Tratto da “L’ultimo
regalo del mio José”, intervista di Concita De Gregorio a Pilar del Rìo,
moglie di José Saramago (16 novembre 1922 – 18 giugno 2010), pubblicata sul settimanale Robinson del 15 di giugno 2019: (…). È
questo il tempo de Il diario dell’anno del Nobel, libro ritrovato e che ora
viene pubblicato da Feltrinelli. Com’è successo che sia comparso due decadi
dopo? Dov’era?
«È sempre stato lì. Solo che non lo vedevamo. L’anno scorso, a vent’anni dal Nobel, con Fernando Gomez Aguilera, la persona a cui José ha lasciato le chiavi di tutta la sua opera – l’autore della sua cronobiografia – abbiamo pensato: pubblichiamo per celebrare la ricorrenza le sue conferenze. C’era la questione di quale versione pubblicare, delle molte che sono state diffuse. Una notte ho deciso di riaccendere il suo computer. Per mia fortuna ho trovato i cavi. Li ho collegati, si è acceso. C’è sempre stata, sul desktop, la cartella Quaderni. Non l’avevo mai aperta: li ho tradotti, ho i volumi di carta, non avevo motivi di riaprire quel file. Quella notte l’ho fatto, non riesco a capire perché. Erano numerati da uno a sei. Ma i Quaderni pubblicati sono cinque. Ho immaginato che il sesto fosse un testo di note. Ho fatto clic. C’erano due contenuti. Testo, e note. Ho fatto ancora clic, sul primo. È comparso, perfetto e concluso, il testo del libro che da vent’anni stava aspettando di essere visto: il quaderno del 1998, l’anno del Nobel. Ho provato paura, emozione, gioia purissima. Ho chiamato un’amica, l’editrice messicana, le ho letto cosa stavo vedendo. Abbiamo pianto e riso insieme».
«È sempre stato lì. Solo che non lo vedevamo. L’anno scorso, a vent’anni dal Nobel, con Fernando Gomez Aguilera, la persona a cui José ha lasciato le chiavi di tutta la sua opera – l’autore della sua cronobiografia – abbiamo pensato: pubblichiamo per celebrare la ricorrenza le sue conferenze. C’era la questione di quale versione pubblicare, delle molte che sono state diffuse. Una notte ho deciso di riaccendere il suo computer. Per mia fortuna ho trovato i cavi. Li ho collegati, si è acceso. C’è sempre stata, sul desktop, la cartella Quaderni. Non l’avevo mai aperta: li ho tradotti, ho i volumi di carta, non avevo motivi di riaprire quel file. Quella notte l’ho fatto, non riesco a capire perché. Erano numerati da uno a sei. Ma i Quaderni pubblicati sono cinque. Ho immaginato che il sesto fosse un testo di note. Ho fatto clic. C’erano due contenuti. Testo, e note. Ho fatto ancora clic, sul primo. È comparso, perfetto e concluso, il testo del libro che da vent’anni stava aspettando di essere visto: il quaderno del 1998, l’anno del Nobel. Ho provato paura, emozione, gioia purissima. Ho chiamato un’amica, l’editrice messicana, le ho letto cosa stavo vedendo. Abbiamo pianto e riso insieme».
Lei, che è stata anche la sua traduttrice in
spagnolo, non ricordava la parte del quinto quaderno in cui l’autore annuncia
“tra breve” la pubblicazione del sesto? «No non lo ricordavo. Da qualche parte
nel mio corpo lo sapevo, è vero che l’ultimo suo libro annunciava il successivo
in modo esplicito. “Il sesto apparirà tra breve”, diceva il testo. Dunque era
già scritto. Ma poi c’è stato il Nobel, e il tempo ha cambiato il suo corso.
“Tra breve” cosa significa? Due mesi, due anni, venti? Chi può dire cosa sia
molto o poco, in materia di tempo?». (…).
Come accadde, l’incontro? «Non avevo mai
sentito parlare di lui. Lessi Memoriale del convento. Tornai dal libraio e gli
dissi mi dia tutto quello che ha di questo scrittore. Aveva solo L’anno della
morte di Ricardo Reis. Rimasi folgorata, decisi di andare a Lisbona. Partii con
un gruppo di amiche a cui avevo regalato il libro. Come giornalista, chiesi
alla casa editrice di poterlo incontrare. Non volevo intervistarlo, gli dissi
al telefono, ma solo ringraziarlo. Ci vedemmo nella hall di un albergo per un
caffè. Poi andammo sulla tomba di Pessoa, leggemmo sue poesie, “per essere
grande devi essere intero”, il giorno dopo ci scambiammo gli indirizzi, ci
salutammo. Qualche mese dopo mi scrisse».
