Due considerazioni prima di leggere la sempre
interessante e tagliente prosa di Antonio Pennacchi in “Torniamo
alle poesie a memoria”, pezzo pubblicato sul quotidiano la Repubblica di
ieri 18 di luglio. Un intervento che fa seguito ai tanti altri che in questa
canicolare estate hanno affrontato, da tanti punti di vista, quello che
potremmo, senza ombra di esagerazione alcuna, definire il “tracollo” della Scuola
pubblica italiana.
Affido la prima considerazione – riportata nel secondo capitolo del mio volume “I professori” (2006) e che ha per titolo “Ovvero tra professione e missione” – un brevissimo testo di Giovanni Papini risalente al 30 di giugno dell’anno 1909, a proposito degli insegnanti e del loro “status”: “(…). È vero che i professori dovrebbero essere pagati di più, ma è falso, falsissimo e appena degno del più grossolano materialismo storico, che la questione della scuola sia soltanto questione di quattrini. È anche e soprattutto questione d’anima e di educazione. Ripeti e ripeti, anni dopo anni le medesime cose, e i professori diventano assai più imbecilli e immalleabili di quel che fossero al principio e non è dir poco. Poveri aguzzini acidi, annoiati, anchilosati, vuoti, seccati, angariati, scoraggiati, che muovono le loro membra ufficiali e governative soltanto quando si tratta di avere qualche lira in più. (…)”. Chiosavo nel volume sul tema del Papini: Da quelle lamentazioni sono trascorsi decenni e decenni ed ancora nel secolo ventunesimo ci si ritrova con una realtà che non si discosta più di tanto da quella rappresentata nella illustre citazione. Per dire dell’assoluta immobilità di quel pachidermico corpo sociale che è la Scuola. Immobilità che, ad ogni stormir di fronte, viene aggredita da riforme o controriforme che, come scrive Pennacchi, hanno prodotto dal «’68 a oggi» lo stato catatonico della Scuola. La seconda considerazione la traggo sempre da quel mio lavoro pubblicato nell’anno 2006 da AndreaOppureEditore al capitolo 17° che ha per titolo “Ove si discorre di scenari nuovi per la scuola vetusta del bel paese” nel quale riportai considerazioni di Marco Rossi-Doria dal Suo volume “Di mestiere faccio il maestro”: (…). …si allarga, per forza di cose, l'area della passività rinunciataria tra i docenti, che si nutre di una speciale forma di delega dal basso verso i progetti-contenitori: si sa che è in arrivo o che si rinnoverà il progetto del Ministero o del Provveditorato chiamato x o y, che esso consentirà di usufruire - entro limiti, secondo modalità e per finalità e obiettivi già stabiliti - di incentivi per il lavoro in più che comunque chi vuole fare buona scuola compie: ebbene ci si immette, ci si ingloba entro quel progetto x o y precostituito o quella data funzione già specificamente codificata in alto, rinunciando a trovare, a studiare, a discutere in effettiva libertà, a inventare in proprio i progetti più adatti a quel che si vuole davvero fare a partire dalle proprie effettive competenze e capacità e dalla diretta relazione educativa in atto, a elaborare compiti specifici per persone o gruppi sulla base del compito educativo. In questa rinuncia non c'è solo la messa in ombra del proprio lavoro di educatore. C'è la mortificazione di tutti quei passaggi faticati ma creativi attraverso i quali sempre avviene la crescita professionale: la discussione tra operatori alla pari sul come quando dove e perché, in riferimento al fare e non a quel che dice la tale circolare o il tale altro progetto pervenuto; la registrazione onesta e l'integrazione mediata delle proposte tra docenti in funzione dell'azione coi bambini; la necessaria azione di mediazione tra adulti diversi che è il sale e il pepe di ogni condivisione democratica nell'azione educativa; l'elaborazione formale scritta secondo quel che effettivamente si vuole fare e non scopiazzando una modellistica e un lessico predefiniti; l'adeguamento intelligente in corso d'opera dei proponimenti iniziali all'effettivo processo