È questo nostro un “frastornatissimo”
Paese, che non sa cosa volere, che si accende come uno zolfanello per spegnersi
al più debole soffio d’aria. Nulla vale e conta che lo possa tenere impegnato a
pensare del proprio destino, del proprio vivere. È uno sconforto. Come può un
popolo così fatto stare nell’arena del mondo? Questa è l’estate dell’Invalsi. Invalsi chi, diranno i più? Ché già al primo fresco dell’autunno dell’Invalsi
non se ne ragionerà più. Ha scritto molto opportunamente nel Suo “Insegnanti non scendete dalla cattedra”
Massimo Recalcati – psicoterapeuta lacaniano, testo pubblicato sul quotidiano
la Repubblica del 24 Luglio 2019 - che “Non erano necessari i risultati degli
ultimi Invalsi per constatare lo stato di declino del livello di apprendimento
dei nostri figli. Gli insegnanti se ne lamentano ormai da tempo: non leggono,
non studiano, non partecipano, non ascoltano più. I nostri figli fanno fatica a
disciplinarsi nella lenta e rigorosa applicazione allo studio. Preferiscono i
pensieri twitter, la cultura dei social, lo zapping continuo, la connessione
perpetua, lo scivolamento rapido da una informazione all'altra, da un'immagine
all'altra”.
Uno stato così comatoso non è cosa che possa sopravvenire di punto in bianco. Occorrono, anni, lustri, decenni perché uno sfascio simile si renda evidente e sia ufficialmente conclamato. Ma a cosa serve tutto ciò? Scrive l’illustre Autore: “Gli insegnanti se ne lamentano ormai da tempo”! Ma chi sono gli insegnanti per essere ascoltati e considerati in questo “frastornatissimo” Paese? Sono il nulla, o quasi. Scrivevo nella “postfazione” al volume “I Professori” (2006, anno di pubblicazione, alle pagg. 188-190) nell’incipit della quale si proponeva una inquietante domanda alla quale questo “frastornatissimo” Paese non ha saputo, non ha voluto o meglio, non ha cercato di dare una risposta: “Che ci faccio in cattedra?” è il titolo di una corrispondenza dello psichiatra Umberto Galimberti pubblicata su di una patinata rivista settimanale per le gentili signore del bel paese. Essa pone domande inquietanti, in un paese nel quale il problema della scuola è ben ridotto alle solite comparsate ed alle invenzioni dei provvisori titolari del Ministero in parola, il MIUR, un acronimo da brividi. Il problema della scuola non interessa agli abitatori del bel paese, tanto da delegarne completamente le problematiche ai soli addetti ai lavori, considerati, anche se non pubblicamente dichiarati, al pari dei giudici “stralunati” esseri, nullafacenti o quasi, gloriosamente dediti, e senza tanti riconoscimenti e ricompense, a qualcosa per la quale la sedicente società civile – grassa ed operosa - ha ben poco da dedicare o da spendere. In tale contesto la scuola è divenuta purtroppo rifugio o approdo dei tanti che in verità avrebbero meglio potuto impiegare il loro tempo in altre faccende o mansioni socialmente più utili. Ne ho fatta esperienza personale in quanto genitore, per via naturale, ed in quanto insegnante, per scelta inizialmente molto convinta e motivante, e con il senno del poi del tutto “sconclusionata”. Nel trascorrere dei lustri l’asfissiante gabbia entro la quale l’istituzione imprigiona gli anni migliori tanto dei ragazzi che dei docenti, unici questi ultimi nella specie umana a trascorrere e lasciare, al pari della muta degli ofidi, nelle fetide, inospitali aule, il meglio della propria vita, dall’entrarne come alunni all’uscirne come bacucchi, nel trascorre di quei lustri dicevo la consapevolezza che il mio lavoro fosse, se non inutile, in fondo ininfluente allo svolgimento regolare della vita sociale, mi ha condotto ed indotto alla persuasione di un abbandono anticipato, inglorioso forse ma utile e come toccasana, onde salvare quella parte di me stesso ancora salvabile da un ruinare verso forme sempre più perniciose di perdita del senso della realtà e, la qual cosa è infinitamente più grave, verso una completa disistima personale, innescata dalla inconcludenza della quotidiana fatica. E questo senso di smarrimento lo si ritrova nella vasta letteratura che ho scoperto e vado scoprendo di colleghi in fuga precipitosa verso quella salvezza dalla “pubblica calamità” che è divenuta la scuola del bel paese; divenuta oramai un problema di “salute pubblica” oltre che di “salute personale”, che come tale non interessa a nessuno, se non ai diretti interessati che sopravvivono nella speranza di una sempre più vicina “uscita di sicurezza”. (…). …ha scritto in merito Paola Mastrocola nel suo ultimo lavoro “La scuola raccontata al mio cane” (sì, proprio al suo cane, infinitamente più sensibile a tali problematiche che non i sordi abitatori del bel paese. È una piena crisi di identità personale e collettiva): (…). C’è un enorme valore del silenzio dentro il verbo insegnare. Io insegno e non dico qual è il mio fine né qual è il mio metodo. Insegno e basta. Così come dipingo e basta, suono e basta, ti amo e basta. Tacere è bello. Tacere era bello. Ora non più. (…). L’attuale nostra scuola non sembra avere alcuna idea di che cosa sia un maestro. O meglio, non sembra volere affatto dei maestri. L’idea stessa di maestro le è estranea, direi un po’ antipatica. L’attuale scuola odia i “maestri” . Li trova snob e anche antiquati. Poco tecnici, poco flessibili. Dotti e spocchiosi. Oggettivamente non valutabili. E silenziosi, troppo silenziosi. (…). Ha scritto Massimo Recalcati nella Sua dotta analisi: (…). …è essenziale educare i nostri figli a farsi allievi. È questo il passaggio antropologico che oggi sembra mancare. Lo statuto dell'allievo implica lo sforzo di apprendere quello che si ignora. Questo sforzo viene oggi rigettato in nome di un accesso spensierato al mondo. Tuttavia, mentre scrivo avverto che il rischio di una morale paternalista è qui in agguato. Non dovremmo invece vedere in queste forme di disaffezione allo studio una sorta di appello disperato delle nuove generazioni alla generazione degli adulti? Non bisognerebbe sempre provare a ribaltare l'arroganza puberale del rifiuto di condividere la stessa lingua in una domanda di accesso ad un'altra lingua, ad una lingua più viva della lingua morta della Scuola? L'inciviltà del discorso del capitalista retta sulla diffusione di un godimento immediato e dissipativo sembra dominare incontrastata e rendere il tempo lungo dell'apprendimento insensato. Il punto è che l'educazione alla lettura che dovrebbe essere alla base di ogni didattica e che viene prima del giudizio sull'importanza delle discipline (compresa quella storica) pare oggi un'impresa titanica come quella, per citare una celebre metafora freudiana, della bonifica olandese delle zone paludose dello Zuiderzee. È un altro tema assi noto agli insegnanti: il rifiuto della pratica della lettura. Si tratta a mio giudizio di un sintomo decisivo. Da cosa dipende? È uno dei problemi di fondo di questa nuova generazione. La presenza sempre presente della connessione impedisce l'esperienza dell'assenza e del vuoto che invece è essenziale per la genesi del pensiero. Lo ricorda con efficacia Bion: il pensiero può sorgere solo sull'orizzonte dell'assenza della Cosa, sullo sfondo della non-Cosa. Provate a staccare un ragazzo dal suo Iphone o da un altro dei suoi svariati oggetti tecnologici? Questo distacco viene vissuto come uno svezzamento brutale che suscita una profonda angoscia di separazione e, di conseguenza, un rigetto ostinato. Eppure bisogna forzatamente imboccare questo difficile sentiero per rendere possibile l'esperienza della formazione. L'educazione alla lettura del libro è la pietra angolare di ogni Scuola. La sua morte clinica, annunciata con gioia da certi cantori della cultura digitale sospinta, trascura che senza questa educazione ogni didattica risulterebbe semplicemente impossibile. Questa educazione dovrebbe essere il gesto fondativo di una buona Scuola. Il che comporta l'emancipazione da criteri di valutazione rigidamente quantitativi nei quali ricade fatalmente anche il paradigma degli Invalsi. L'educazione alla lettura è infatti educazione alla singolarizzazione divergente del sapere. È il fondamento umanistico irrinunciabile della nostra cultura che oggi rischiamo di dimenticare attratti dalle illusioni scientiste che hanno sospinto di fatto la Scuola verso l'azienda e l'impresa snaturando la sua vocazione autenticamente formativa.
