordano due sole cose: la storia del calcio e le canzoni di Sanremo». Ebbene, il 27 di luglio dell’anno 2018, due giorni dopo la ferale notizia, Daniela Ranieri pubblicava su “il Fatto Quotidiano” il Suo editoriale “Sergio, il santo con il vezzo della forfora”. Si avviava quel processo di canonizzazione dell’imprenditore defunto sostenuto da tutto l’arco (o quasi) della libera e leggera e pomposa stampa del bel  Paese. Leggere per credere: Sergio Marchionne non c'è più, o meglio, non è mai stato così presente come oggi (Corriere).

Se n' è andato (Sole 24 Ore).
L'uomo delle missioni impossibili, il manager che ha spinto la Fiat verso il futuro, l' unico italiano in grado di parlare alla pari con i grandi della Terra (La Stampa).
Non riusciremo mai a parlarne al passato (Corriere).
Il sindacato si inchina (Repubblica).
Renzi si innamorò del suo stile brusco (Corriere).
Colpisce anche la voce di una bambina che chiede "è vero che è morto?"(Corriere).
A Detroit lo chiamavano semplicemente Sergio, il suo nome era un lasciapassare usato da tutti gli italiani (Corriere).
Ha subito l'odio ideologico di chi detesta le persone di talento (Matteo Renzi).
Ha sfidato l'italietta della rendita e dei ricatti (Bentivogli, Sole 24 Ore).
Era sentimentalmente legato ai destini dell' ex Fiat tanto da assumere su di sé il rischio di impresa pagandolo con la messa in mora del suo corpo (Corriere).
Un uomo d' altri tempi, che si è arrampicato fino ad Alpignano vicino a Torino con il suo vassoio di paste per conoscere i genitori di Manuela e ribadire che aveva intenzioni serie (La Stampa).
È entrato in ogni casa, non solo italiana (Corriere).
Ironico, forte, diretto (La Stampa).
Un'intelligenza superiore (Corriere).
Ha accumulato ricchezze immense senza mai un giorno di vacanza per godersele (Repubblica).
Su Marchionne usciranno svariati libri (Corriere).
Non avrebbe rinunciato mai a una battuta irriverente o a una grassa risata (La Stampa).
Gli operai e i sindacalisti americani amano Marchionne (Sole 24 Ore).
Di cosa parlavate durante i vostri barbecue? (Repubblica a Gabetti).
Il mercato è uno dei posti in cui Marchionne si vedeva più spesso, al sabato mattina. 'Era lui che pagava e che portava le buste della spesa' (La Stampa).
Quando proprio si arrabbiava diceva che non sopportava i pettegolezzi (Repubblica).
Passava la vita in aereo saltando da un fuso orario all' altro (La Stampa).
Era un borghese buono di impronta olivettiana (Fausto Bertinotti).
Aveva scelto la divisa perenne del maglioncino nero, ne aveva 30, tutti uguali, in ognuna delle sue residenze a Torino, in Svizzera e a Detroit: gliele forniva rigorosamente no logo un amico, con un minuscolo scudetto tricolore sul braccio (La Stampa).
Era un uomo del West, poche raffinatezze, viaggiava con uno zainetto o molto spesso semplicemente due buste di plastica, una per le sigarette e il the freddo, l' altra con i caricatori dei cellulari. Ne aveva tre: uno americano, uno svizzero e uno italiano (Repubblica).
Tre lauree, Filosofia, Giurisprudenza e Commercio, con una predilezione per la prima (La Stampa).
(…). Detroit si scopre orfana: 'Lui ci ha salvato, ora che ne sarà di noi?' (Repubblica).
(…). Un paio di volte ha citato Emily Dickinson (Sole 24 Ore).
Orbene, carità insegna e vuole – carità cristiana o senza aggettivazione alcuna – che quella memoria venga ancora rispettata. Ma non sembra che le cose si svolgano così come cristianamente si imporrebbe. Sarà la furia del tempo che ci è toccato di vivere ma proprio ieri (26 di luglio ) su “il Fatto Quotidiano” – “Ora che è morto Marchionne si può criticare” – Salvatore Cannavò ci ha disvelato come la stampa, allora osannante al defunto, pian pianino prenda accortamente le distanze da quella, oggigiorno, ingombrante “memoria”. E lo fa il “Corriere della Sera” che – scrive Cannavò - “gli ha dedicato uno striminzito ricordo a pagina 39”; e lo fa il quotidiano la Repubblica (“nell’ultimo periodo della sua (al minuscolo n.d.r.) gestione Marchionne (…) aveva rinviato alcuni investimenti sul prodotto per raggiungere l’azzeramento del debito”); e lo fa, sentite, sentite, nientepopodimenoche il santuario della imprenditoria italica il quotidiano di Confindustria “Sole 24 Ore” che ad un certo punto arriva a scrivere: “le cose non sono andate come lui aveva previsto”. E così il Marchionne muore ancora una volta. Quante volte può morire un uomo? A me va di ricordare quell’uomo ri-leggendo un mio post del sabato 15 di gennaio dell’anno 2011 che aveva per titolo “Il dio dell’impresa che castiga gli operai”. Ri-leggere, tanto per capire come siano andate le cose, chi abbia pagato il prezzo più alto e quali atmosfere tenebrose abbiano avvolto la Storia di questo sbrindellato Paese. Scrivevo a quel tempo:  È finito, il referendum, con il 54,7% per il “Si” (per l’accettazione o meno dei nuovi contratti-capestro a