di cui si è attori-osservatori; l'approntamento dei modi di osservazione, narrazione fattuale e verifica del lavoro. Al posto di questo c'è uno scopiazzare linguisticamente raccapricciante, sostanzialmente de-responsabilizzante e profondamente avverso alla crescita della democrazia a scuola perché inibente ogni ascolto reciproco a favore di pratiche furbesche di adeguamento a quel che si vuole da noi per ottenere approvazione, fondi, lustro e della delega verso il più capace in questa arte opportunista di ritagliare piccoli spazi e piccole frasi adeguate a ottenere entro un quadro progettuale definito altrove. Questa prassi servile e diffusa - che penalizza l'azione educativa creativa, l'elaborazione e la crescita professionale fondata sull'osservazione critica del proprio operare - rischia ora di far naufragare la stessa autonomia scolastica che, nelle intenzioni e nelle parole che la hanno accompagnata, nasceva esattamente per impedire questa ipertrofia del flusso di sollecitazione dall'alto a tutto vantaggio dell'azione educativa decisa e gestita creativamente e in piena responsabilità da ogni scuola. Ha scritto Antonio Pennacchi: Pare che in Italia più di un ragazzo su tre – ma in alcune regioni del meridione addirittura due su tre – giunto all’esame di Stato non sia in grado di comprendere appieno i testi, anche brevi, che gli capiti di dover leggere: «Ah, sì? So’ contento! » ha detto un amico mio di Cisterna al bar, l’altra sera. «Così v’imparate, ve possin’ammazzà ». Quando eravamo ragazzini noi negli anni Cinquanta, già in terza elementare cominciavano a farci studiare sul libro di lettura le poesie a memoria e sul sussidiario la storia e la geografia: gli Egizi, la Grecia, Romolo e Remo, Orazio Coclite. In quarta e quinta toccava a Carlo Magno, al Medioevo, al Rinascimento, Cristoforo Colombo, Risorgimento, Cavour, Garibaldi ed Unità d’Italia. Poi il latino alle medie – Rosa, rosae sul Tantucci – e di nuovo storia e geografia fino alla maturità, oltre ovviamente a un’altra caterva di poesie a memoria. Dice: «Ma tu sei scemo, non vorrai mica ancora le poesie a memoria nel 2019?». No, lo scemo sei tu. In primo luogo la memoria è un muscolo: se non la usi ti si atrofizza e diventi un’ameba. Non la puoi delegare al computer, alla fotocopia o al telefonino – «Sta tutto lì, quando mi serve lo piglio» – perché sta per l’appunto al di fuori di te. Non è in te e – come dice il poeta – «Non fa scienza, / sanza lo ritenere, avere inteso». È inutile che capisci una cosa se poi non la ricordi: è come non l’avessi mai capita. In secondo luogo, nel 1959 – quando uscì nelle sale il film Policarpo ufficiale di scrittura di Mario Soldati, con Renato Rascel che interpretava Policarpo – mancò poco che la gente facesse crollare i cinema dagli applausi. Nella scena madre, infatti, Rascel- Policarpo doveva dare finalmente prova – di fronte a una commissione ministeriale – dell’avvenuta riconversione da scrivano amanuense a dattilografo provetto. Assiso davanti a una mastodontica Olivetti nera d’epoca, annunciava quindi con voce stentorea: «S’ode a destra uno squillo di tromba!». Ed immediatamente dopo si chinava a pulsare sui tasti della Olivetti, che replicavano metallici: «Tatatì tatatì tatatìta!». Lui allora: «A sinistra risponde uno squillo!». E la macchina di nuovo: «Tatatì tatatì tatatìta!», mentre nei cinema scrosciavano gli applausi. Erano i cinema degli anni Cinquanta, con le sale piene di folla, le nubi di fumo che salivano al soffitto e il ragazzetto che vendeva i bruscolini nel corridoio tra le sedie. E quegli applausi a scena aperta nel buio stavano a certificare il processo di identificazione di un intero popolo – nel personaggio e nella storia del film – attraverso il riconoscimento e la condivisione dei singoli versi e della loro ritmica (tipica, per inciso, del decasillabo anapestico, detto anche “manzoniano”). Certo quella era ancora una scuola di classe, la scuola fascista ed antidemocratica di