L'importazione di lemmi economicistici (debiti, crediti, assessment, ecc.) unita alla colonizzazione della lingua inglese, non sono sintomi marginali ma rivelano la nostra subordinazione ad una "neolingua" che ha smarrito ogni spessore enigmatico. Gli insegnanti dovrebbero invece difendere il carattere epico della parola. Rifiutarsi di ridurre la sua dimensione allo scambio comunicativo. L'ampiezza del mio linguaggio, come ricordava Wittgenstein, coincide infatti con l'ampiezza dell'orizzonte del mio mondo. Le parole portano con sé la Legge dell'uomo; sono luce, apertura, orizzonte, casa. Se la scuola non recupererà la forza della parola e la sua Legge, essa resterà mutilata nel suo fondamento. Impresa titanica ma decisiva in un mondo che disprezza sistematicamente questa Legge insabbiando la sua vocazione profetica. Ecco perché io sono - anacronisticamente o, se si preferisce, novecentescamente - tra quelli che credono ancora nel modello tradizionale della lectio ex-cathedra. È solo la testimonianza dell'insegnante e della sua parola che può accendere o spegnare il desiderio di sapere negli allievi. Non c'è educazione alla lettura, non c'è, dunque, educazione in senso ampio, se non c'è la parola di un maestro. Ecco un'altra semplice verità che l'iper-cognitivizzazione attuale del sapere rimuove. Bisognerebbe invece non dimenticarlo mai: "Un maestro, un maestro, il mio regno per un maestro!".
Uno stato così comatoso non è cosa che possa sopravvenire di punto in bianco. Occorrono, anni, lustri, decenni perché uno sfascio simile si renda evidente e sia ufficialmente conclamato. Ma a cosa serve tutto ciò? Scrive l’illustre Autore: “Gli insegnanti se ne lamentano ormai da tempo”! Ma chi sono gli insegnanti per essere ascoltati e considerati in questo “frastornatissimo” Paese? Sono il nulla, o quasi. Scrivevo nella “postfazione” al volume “I Professori” (2006, anno di pubblicazione, alle pagg. 188-190) nell’incipit della quale si proponeva una inquietante domanda alla quale questo “frastornatissimo” Paese non ha saputo, non ha voluto o meglio, non ha cercato di dare una risposta: “Che ci faccio in cattedra?” è il titolo di una corrispondenza dello psichiatra Umberto Galimberti pubblicata su di una patinata rivista settimanale per le gentili signore del bel paese. Essa pone domande inquietanti, in un paese nel quale il problema della scuola è ben ridotto alle solite comparsate ed alle invenzioni dei provvisori titolari del Ministero in parola, il MIUR, un acronimo da brividi. Il problema della scuola non interessa agli abitatori del bel paese, tanto da delegarne completamente le problematiche ai soli addetti ai lavori, considerati, anche se non pubblicamente dichiarati, al pari dei giudici “stralunati” esseri, nullafacenti o quasi, gloriosamente dediti, e senza tanti riconoscimenti e ricompense, a qualcosa per la quale la sedicente società civile – grassa ed operosa - ha ben poco da dedicare o da spendere. In tale contesto la scuola è divenuta purtroppo rifugio o approdo dei tanti che in verità avrebbero meglio potuto impiegare il loro tempo in altre faccende o mansioni socialmente più utili. Ne ho fatta esperienza personale in quanto genitore, per via naturale, ed in quanto insegnante, per scelta inizialmente molto convinta e motivante, e con il senno del poi del tutto “sconclusionata”. Nel trascorrere dei lustri l’asfissiante gabbia entro la quale l’istituzione imprigiona gli anni migliori tanto dei ragazzi che dei docenti, unici questi ultimi nella specie umana a trascorrere e lasciare, al pari della muta degli ofidi, nelle fetide, inospitali aule, il meglio della propria vita, dall’entrarne come alunni all’uscirne come bacucchi, nel trascorre di quei lustri dicevo la consapevolezza che il mio lavoro fosse, se non inutile, in fondo ininfluente allo svolgimento regolare della vita sociale, mi ha condotto ed indotto alla persuasione di un abbandono anticipato, inglorioso forse ma utile e come toccasana, onde salvare quella parte di me stesso ancora salvabile da un ruinare verso forme sempre più perniciose di perdita del senso della realtà e, la qual cosa è infinitamente più grave, verso una completa disistima personale, innescata dalla inconcludenza della quotidiana fatica. E questo senso di smarrimento lo si ritrova