Quanti mesi dopo? «Tre, forse quattro. Mi
scrisse. “Se le circostanze della sua vita lo consentono mi piacerebbe venire a
trovarla”. Non sapeva niente di me, delle “circostanze della mia vita”. La
trovai una formula meravigliosa. Venne. Mandai degli amici a prenderlo, io
avevo da lavorare e non potevo. Lo chiamarono al principio Don José. Poi signor
José. A metà viaggio era già Joselito. Gli chiesero che intenzioni avesse con
“la bambina”, cioè con me. Nessuno aveva mai chiamato Saramago “Joselito”. Era
atterrato in un altro mondo. Sa, gli andalusi… Lui era un portoghese austero,
fatto di ombra. Non ci siamo mai fatti regali tranne questo: lui a me la sua
lingua, io a lui un continente. L’America Latina, perché la Spagna è la parte
europea di quel continente».
Cosa vi unì, al principio? «La radicalità,
la libertà. Io venivo da una famiglia OpusDei, siamo 15 fratelli, mio padre era
“di Dio e di Franco”: bisognava riprodursi per la Patria. Io stessa ero
teresiana. Per fortuna la mia superiora vide che non avevo vocazione. Una donna
intelligente. Poi è arrivato José. Un uomo libero. Ho amato subito il suo
essere fuori dalle convenzioni, il suo disprezzo per il politicamente corretto.
Alla Fondazione Saramago, a Lisbona, è incisa sulla pietra una sua frase: “La
sinistra non ha nessuna c… di idea, del mondo”. Era
affascinato in modo particolare dalla sinistra italiana: se la invitano a cena
al banchetto dei ricchi è contenta, diceva. Toc Toc, sono la Rivoluzione. Venga
a cena, si accomodi. Fine della storia. L’italiano è stata la prima lingua in cui
è stato tradotto, per Feltrinelli. Poi passò a Einaudi ma quando Berlusconi
comprò la casa editrice volle andarsene e tornò all’origine. Una faccenda che
ha avuto qualche eco».
Una notevole eco, sì. «Aveva scritto il
Quaderno di Saramago con la prefazione di Umberto Eco. Parlava della “ Cosa
Berlusconi’. La Cosa. Ho visto che anche nel film di Sorrentino su Berlusconi
l’attrice che interpreta sua moglie Veronica lo legge. Gli dice: questo
scrittore non parla bene di te».
Infatti. «Diceva. Il problema non è
Berlusconi ma quelli che vogliono essere come lui. Non sono i leader, ma i
cittadini — la questione. Dalla casa editrice di Torino vennero dall’Italia
nella nostra casa di Lanzarote, a chiedergli di soprassedere alla scelta. Non
ci fu verso. Era molto legato a Inge, del resto».
Nel testo ritrovato ci sono pagine
potentissime su cosa significhi essere “scrittore comunista”: uno “stato
d’animo”, scrive Saramago. Essere comunisti è tutto qui, uno stato d’animo. E
c’è un articolo,“Rallegrati, sinistra”, sul destino che ci attende. Pagine che
sembrano scritte la settimana scorsa. Pilar, lei non si chiede mai leggendo i
giornali cosa penserebbe José della politica di oggi? «Mai. È già scritto tutto
in quello che ha scritto. Se guardo alla corruzione politica rileggo Cecità. Se
voglio capire le primavere arabe e il loro epilogo riprendo Los levantados, qui
tradotto con Una terra chiamata Alentejo. Nell’ultimo anniversario della
nascita sono comparse scritte naziste sulla sua lapide. Le abbiamo denunciate
alle autorità. La sua scrittura, il suo pensiero, per il fascismo sono un
fastidio adesso. La questione è che José parlava con decenni di anticipo sul
presente. Diceva, nel 2005, in una conferenza in Costa Rica: “I tre fattori che
ci definiscono sono paura, indifferenza, rassegnazione”. Non è così stamattina,
proprio qui ?
Lei ha detto una volta che le vostre uniche
discussioni sono state sulle parole, sulla lingua. «È così. Si metteva alle mie
spalle mentre lo traducevo, mi massaggiava la schiena e mi diceva: perché non
usi questa parola? Era tremendo. Non esiste, gli rispondevo: in spagnolo questa
parola non esiste. E lui: allo spagnolo mancano le parole. Una volta ho preso i
due dizionari, portoghese e spagnolo. Li ho confrontati a peso. Guarda, gli ho
detto: quello spagnolo pesa di più. Ci sono più parole».
Di cosa ci parla, questo Diario dell’anno
del Nobel, oltre vent’anni dopo? «Di quello che resta da fare a ciascuno di
noi, perché ciascuno di noi — dice José — è una superpotenza. La Dichiarazione
dei diritti dell’uomo, per esempio, ha bisogno di una speculare dichiarazione
dei doveri. Li abbiamo scritti, i doveri: un lavoro della Fondazione Saramago
con l’Università del Messico. Doveri, insieme ai diritti. È l’ora di chiedersi
cosa possiamo e dobbiamo fare, ognuno nella sua vita. Leggere, conoscere,
studiare, fare. C’è così tanta vita in questo libro di José, così tanti fili da
tirare e da tessere». (…).
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