Tratto da “Straniero
è il nostro specchio”, colloquio di Wlodek Goldkorn con Donatella Di Cesare
- filosofa, studiosa di Heidegger, anarchica, femminista, donna impegnata nella
lotta per i diritti dei migranti - pubblicato sul settimanale L’Espresso del 15
di luglio dell’anno 2018: (…). Cominciamo dalla definizione: cosa è
uno straniero? «Lo straniero è una persona che viene da lontano ma che è
prossima, perché si è avvicinata. In tutta la storia del pensiero la
definizione dello straniero è stata molto problematica perché la parola
straniero indica una relazione e non uno status fisso. Per me, la parola
straniero ha almeno quattro significati. Prima di tutto, lo straniero è
l’esterno, lo è rispetto a quello che sta dentro. È come se parlassimo
dell’assegnazione dei posti; indicando lo straniero traccio un confine e dico:
io sono dentro, tu straniero sei fuori. Il secondo significato è più semplice:
lo straniero è estraneo, è estraneo rispetto al proprio».
Proprio come proprietà? «Esatto. La definizione si basa sul possesso. È dirimente la terra e il territorio. Straniero in questo contesto è uno che non è proprietario della terra e del territorio. Ma attenzione, un estraneo lo è anche rispetto all’identità».
Ci torneremo. Intanto il terzo significato? «Lo
straniero è l’insolito, stravagante, strano, inquietante. Lo straniero incarna
tutto quello che è fuori dall’ordinario e dall’ordine stabilito. Lo straniero è
quindi straordinario. Dove però straordinario ha un significato ambivalente.
Chiamiamo straordinario un genio ma straordinario è anche un folle. E di fatti
c’è un’affinità tra lo straniero e il folle. Infine, lo straniero, essendo
straordinario eccede l’ordine; quindi è eccezionale, rivoluzionario, è colui
che può ribaltare l’ordine».
Ha appena detto che lo straniero è come il
folle. «Ha presente “Stultifera navis”? La nave dei folli (opera di fine
Quattrocento di Sebastian Brant che ebbe una grande popolarità in Europa, ndr).
In alcune città, alle soglie della Modernità, non sapevano come liberarsi dei
folli. Ad Amburgo o Brema, o a Venezia, li mettevano su un battello e li
mandavano via. In alcuni casi li affidavano ai marinai. Si pensava che il
folle, viaggiando potesse recuperare la ragion perduta, oppure che il marinaio
fosse così coraggioso da essere folle. Lo stesso avviene per gli stranieri. Il
folle sconfina nello straniero. Lo straniero diventa folle e viceversa».
Lo sconfinamento è dovuto alla non
appartenenza? «Sì, il folle, come lo straniero non appartiene alla città; è
straordinario, usa altri codici. Ma la cosa interessante è il passaggio
nell’Ottocento. Avviene che il folle perde l’aura di estraneità e diventa una
sorta di rifiuto: nascono i manicomi».
Cose descritte da Foucault in “Storia della
follia”. «Certo. Ma io voglio dire che c’è il parallelo tra il folle e il
migrante. Il punto è che noi usiamo parole che sembrano sinonimi: profughi,
rifugiati, migranti, immigrati, stranieri. Ma non sono sinonimi. Il migrante è
il grado zero dell’umanità. Lo straniero invece ha l’aura dell’altrove; è
l’esotico. Lo straniero è più rassicurante del migrante. Lo straniero viene
d’altrove, ma prima o poi andrà via».
La differenza è di classe? Hanna Arendt,
intellettuale e borghese anche da apolide era straniera non migrante? «Sì. Il
migrante è la spoglia nuda dello straniero. E la sua nudità ci fa paura. Il
migrante è privo dell’aura e sebbene sembra di passaggio, minaccia di restare
qui. Il migrante è colui o colei che viene, sbandierando la propria povertà».
Sta dicendo che il migrante ha solo il
proprio nudo corpo? «Certo. E aggiungo che ha molte colpe, ai nostri occhi
gravissime. La prima: essersi mosso. E questa è la colpa originaria; il
migrante è un pre-giudicato».
Infatti lo chiamiamo clandestino. «Clandestino
vuol dire uno che nascostamente non rispetta il confine. Il clandestino dal
momento che si è mosso ha messo a repentaglio l’ordine del mondo. Non avrebbe
dovuto farlo. Il migrante non rispetta la relazione fuori-dentro, a differenza
dello straniero».
Una volta, in una conversazione, Zygmunt
Bauman mi disse: per me essere straniero è un privilegio. Posso dire certe cose
che un autoctono difficilmente direbbe. Poi aggiunse: in fondo questa è la
situazione di molti intellettuali stranieri in Occidente. «È così. Il migrante,
a differenza di un intellettuale dissidente, viene per ragioni economiche. Da
qui, la retorica: il rifugiato sì, il migrante no. Ma si tratta di una
distinzione fittizia. Sappiamo bene che è impossibile distinguere davvero tra
un rifugiato e un migrante. Rifugiato poi, sembra una parola che promette
redenzione».
