Ha scritto Marco Travaglio in “Rinuncia da Cazzaro” su “il Fatto Quotidiano” del 29 agosto 2018: (…). Salvini
non vede l’ora: lui alla sbarra e tutt’intorno due ali di folla acclamante. Per
giorni ha sfidato il pm a indagarlo, l’ha dissuaso dal prendersela con oscuri
funzionari, ha ripetuto che gli ordini li dava lui, ergo l’avviso di garanzia
spettava in esclusiva a lui. Alla fine il pm l’ha accontentato, sia pur solo
con un’iscrizione sul registro, che comunque è meglio che niente. Ora però il
Cazzaro Verde ha letto che dovrà pronunciarsi il Senato e s’è di nuovo
allarmato: come sarebbe a dire? E se il Senato dice no e mi frega il mio
processo? Allora ha annunciato: “Rinuncio all’immunità parlamentare”. E tutti i
tg e i giornaloni dietro: hai visto il Capitano? Avrebbe l’immunità, ma
rinuncia con nobile gesto e porge impavido il petto nudo al plotone
d’esecuzione. Che eroe! A nessuno viene in mente di domandargli a quale
immunità stia rinunciando, visto che per i reati ministeriali non ne è prevista
alcuna.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
venerdì 31 agosto 2018
mercoledì 29 agosto 2018
Terzapagina. 39 «Il calcio ai balilla firmato Camilleri».
Tratto da “Ora
dimmi di te – Lettera a Matilda” – Bompiani editore (2018), pagg. 112, €
11.90 – di Andrea Camilleri, riportato
sul settimanale “Robinson” - “Il calcio
ai balilla firmato Camilleri” – del 19 di agosto 2018:
martedì 28 agosto 2018
Riletture. 11 «La missione impossibile di costruire l’Europa».
Tratto da “La missione impossibile di costruire l’Europa” di Eugenio Scalfari,
pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 28 di agosto dell’anno 2011: (…).
Viene in mente quello che fu il destino delle città greche ai tempi di
Alessandro il Grande. Atene, Sparta, Tebe, Corinto erano state grandi, avevano
costellato di colonie le coste del Mediterraneo, avevano sconfitto i persiani
di Ciro e di Serse ma poi si erano dilaniate in feroci guerre tra loro.
domenica 26 agosto 2018
Riletture. 10 «La stagnazione secolare ha cause strutturali».
Tratto da “I
Banchieri a Jackon Hole e il potere del pulpito” di Federico Rampini,
pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 26 di agosto dell’anno 2016: “Anni
di errori da parte della Fed hanno alimentato le delusioni sull’economia e la
disaffezione dalla politica. Una banca centrale che in passato fu rispettata,
non ha saputo prevedere la crisi e da allora è in affanno, alimentando l’ascesa
del populismo e la sfiducia nelle istituzioni”. (…).
sabato 25 agosto 2018
Cronachebarbare. 58 “Nel paese dei furbi non frega a nessuno”.