nella vasta letteratura che ho scoperto e vado scoprendo di colleghi in fuga precipitosa verso quella salvezza dalla “pubblica calamità” che è divenuta la scuola del bel paese; divenuta oramai un problema di “salute pubblica” oltre che di “salute personale”, che come tale non interessa a nessuno, se non ai diretti interessati che sopravvivono nella speranza di una sempre più vicina “uscita di sicurezza”. (…). …ha scritto in merito Paola Mastrocola nel suo ultimo lavoro “La scuola raccontata al mio cane” (sì, proprio al suo cane, infinitamente più sensibile a tali problematiche che non i sordi abitatori del bel paese. È una piena crisi di identità personale e collettiva): (…). C’è un enorme valore del silenzio dentro il verbo insegnare. Io insegno e non dico qual è il mio fine né qual è il mio metodo. Insegno e basta. Così come dipingo e basta, suono e basta, ti amo e basta. Tacere è bello. Tacere era bello. Ora non più. (…). L’attuale nostra scuola non sembra avere alcuna idea di che cosa sia un maestro. O meglio, non sembra volere affatto dei maestri. L’idea stessa di maestro le è estranea, direi un po’ antipatica. L’attuale scuola odia i “maestri” . Li trova snob e anche antiquati. Poco tecnici, poco flessibili. Dotti e spocchiosi. Oggettivamente non valutabili. E silenziosi, troppo silenziosi. (…). Ha scritto Massimo Recalcati nella Sua dotta analisi: (…). …è essenziale educare i nostri figli a farsi allievi. È questo il passaggio antropologico che oggi sembra mancare. Lo statuto dell'allievo implica lo sforzo di apprendere quello che si ignora. Questo sforzo viene oggi rigettato in nome di un accesso spensierato al mondo. Tuttavia, mentre scrivo avverto che il rischio di una morale paternalista è qui in agguato. Non dovremmo invece vedere in queste forme di disaffezione allo studio una sorta di appello disperato delle nuove generazioni alla generazione degli adulti? Non bisognerebbe sempre provare a ribaltare l'arroganza puberale del rifiuto di condividere la stessa lingua in una domanda di accesso ad un'altra lingua, ad una lingua più viva della lingua morta della Scuola? L'inciviltà del discorso del capitalista retta sulla diffusione di un godimento immediato e dissipativo sembra dominare incontrastata e rendere il tempo lungo dell'apprendimento insensato. Il punto è che l'educazione alla lettura che dovrebbe essere alla base di ogni didattica e che viene prima del giudizio sull'importanza delle discipline (compresa quella storica) pare oggi un'impresa titanica come quella, per citare una celebre metafora freudiana, della bonifica olandese delle zone paludose dello Zuiderzee. È un altro tema assi noto agli insegnanti: il rifiuto della pratica della lettura. Si tratta a mio giudizio di un sintomo decisivo. Da cosa dipende? È uno dei problemi di fondo di questa nuova generazione. La presenza sempre presente della connessione impedisce l'esperienza dell'assenza e del vuoto che invece è essenziale per la genesi del pensiero. Lo ricorda con efficacia Bion: il pensiero può sorgere solo sull'orizzonte dell'assenza della Cosa, sullo sfondo della non-Cosa. Provate a staccare un ragazzo dal suo Iphone o da un altro dei suoi svariati oggetti tecnologici? Questo distacco viene vissuto come uno svezzamento brutale che suscita una profonda angoscia di separazione e, di conseguenza, un rigetto ostinato. Eppure bisogna forzatamente imboccare questo difficile sentiero per rendere possibile l'esperienza della formazione. L'educazione alla lettura del libro è la pietra angolare di ogni Scuola. La sua morte clinica, annunciata con gioia da certi cantori della cultura digitale sospinta, trascura che senza questa educazione ogni didattica risulterebbe semplicemente impossibile. Questa educazione dovrebbe essere il gesto fondativo di una buona Scuola. Il che comporta l'emancipazione da criteri di valutazione rigidamente quantitativi nei quali ricade fatalmente anche il paradigma degli Invalsi. L'educazione alla lettura è infatti educazione alla singolarizzazione divergente del sapere. È il fondamento umanistico irrinunciabile della nostra cultura che oggi rischiamo di dimenticare attratti dalle illusioni scientiste che hanno sospinto di fatto la Scuola verso l'azienda e l'impresa snaturando la sua vocazione autenticamente formativa.