Perché promette redenzione? «Perché il
rifugiato chiede asilo e quindi viene redento dalla comunità che lo ospita. Il
migrante no. Ma qualcuno dovrebbe spiegare perché i diritti economici debbano
essere meno importanti e meno pregnanti di quelli politici. Del resto, sappiamo
quanto tutte le cause siano concatenate. Ripeto: il rifugiato lo redimo, il
migrante no, viene trattato da colpevole».
Altre colpe del migrante? «Resta e non si
lascia assimilare. Non si adegua agli usi e costumi della comunità».
Noi tutti ci definiamo rispetto ad Altro. E
chiediamo ad Altro di integrarsi, di assimilarsi, di diventare come noi. Ma nel
momento in cui l’Altro lo fa gli ricordiamo: guarda che tu sei Altro, fai solo
finta di essere uno di Noi. La dialettica di inclusione-esclusione degli ebrei
nella Modernità (descritta da Arendt e da Bauman) è simile alla attuale
dialettica rispetto agli immigrati. All’immigrato si dice: ti vogliamo
integrato, ma non oltre un certo punto, perché anche da integrato devi
ricordarti che sei Altro. L’esempio più banale (e innocuo, quasi tenero):
congratularsi con lo straniero che sta qui da decenni e lavora con la lingua
italiana, per come sa bene l’italiano. Come se ne esce? «Rispondo così: ci fa
comodo essere cittadini. Ci fa comodo che lo Stato ci difenda. Ci fa comodo che
lo Stato preservi i nostri diritti. La grande contraddizione dell’epoca della
globalizzazione è quella tra i diritti civili e i diritti umani».
È la tesi di Agnes Heller. La filosofa ungherese dice che fin dai tempi della Rivoluzione francese i diritti civili e i diritti umani sono in contraddizione. Quelli civili spettano ai cittadini, ed escludono l’umanità. Quegli umani annullano la nozione di cittadino. «In questo ambito siamo tutti complici. Secondo questa visione del mondo, i cittadini essendo sovrani, hanno il diritto di decidere chi far entrare e chi non far entrare nel loro Stato. Si tratta di una materia che divide la stessa sinistra. Anche Heller, da questo punto di vista è una sovranista».
I cittadini dovrebbero poter decidere con
chi condividere il territorio. Basta che i criteri non siano razzisti,
xenofobi... «La sua annotazione tradisce l’adesione a un sovranismo, direi
moderato, socialdemocratico. Io invece sono radicalmente anti-sovranista. C’è
un punto che voglio sottolineare: essere cittadini non significa essere
proprietari del territorio nazionale. Le racconto una storia. Un giorno, un mio
collega tedesco mi ha detto: per me un migrante è come un intruso in casa mia;
a nessuno piace aprire la mattina la porta del salotto e trovare un estraneo».
E lei cosa ha risposto? «Che un conto è la
proprietà di un appartamento, altra cosa è territorio nazionale. Per questo
motivo io dico che il cittadino non è legittimato a decidere chi entra e chi
no. Io posso decidere con chi convivere, ma non con chi coabitare. Ma torniamo
al concetto della sovranità. Noi abbiamo la visione del cittadino che è
sovrano. Quindi quando arriva il migrante, la prima cosa che sente dire è: non
puoi entrare. Ma poi esiste il dispositivo del capitalismo per cui lo facciamo
entrare lo stesso perché serve forza lavoro. E per rispondere alla sua domanda
sulla dialettica esclusione inclusione: nel caso in cui il migrante diventa
immigrato il cittadino gli dice: ti devi integrare assimilare ma non del tutto.
Perché se ti assimili del tutto, io non ti posso più identificare e quindi
controllare».
A questo punto però non è chiaro chi è,
secondo lei, il sovrano. «È la grande domanda della filosofia. Io sono
radicale: per me il sovrano è solo Dio e non esiste altra sovranità e penso
anche che sia arrivato il momento di deporre ogni sovranità. Ciò detto; nel
concreto la sovranità esiste e appartiene al popolo. Ma il popolo, in una democrazia,
è demos non etnos».
Stabilito che siamo lontani da ogni
tentazione di etnocentrismo, dovrà ammettere però che un immigrato, nella
fattispecie, non cristiano, farebbe bene a sapere chi fossero Dante,
Michelangelo, Manzoni e che per poter davvero apprezzare le loro opere occorre
sapere cosa sono i Vangeli e qual è il significato di un crocifisso... «Evidente.