Pomigliano d’Arco n.d.r.) contro il 45,3% per il “No”. Chi ha vinto? E chi ha perso? A mio parere hanno perso in tanti, incolpevolmente se vogliamo dirla fino in fondo, o per mera cecità, ed hanno vinto in pochi – un ossimoro, direte voi, i quattro gatti lettori di questo blog, considerati i numeri di prima -, se quel poco divenuto una forza non era stato preventivato in quella misura dagli strateghi moderni delle ferriere. Ovvero hanno vinto quei coraggiosi del 45,3% che hanno votato per il “No”. Con una vittoria – vittoria si fa per dire – così striminzita, cosa farà il manager in cachemir? Delocalizzerà? Intanto una cosa è certa; quel 45,3% di coraggiosi, che sono tanti a dispetto dell’uomo in cachemir, conferma che una “coscienza” che sfugga all’impellenza del momento esiste e che essa, se sostenuta e ben guidata nella politica e nella società, consentirà di recuperare quella “identità” di classe che, nella poltiglia sociale creata dalla globalizzazione e da quant’altro – media compresi -, sembrava essersi smarrita se non scomparsa del tutto. Sarebbe allora il caso, anche in un momento di apparente sconfitta, rendere merito a chi, con il suo voto condizionato da una “pistola fumante” che ha condizionato tutta la trattativa, ha saputo dire un “No” che è grande assai, e che consente di ben sperare per gli accadimenti che i tempi turbolenti che ci sono concessi di vivere ci preparano. Però un punto è stato segnato. E non è da poco. Ho ripreso una riflessione, che di seguito trascrivo in parte, del direttore Furio Colombo apparsa su “il Fatto Quotidiano” del 29 di agosto dell’anno del signore 2010. Titolo della riflessione: “Il Dio dell’impresa che castiga gli operai”, che ho ripreso come titolo del post. Ritengo la sua lettura o rilettura illuminante alla luce degli accadimenti di questi giorni d’inverno. Che ci fa ben sperare, anche se fu scritta con la calura dell’agosto e con il ciabattare nelle marine contrade del bel paese: (…) - Rifiutare il cambiamento a priori significa rifiutare il futuro- (celeberrima frase dell’uomo in cachemir n.d.r.). Questa frase è un annuncio da oracolo. E un annuncio da oracolo va interpretato. Ce lo conferma una dichiarazione ferma, assoluta, perentoria del prof. Christopher Duggan, esperto dell’Italia presso la Reading University: - Lui (Marchionne) è cresciuto all’estero, conosce l’importanza del confronto, del mercato, della meritocrazia (Il Corriere della Sera, 27 agosto)-. La frase incuriosisce. Mettiamo che Ragozzino, Lamorte, Pignatelli siano buoni e vadano con l’allegro Bonanni invece che con l’aggrondato Epifani. Come farebbero a mettersi in coda per la meritocrazia, dato anche il ritorno ciclico e frequente della cassa integrazione? Il richiamo all’estero però ci aiuta. È inutile che fingiamo, noi presunti progressisti e veri conservatori (…) di non vedere. È passato un ordine, sono cambiate le regole. O così o si va in Serbia. Anzi, si va in  Serbia senza neanche aprire – come si usa dire – un tavolo. È vero che tra due anni, appena ammortizzati i costi del trasloco da Mirafiori, a Belgrado avranno imparato che prendono la metà dei colleghi torinesi e si faranno sentire. Ma è la globalizzazione, bellezza. Marchionne ha certo in mente la Manciuria esterna o le steppe dell’Asia centrale, come tappe successive dell’andare avanti. Però, cari illustri professori della Reading University e manager dei Due Mondi, come i venti intorno alla Terra, la globalizzazione funziona anche in senso inverso, e lo dimostrano le rivolte degli operai cinesi, placate con aumenti del 30% a botta (cito da Massimo Mucchetti, Il Corriere della Sera, 26 agosto). E il mondo, come sanno gli astronauti, è grande, ma non così grande. E chi ha detto che il futuro sarà lastricato di paghe sempre più basse per chi lavora e di bonus sempre più immensi per chi dirige? Però la domanda resta, è il vero cuore della questione. Ce lo dice, sul New York Times del 21 agosto, il premio Nobel Paul Krugman: - Coloro che dettano al mondo la politica economica – banchieri, finanzieri, ministri, presunti difensori delle grandi virtù fiscali – si comportano come i sacerdoti di oscuri culti antichi, e chiedono, ad ogni svolta, ad ogni evento che chiamano cambiamento, dei sacrifici umani, come per placare la rabbia di un Dio invisibile -. Altrimenti, si chiede il premio Nobel per l’Economia del 2008, - come spiegare che quasi tutto ciò che questi sacerdoti impongono porta continui tagli di bilanci, la disoccupazione che cresce, la Borsa che cade, la gente stordita da nuove rinunce – perdita della casa, della scuola, del lavoro – che non portano frutti? Per questo, io chiedo: quando finiremo di fare sacrifici umani al Dio di una élite di presunti esperti che sta rovinando il mondo e ci dedicheremo a sanare l’economia? -. Faccio mia la domanda.

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