L'importazione di lemmi economicistici (debiti, crediti, assessment, ecc.) unita alla colonizzazione della lingua inglese, non sono sintomi marginali ma rivelano la nostra subordinazione ad una "neolingua" che ha smarrito ogni spessore enigmatico. Gli insegnanti dovrebbero invece difendere il carattere epico della parola. Rifiutarsi di ridurre la sua dimensione allo scambio comunicativo. L'ampiezza del mio linguaggio, come ricordava Wittgenstein, coincide infatti con l'ampiezza dell'orizzonte del mio mondo. Le parole portano con sé la Legge dell'uomo; sono luce, apertura, orizzonte, casa. Se la scuola non recupererà la forza della parola e la sua Legge, essa resterà mutilata nel suo fondamento. Impresa titanica ma decisiva in un mondo che disprezza sistematicamente questa Legge insabbiando la sua vocazione profetica. Ecco perché io sono - anacronisticamente o, se si preferisce, novecentescamente - tra quelli che credono ancora nel modello tradizionale della lectio ex-cathedra. È solo la testimonianza dell'insegnante e della sua parola che può accendere o spegnare il desiderio di sapere negli allievi. Non c'è educazione alla lettura, non c'è, dunque, educazione in senso ampio, se non c'è la parola di un maestro. Ecco un'altra semplice verità che l'iper-cognitivizzazione attuale del sapere rimuove. Bisognerebbe invece non dimenticarlo mai: "Un maestro, un maestro, il mio regno per un maestro!".
Carissimo Aldo, questo post, ma anche quello in evidenza, affrontano un problema molto grave che mi tocca profondamente. Anche se ormai in pensione da circa dodici anni, vivo quasi quotidianamente i gravi problemi che affliggono la scuola attraverso le esperienze delle mie sorelle, anche loro insegnanti! È veramente triste e dolorosa la condizione della scuola e non può essere, purtroppo, che il riflesso di quanto succede nella società. Ho assistito al suo degrado graduale, ma costante, durante i miei anni d'insegnamento (1973-2007). Spesso facevo il paragone con le classi del decennio precedente e la differenza era abissale, già allora. "Il rifiuto della pratica della lettura... La presenza sempre presente della connessione impedisce l'esperienza dell'assenza e del vuoto che invece è essenziale per la genesi del pensiero". Ora i giovani sono costantemente in compagnia del loro iphone e di tutto ciò che la tecnologia ha prodotto. Quindi non riflettono, non pensano e non crescono. Spesso si ha, persino, l'impressione che non riescano a fare una distinzione tra il mondo reale e quello virtuale. Bisogna prendere coscienza seriamente del vero problema e cambiare direzione di marcia, anche se non sarà facile... Grazie, Aldo, del tuo impegno e buona continuazione. Agnese A.
RispondiEliminaCarissima Amica, ti ringrazio per l'attenzione che accordi al mio impegno e per le tue considerazioni. Penso di gratificarti semplicemente offrendoti in lettura il post di oggi 30 di luglio. aldoettorequagliozzi
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