Alti lai si sono innalzati all’indirizzo dell’indifferente
cielo da quella martoriata riviera di ponente. Le prefiche hanno come sempre convenientemente
intonato gli immancabili lamenti funebri. Diciamoci la verità: non frega a
nessuno. Non un grido di stizza e si è levato da quell’immenso bagnasciuga che
è divenuto lo stivale d’Italia. Tutti indifferentemente a crogiolarsi al
solleone come inconsapevoli lucertole. Lo è stato puranco per Ustica; lo è
stato per piazza Fontana; lo è stato per Bologna il cui triste anniversario
cade nel periodo del solleone, per l’appunto; lo è stato per Brescia e per le
stragi di mafia. Non frega a nessuno se non a quel ristrettissimo gruppo di
umani che con le vittime ha intessuto rapporti parentali, amicali o
sentimentali. È inutile girarci intorno. Quell’atroce avvenimento è servito come
sempre alla (mala)politica per gli affari suoi. Ed i soliti turiferari ad
intonare le prediche prescritte per il caso, a far sentire la voce dei padroni
mimetizzati ben bene. Avviene che in “Il
ground zero dell’Italia” Ezio Mauro sul quotidiano la Repubblica del 17 di
agosto 2018 pensosamente scriva: (…). Annunciando la sospensione della
concessione il premier Conte ha spiegato che il nuovo governo non può aspettare
"i tempi della giustizia". Ma i tempi della giustizia sono i tempi
del diritto, e delle sue garanzie per reperire gli elementi d'accusa e per
predisporre gli strumenti di difesa. Sono quindi i tempi del giudizio e della
responsabilità in ogni Paese civile. Non avrà pensato, sopraffatto
dalla foga, il celebre columnist che anche nelle stragi precedentemente
elencate si è atteso tanto che la giustizia facesse il suo corso senza guardare
in faccia nessuno. Non lo è stato, tanto è vero che si brancola tutt’oggi nei
tanti misteri assoluti che avvolgono quegli avvenimenti seppur gli stessi siano
approdati al verdetto finale della giustizia. Si dirà che “la sospensione della concessione”
da parte dello Stato sovrano sarà un dato negativo nei rapporti tra
quello stesso Stato ed i mercati in generale, così come tra quello stesso Stato
ed il popolo da esso amministrato. Andrebbe così a cadere quel rapporto
fiduciario che si identifica nel rispetto reciproco di accordi sottoscritti. È qui
che l’illustre Autore sembra non voler prendere in considerazione quel dato
antropologico che permea la vita in tutte le contrade dell’italico stivale.
Quel rapporto fiduciario non esiste, non è mai storicamente esistito, tanto è
vero che sulle stesse pagine di quel quotidiano lo scrittore Paolo Di Paolo - il
giorno prima dei luttuosi fatti di Genova (il 13 di agosto) - in “Quel vanto italiano di farsi furbi”
(rifacendosi ad un altro tipico italiota fatto di cronaca) ha potuto scrivere: (…). È
l'unica soluzione. “Farsi furbi" rappresenta la felice via d'uscita, la
rivalsa, la rivincita. Parte dell'autobiografia della nazione sta in questa
convinzione e in questa frase: se non hai ragione, te la prendi come puoi; se
non hai ciò che pretendi, lo agguanti con l'astuzia. Si potrebbe riscrivere una
storia d'Italia giocata su tale principio, senza nemmeno insistere sul
grottesco e sul caricaturale, sul presunto "carattere" di un popolo.
Basterebbe attenersi, diciamo pure così, ai fatti. O, ancora una volta, alle
parole. Per cogliere tutte le sfumature connesse, nell'italiano colloquiale,
alla parola "fesso", uno scrittore, Giuseppe Pontiggia, aveva
riaperto il ponderoso Grande dizionario Battaglia. E aveva registrato che
"fesso" è chi non sappia o non voglia approfittare delle "facili
e vantaggiose occasioni"; chi è incapace di farsi valere, "spesso per
mantenersi fedele ai propri ideali di giustizia e onestà". Di qui le
espressioni "fare il fesso", "non fare il fesso". Pontiggia
citava un suo acuto e aspro collega del passato, Giuseppe Prezzolini, evocando
la distinzione categorica su cui impostò un surreale (e lucidissimo) Codice
della vita italiana poco meno di cent'anni fa. "I cittadini italiani -
scriveva Prezzolini - si dividono in due categorie: i furbi e i fessi".
Cavare suggestioni letterarie in proposito - dalla commedia dell'arte a
Pinocchio, con l'infingarda e meschina Volpe in cui inciampa - risulta
superfluo. (…). …Prezzolini, con una punta di cinismo, si era convinto che a
mandare avanti l'Italia fossero dunque i fessi ("che lavorano, pagano,
crepano"), (…). L'Italia la mandano avanti quelli che si fanno furbi.