Gentile, fortemente selettiva. Era una scuola per i figli dei ricchi, mentre – per quelli del popolo – dopo le elementari c’era solo il cosiddetto avviamento e gambe in spalla a lavorare, amen. Era giusto e sacrosanto riformarla. Ma in alto – benedett’Iddio! – non in basso. Democrazia e socialismo sarebbe stato far salire tutti quanti ai massimi livelli culturali, non lasciare tutti somari. «Che razza de casino che semo combinato... » dice quel mio compagno cisternese: «Era in alto che mi dovevi eguagliare, non in basso, mannaggia a te». Hai tolto la storia, la geografia e le poesie, e l’unica memoria condivisa di cui sembrano disporre i giovani oggi è la sigla di Lady Oscar cantata da Cristina D’Avena ac similia. Come possono poi capire quello che leggono? Anzi, molto più dello studente su tre che non ce la fa, a me chi desta assoluta meraviglia sono invece gli altri due, quelli che pare capiscano: «Chissà come fanno? ». Più di 2150 anni fa, Catone il censore insegnava: « Rem tene, verba sequentur » che significa pressappoco che – se hai delle cose da dire – le parole poi vengono da sole. Se invece non hai niente da raccontare, è meglio che ti stai zitto che fai più bella figura. Questi purtroppo non sanno né chi sono né dove stanno; né soprattutto da dove vengono. La lingua però non è un fatto astratto: ogni nome corrisponde a una cosa o a un concetto. Come possono quindi – porebestie – dare i nomi e riconoscere le cose, se dentro la testa non le hanno? Credono davvero che il mondo inizi e finisca con loro. Hanno il vuoto identitario assoluto, nessuna consapevolezza del divenire storico e del faticoso dipanarsi delle generazioni, che pure è stato necessario per poter giungere appunto fino a loro. E la colpa è nostra, colpa di questa scuola. Fagli ristudiare la storia, la geografia, il latino e un po’ di poesie a memoria, finché sei in tempo. Dagli i materiali per costruirsi un’identità e una memoria collettiva. Per doverosa completezza dell’informazione, è bene però precisare che ai nostri tempi, a scuola, se non studiavi ti menavano. Certe bacchettate sulle mani e schiaffoni a tutta forza in testa, mica solo alle elementari. Ancora in quinto geometri – nel 1968 – mia madre si presentava ogni volta, al ricevimento professori, a dirgli imperiosa: «Lo meni professo’, mi raccomando! Lo meni, se serve». Adesso invece pare siano i genitori, spesso, a menare i professori. «Che vai cerchenno, allora?» dice quel mio compagno cisternese: «Poi ti fai meraviglia se questi, quando lèggeno, lèggeno lèggeno e ‘ncapìsceno ‘ncazzo? Dagli due zampate ai fianchi e vedrai che capìsceno». Io non lo so. Mia madre – fosse viva – due zampate ai fianchi le consiglierebbe forse pure, però, per i professori, presidi e ministri. Non solo quelli attuali, anche quelli di prima. Dal ’68 a oggi. Scrivevo ancora nel 25° capitolo de “I professori”, nel capitolo che ha per titolo “Ove affiora la disperante solitudine dell’educare”: È che nella quotidiana “vita scolastica” non sembra poter esistere una linea netta di demarcazione tra l’insegnante esperto e tecnico delle discipline e l’insegnante-uomo- maestro, che si faccia carico dei problemi propri del navigare tormentoso delle giovani generazioni. E l’aspirazione e l’impegno ad essere “insegnante-uomo-maestro” predomina, per fortuna, nella maggioranza dei docenti della scuola pubblica italiana, poiché oggi la scuola si trova a dover affrontare crisi generazionali delle più complesse, nel quadro di una società in rapida trasformazione sotto tutti gli aspetti, da quelli economici ai rapporti parentali, dell’organizzazione del lavoro a quelli della vita associativa e di relazione, che si riflettono poi inevitabilmente sulla vita stessa delle famiglie e dei giovani con l’insorgere spesso di gravissime crisi motivazionali ed identitarie. Credo di aver nell’occasione abbondantemente utilizzata quella pratica del “citarsi addosso” tanto aborrita dal grande Woody Allen. Me ne dolgo assai.