L’incontro con altri è ricchezza. Ma l’incontro delle religioni, delle
tradizioni, delle culture, può però essere anche uno scontro. Ecco perché
migrare non è solo muoversi. Migrare è un atto esistenziale e politico:
incontro e scontro. Faccio un esempio. Sono stata a Palermo in un centro di
prima accoglienza dei minori non accompagnati. È giusto che quei ragazzini
imparino l’italiano, che leggano Verga e Dante. Ma è giusto anche che ci sia un
interesse dalla parte nostra per il loro bagaglio. L’incontro deve essere
dialogico. Non lo dico per retorica ma perché l’identità non è fissa, non è
granitica, è sempre fluida. E vorrei aggiungere: l’accoglienza non è un gesto
di carità né etico, ma un atto politico. Io salvo la tua vita ma poi ti chiedo
chi sei e cosa hai in testa».
Abbiamo parlato prima dei confini. Il
confine cosa è? È un’invenzione? «È un’invenzione, certo. Fino alla prima
guerra mondiale non c’era tutta quella ossessione dei confini che viviamo oggi
e che nasce con la fase degli Stati nazionali. Ripeto: oggi è un’ossessione,
pensi ai muri che si innalzano: Trump, gli spagnoli. Poi c’è un confine
interno, della nostra quotidianità: tra il ricco e il povero, tra l’italiano e
l’immigrato. È una frontiera molto forte».
Se lo immagina un mondo senza confini e
quindi senza stranieri? «Non credo che lo vedremo, ma me lo immagino. Restano
comunque i confini tra me e l’Altro».
Lo straniero è anche uno specchio? «Sì.
Nello straniero vediamo la nostra estraneità, che ci fa paura. Gli esempi sono
banali; ci fa paura sentire la nostra voce registrata, o guardarci allo
specchio osservandoci. Noi questa estraneità la cerchiamo di rimuovere. Dal punto
di vista della nostra psiche è la questione centrale. Mi spiego: tendiamo a
pensare che la nostra identità sia fissa e immutabile. E invece non è così:
oggi siamo diversi rispetto a ieri, per fare un’osservazione banale. Vede, lo
straniero è uno specchio della nostra scissione intima, della ferita che
ciascuno di noi si porta dentro la psiche. Ora, ci sono persone capaci di
introspezione e che quindi sopportano la non integrità. E c’è chi non la
sopporta. Lo spiego nel mio libro sui marrani (“Marrani. L’altro dell’altro”,
Einaudi, ndr). Loro dicevano “Mirar por dentro” (guardare dentro). Il marrano è
costretto a guardarsi dentro. E a vedere la scissione, la non identità. E non
sa se il segno della croce lo fa perché ci crede o perché è costretto. In fondo,
la psicoanalisi è questo: è accettare la scissione, la grande ferita che
ciascuno di noi porta in sé. Pensi a Spinoza, marrano per eccellenza, straniero
in tutte le patrie. Ecco, solo uno straniero in patria può dissentire. Una
persona invece che si sente tutt’uno con una nazione e con una patria non lo
può fare».
Come Antigone, che viola la legga della
polis perché si sente straniera in patria. Forse perché è donna? «Sì.
Sicuramente c’è un’estraneità delle donne rispetto all’identità maschile, che
poi è un’identità per eccellenza. Pensi a Diotima. Però ci sono anche donne che
assomigliano ai maschi».
Lei come vede il futuro della sinistra,
rispetto alle questioni che abbiamo discusso? «Sono temi che la sinistra ha
aggirato, eluso. La sinistra, tra cittadino e migrante si è schierata con il
cittadino. Tutti i discorsi della sinistra sono su come governare i flussi, gli
sbarchi, l’immigrazione. Del resto, i cittadini votano i migranti no. Quindi la
sinistra si occupa dei “propri” poveri, del welfare nel “proprio” Paese e
quello che succede fuori dai confini è come se non la riguardasse».
Sinceramente, dove è il problema nel pensare
ai propri cittadini e votanti? «Il problema è che la giustizia sociale non è
possibile in un Paese solo e certamente non nell’epoca della globalizzazione.
La storia della sinistra è la storia dell’Internazionale. Non ci piace più la
parola Internazionale? Bene, usiamo un altro termine, ma non si può tradire una
vocazione e una tradizione. Altra parola diventata tabù per la sinistra è
“proletariato” Ma il proletariato è per eccellenza la classe solidale. Il
proletariato non è la classe ripiegata su se stessa, egoista, il proletariato
combatte per i diritti di tutti, altrimenti è una corporazione. Il proletariato
è la classe che emancipa le altre, quindi deve essere necessariamente solidale
e internazionalista. Vorrei aggiungere un’altra cosa: il populismo è la
sinistra diventata sovranista».
Nessun commento:
Posta un commento