Quelli, cioè, che non si fanno fare fessi. Poco conta se quella
"furbizia" produca danni a terzi, abbia conseguenze pericolose,
effetti collaterali pesanti. L'importante è aver guadagnato il traguardo, no? Il
fatto è che dentro quella piccola frase è accesa una spia che dovrebbe
inquietarci. Non al passato, ma al presente. Lampeggia nelle notti di questo
tempo che è nostro e non è solo italiano, affollato di cittadini non solo
"a basso tasso di informazione" ma incapaci di riconoscere i limiti
del proprio sapere. "Tutti siamo rimasti intrappolati a una festa o a una
cena in cui la persona meno informata tra i presenti ha tenuto banco",
senza mai dubitare della propria intelligenza e competenza. L'immagine l'ha
usata lo studioso americano Tom Nichols nel recente La conoscenza e i suoi
nemici. Ma la festa è diventata cupa, se non perfino macabra. Il furbo viene
confuso con l'intelligente; i nemici della conoscenza vedono solo nemici, e
quelli che credono di avere vinto fanno perdere tutti. Ecco allora che
la sgangherata navicella italiota, col suo fasciame cadente e corroso, si trovi
oggi, di fronte a questa nuova sciagura, a doversi destreggiare come tra i
marosi mitologici di Scilla e Cariddi, laddove quei mostri possono ben rappresentare
l’esigenza del rispetto dei patti dello Stato sovrano verso i mercati (così
come il rispetto dei patti da parte dello stesso Stato verso la generalità dei
suoi cittadini), ma al contempo quella voglia di giustizia rapida e sicura che
quello stesso Stato sovrano non è riuscito mai a soddisfare. E quel “farsi
furbi" è un dato antropologico e sociale che ha condotto la
maggioranza della “ggente” a diffidare se non addirittura a temere il proprio
Stato. A starne possibilmente lontani. Ad utilizzarlo furbescamente alla
bisogna e non oltre. Scrive ancora il famoso columnist:
venerdì 24 agosto 2018
Sullaprimaoggi. 20 “Il ministro delle interiora”.
Tratto da “Però
adesso basta” di Marco Travaglio, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del
24 di agosto 2018: (…). Salvini, al solito, gioca la sua partita cinicamente e
spregiudicatamente: usa l’arma di distrazione di massa di un’emergenza finta
(qual è fortunatamente, al momento, quella dei migranti, dopo il crollo delle
partenze e degli sbarchi) per riprendersi la scena rubata dai 5Stelle su
vitalizi, dl Dignità e caso Autostrade; e per distrarre l’attenzione dalle vere
emergenze nazionali. Che sono notoriamente ben altre, e la cronaca s’incarica
ogni giorno di rammentarcele.
mercoledì 22 agosto 2018
Riletture. 09 «Autonomia dell’economia e compiti della politica».
Tratto da “Con
le riforme la politica va al servizio della finanza”, intervista di Marco
Travaglio al professor Gustavo Zagrebelsky, pubblicata su “il Fatto Quotidiano”
del 22 di agosto dell’anno 2014: (…). – (…). I fascismi tentarono per via
autoritaria di affermare il primato della politica sull’economia. ‘Tutto nello
e per lo Stato’, dopo che lo Stato dell’Ottocento aveva visto i governi al
servizio dell’economia capitalista.
lunedì 20 agosto 2018
Sullaprimaoggi. 19 “Tarxien, Marcinelle e quel che Di Maio non sa”.