Affido la prima considerazione – riportata nel secondo capitolo del mio volume “I professori” (2006) e che ha per titolo “Ovvero tra professione e missione” – un brevissimo testo di Giovanni Papini risalente al 30 di giugno dell’anno 1909, a proposito degli insegnanti e del loro “status”: “(…). È vero che i professori dovrebbero essere pagati di più, ma è falso, falsissimo e appena degno del più grossolano materialismo storico, che la questione della scuola sia soltanto questione di quattrini. È anche e soprattutto questione d’anima e di educazione. Ripeti e ripeti, anni dopo anni le medesime cose, e i professori diventano assai più imbecilli e immalleabili di quel che fossero al principio e non è dir poco. Poveri aguzzini acidi, annoiati, anchilosati, vuoti, seccati, angariati, scoraggiati, che muovono le loro membra ufficiali e governative soltanto quando si tratta di avere qualche lira in più. (…)”. Chiosavo nel volume sul tema del Papini: Da quelle lamentazioni sono trascorsi decenni e decenni ed ancora nel secolo ventunesimo ci si ritrova con una realtà che non si discosta più di tanto da quella rappresentata nella illustre citazione. Per dire dell’assoluta immobilità di quel pachidermico corpo sociale che è la Scuola. Immobilità che, ad ogni stormir di fronte, viene aggredita da riforme o controriforme che, come scrive Pennacchi, hanno prodotto dal «’68 a oggi» lo stato catatonico della Scuola. La seconda considerazione la traggo sempre da quel mio lavoro pubblicato nell’anno 2006 da AndreaOppureEditore al capitolo 17° che ha per titolo “Ove si discorre di scenari nuovi per la scuola vetusta del bel paese” nel quale riportai considerazioni di Marco Rossi-Doria dal Suo volume “Di mestiere faccio il maestro”: (…). …si allarga, per forza di cose, l'area della passività rinunciataria tra i docenti, che si nutre di una speciale forma di delega dal basso verso i progetti-contenitori: si sa che è in arrivo o che si rinnoverà il progetto del Ministero o del Provveditorato chiamato x o y, che esso consentirà di usufruire - entro limiti, secondo modalità e per finalità e obiettivi già stabiliti - di incentivi per il lavoro in più che comunque chi vuole fare buona scuola compie: ebbene ci si immette, ci si ingloba entro quel progetto x o y precostituito o quella data funzione già specificamente codificata in alto, rinunciando a trovare, a studiare, a discutere in effettiva libertà, a inventare in proprio i progetti più adatti a quel che si vuole davvero fare a partire dalle proprie effettive competenze e capacità e dalla diretta relazione educativa in atto, a elaborare compiti specifici per persone o gruppi sulla base del compito educativo. In questa rinuncia non c'è solo la messa in ombra del proprio lavoro di educatore. C'è la mortificazione di tutti quei passaggi faticati ma creativi attraverso i quali sempre avviene la crescita professionale: la discussione tra operatori alla pari sul come quando dove e perché, in riferimento al fare e non a quel che dice la tale circolare o il tale altro progetto pervenuto; la registrazione onesta e l'integrazione mediata delle proposte tra docenti in funzione dell'azione coi bambini; la necessaria azione di mediazione tra adulti diversi che è il sale e il pepe di ogni condivisione democratica nell'azione educativa; l'elaborazione formale scritta secondo quel che effettivamente si vuole fare e non scopiazzando una modellistica e un lessico predefiniti; l'adeguamento intelligente in corso d'opera dei proponimenti iniziali all'effettivo processo di cui si è attori-osservatori; l'approntamento dei modi di osservazione, narrazione fattuale e verifica del lavoro. Al posto di questo c'è uno scopiazzare linguisticamente raccapricciante, sostanzialmente de-responsabilizzante e profondamente avverso alla crescita della democrazia a scuola perché inibente ogni ascolto reciproco a favore di pratiche furbesche di adeguamento a quel che si vuole da noi per ottenere approvazione, fondi, lustro e della delega verso il più capace in questa arte opportunista di ritagliare piccoli spazi e piccole frasi adeguate a ottenere entro un quadro progettuale definito altrove. Questa prassi servile e diffusa - che penalizza l'azione educativa creativa, l'elaborazione e la crescita professionale fondata sull'osservazione critica del proprio operare - rischia ora di far naufragare la stessa autonomia scolastica che, nelle intenzioni e nelle parole che la hanno accompagnata, nasceva esattamente per impedire questa ipertrofia del flusso di sollecitazione dall'alto a tutto vantaggio dell'azione educativa decisa e gestita creativamente e in piena responsabilità da ogni scuola. Ha scritto Antonio Pennacchi: Pare che in Italia più di un ragazzo su tre – ma in alcune regioni del meridione addirittura due su tre – giunto all’esame di Stato non sia in grado di comprendere appieno i testi, anche brevi, che gli capiti di dover leggere: «Ah, sì? So’ contento! » ha detto un amico mio di Cisterna al bar, l’altra sera. «Così v’imparate, ve possin’ammazzà ». Quando eravamo ragazzini noi negli anni Cinquanta, già in terza elementare cominciavano a farci studiare sul libro di lettura le poesie a memoria e sul sussidiario la storia e la geografia: gli Egizi, la Grecia, Romolo e Remo, Orazio Coclite. In quarta e quinta toccava a Carlo Magno, al Medioevo, al Rinascimento, Cristoforo Colombo, Risorgimento, Cavour, Garibaldi ed Unità d’Italia. Poi il latino alle medie – Rosa, rosae sul Tantucci – e di nuovo storia e geografia fino alla maturità, oltre ovviamente a un’altra caterva di poesie a memoria. Dice: «Ma tu sei scemo, non vorrai mica ancora le poesie a memoria nel 2019?». No, lo scemo sei tu. In primo luogo la memoria è un muscolo: se non la usi ti si atrofizza e diventi un’ameba. Non la puoi delegare al computer, alla fotocopia o al telefonino – «Sta tutto lì, quando mi serve lo piglio» – perché sta per l’appunto al di fuori di te. Non è in te e – come dice il poeta – «Non fa scienza, / sanza lo ritenere, avere inteso». È inutile che capisci una cosa se poi non la ricordi: è come non l’avessi mai capita. In secondo luogo, nel 1959 – quando uscì nelle sale il film Policarpo ufficiale di scrittura di Mario Soldati, con Renato Rascel che interpretava Policarpo – mancò poco che la gente facesse crollare i cinema dagli applausi. Nella scena madre, infatti, Rascel- Policarpo doveva dare finalmente prova – di fronte a una commissione ministeriale – dell’avvenuta riconversione da scrivano amanuense a dattilografo provetto. Assiso davanti a una mastodontica Olivetti nera d’epoca, annunciava quindi con voce stentorea: «S’ode a destra uno squillo di tromba!». Ed immediatamente dopo si chinava a pulsare sui tasti della Olivetti, che replicavano metallici: «Tatatì tatatì tatatìta!». Lui allora: «A sinistra risponde uno squillo!». E la macchina di nuovo: «Tatatì tatatì tatatìta!», mentre nei cinema scrosciavano gli applausi. Erano i cinema degli anni Cinquanta, con le sale piene di folla, le nubi di fumo che salivano al soffitto e il ragazzetto che vendeva i bruscolini nel corridoio tra le sedie. E quegli applausi a scena aperta nel buio stavano a certificare il processo di identificazione di un intero popolo – nel personaggio e nella storia del film – attraverso il riconoscimento e la condivisione dei singoli versi e della loro ritmica (tipica, per inciso, del decasillabo anapestico, detto anche “manzoniano”). Certo quella era ancora una scuola di classe, la scuola fascista ed antidemocratica di Gentile, fortemente selettiva. Era una scuola per i figli dei ricchi, mentre – per quelli del popolo – dopo le elementari c’era solo il cosiddetto avviamento e gambe in spalla a lavorare, amen. Era giusto e sacrosanto riformarla. Ma in alto – benedett’Iddio! – non in basso. Democrazia e socialismo sarebbe stato far salire tutti quanti ai massimi livelli culturali, non lasciare tutti somari. «Che razza de casino che semo combinato... » dice quel mio compagno cisternese: «Era in alto che mi dovevi eguagliare, non in basso, mannaggia a te». Hai tolto la storia, la geografia e le poesie, e l’unica memoria condivisa di cui sembrano disporre i giovani oggi è la sigla di Lady Oscar cantata da Cristina D’Avena ac similia. Come possono poi capire quello che leggono? Anzi, molto più dello studente su tre che non ce la fa, a me chi desta assoluta meraviglia sono invece gli altri due, quelli che pare capiscano: «Chissà come fanno? ». Più di 2150 anni fa, Catone il censore insegnava: « Rem tene, verba sequentur » che significa pressappoco che – se hai delle cose da dire – le parole poi vengono da sole. Se invece non hai niente da raccontare, è meglio che ti stai zitto che fai più bella figura. Questi purtroppo non sanno né chi sono né dove stanno; né soprattutto da dove vengono. La lingua però non è un fatto astratto: ogni nome corrisponde a una cosa o a un concetto. Come possono quindi – porebestie – dare i nomi e riconoscere le cose, se dentro la testa non le hanno? Credono davvero che il mondo inizi e finisca con loro. Hanno il vuoto identitario assoluto, nessuna consapevolezza del divenire storico e del faticoso dipanarsi delle generazioni, che pure è stato necessario per poter giungere appunto fino a loro. E la colpa è nostra, colpa di questa scuola. Fagli ristudiare la storia, la geografia, il latino e un po’ di poesie a memoria, finché sei in tempo. Dagli i materiali per costruirsi un’identità e una memoria collettiva. Per doverosa completezza dell’informazione, è bene però precisare che ai nostri tempi, a scuola, se non studiavi ti menavano. Certe bacchettate sulle mani e schiaffoni a tutta forza in testa, mica solo alle elementari. Ancora in quinto geometri – nel 1968 – mia madre si presentava ogni volta, al ricevimento professori, a dirgli imperiosa: «Lo meni professo’, mi raccomando! Lo meni, se serve». Adesso invece pare siano i genitori, spesso, a menare i professori. «Che vai cerchenno, allora?» dice quel mio compagno cisternese: «Poi ti fai meraviglia se questi, quando lèggeno, lèggeno lèggeno e ‘ncapìsceno ‘ncazzo? Dagli due zampate ai fianchi e vedrai che capìsceno». Io non lo so. Mia madre – fosse viva – due zampate ai fianchi le consiglierebbe forse pure, però, per i professori, presidi e ministri. Non solo quelli attuali, anche quelli di prima. Dal ’68 a oggi. Scrivevo ancora nel 25° capitolo de “I professori”, nel capitolo che ha per titolo “Ove affiora la disperante solitudine dell’educare”: È che nella quotidiana “vita scolastica” non sembra poter esistere una linea netta di demarcazione tra l’insegnante esperto e tecnico delle discipline e l’insegnante-uomo- maestro, che si faccia carico dei problemi propri del navigare tormentoso delle giovani generazioni. E l’aspirazione e l’impegno ad essere “insegnante-uomo-maestro” predomina, per fortuna, nella maggioranza dei docenti della scuola pubblica italiana, poiché oggi la scuola si trova a dover affrontare crisi generazionali delle più complesse, nel quadro di una società in rapida trasformazione sotto tutti gli aspetti, da quelli economici ai rapporti parentali, dell’organizzazione del lavoro a quelli della vita associativa e di relazione, che si riflettono poi inevitabilmente sulla vita stessa delle famiglie e dei giovani con l’insorgere spesso di gravissime crisi motivazionali ed identitarie. Credo di aver nell’occasione abbondantemente utilizzata quella pratica del “citarsi addosso” tanto aborrita dal grande Woody Allen. Me ne dolgo assai.
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