Tratto da “Nessuna operazione di
polizia fermerà milioni di migranti” di Salvatore Settis, pubblicato su “il
Fatto Quotidiano” del 19 di agosto 2018: Nell’arduo tentativo di sorpassare in
vaniloquio il suo collega di governo Salvini, il vicepresidente Di Maio ci ha
spiegato dove hanno sbagliato i 136 emigranti italiani morti nella miniera
belga di Marcinelle nel 1956: “Questa vicenda insegna che non bisogna partire
dall’Italia, che non bisogna emigrare”. Venendo dal ministro del Lavoro, questo
alto monito sarà certo rivolto non solo (retrospettivamente) ai trenta milioni
di emigranti italiani in America, Australia, Europa dal 1860 al 1990, ma anche
ai 5 milioni di italiani che oggi lavorano all’estero, nonché ai circa 170.000
italiani che si ostinano a emigrare ogni anno, facendo dell’Italia l’ottavo
Paese dell’Ocse per tasso di emigrazione (2,4%), non poi troppo lontano dal
Messico col suo 2,7% (dati Comuniverso). Non sapevano che era meglio starsene a
casa, i nostri emigranti i cui discendenti sono oggi metà della popolazione
argentina e quasi il 10% di quella statunitense. E se per caso i cinque milioni
di lavoratori italiani iscritti all’Aire (anagrafe dei residenti all’estero),
convinti dall’argomentare del ministro, rientrassero domani in Italia, troverebbero
lavoro (o reddito di cittadinanza) per tutti? La migrazione di esseri umani è
un fenomeno globale di enorme portata e complessa interpretazione, e non è con
facili boutade o con fandonie improvvisate che lo si può affrontare. Ma le
parole di Di Maio vanno prese sul serio anche se estemporanee. Messe insieme
con le invettive di Salvini contro i migranti, sono il sintomo di una
concezione del mondo che sarà forse popolare (visto che i due vicepremier
gareggiano per suscitare vampate di consenso), ma è soprattutto lontanissima
dalla realtà. Dà per scontate due cose che, viceversa, non sono mai accadute
negli ultimi centomila anni: primo, che le comunità degli umani possano (anzi
debbano) restar ferme dove sono, senza mai muoversi, senza mescolarsi fra loro,
senza cercare altrove condizioni di vita migliori. Secondo, che quando si
verificano flussi migratori sia non solo giusto e necessario, ma possibile e
fattibile arrestarli ricacciandoli indietro con operazioni di polizia. Perciò
la dichiarazione di Di Maio è il rovescio e l’identico di quella che Renzi ci
regalò un anno fa : “Aiutiamo i migranti a casa loro”. Ognuno a casa propria,
di qua gli italiani che non emigrano, di là i migranti che l’Italia respinge.
Tutti “padroni in casa propria”, secondo lo slogan di Berlusconi che Renzi
ripeteva senza pudore. La cultura al cloroformio di chi ci governa è a quel che
pare ancora e sempre nutrita di miraggi autarchici. Due pilastri megalitici di
un tempio di Tarxien (Malta), del 1500 a.C. circa, hanno in merito qualcosa da
dirci. Sono coperti di graffiti che rappresentano almeno 38 battelli in
navigazione fra la Sicilia, le isole maltesi e l’Africa. Allora come oggi. I
primi abitanti di Malta vennero dalla Sicilia intorno al 5000 a.C., e
nell’arcipelago maltese svilupparono una civiltà particolarissima,
caratterizzata da sorprendenti e gigantesche costruzioni templari. I graffiti
di Tarxien, opera di migranti scampati al naufragio (Woolner), raccontano una
storia molto semplice: ci dicono che il Mediterraneo non è una barriera da
fortificare, ma una strada da percorrere. E che da migliaia di anni il flusso,
in tutte le direzioni, è inarrestabile. È vero, i migranti di Tarxien erano
pochi, mentre l’enorme incremento della popolazione mondiale ha moltiplicato i
movimenti di popolo fino a proporzioni quasi apocalittiche. Ma chi emigra con
enormi rischi e sacrifici non lo fa perché non aveva capito che era meglio
starsene a casa né perché è un criminale (meno che mai perché migrare è “una
pacchia”). Le cause immediate della migrazione che preme alle porte dell’Europa
sono conflitti militari, carestie, guerre civili, talvolta pulizia etnica:
tutte eliminabili in linea di principio, anche se per eliminarle l’Ue fa ben
poco, e molto ha fatto per rinfocolarle (come in Libia). Ma c’è una causa di
fondo che non si elimina con interventi di breve periodo: l’enorme squilibrio
economico fra le varie parti del mondo. A un tale squilibrio c’è un rimedio
vecchio di migliaia di anni: l’emigrazione. Nulla può arrestare le folle latino-americane
che premono ai confini sud degli Stati Uniti, nulla può arrestare la marea di
popolo che da oltre il Mediterraneo guarda verso l’Europa. Anzi, i drammatici
cambiamenti climatici innescheranno nuove ondate migratorie, a cui siamo
ciecamente impreparati. Perciò i placebo escogitati da Salvini e Di Maio sono
patetici tentativi di rimozione (dall’attenzione pubblica, ma anche dalla loro
responsabilità politica) di un problema che non sanno come affrontare.
Eliminare gli squilibri che causano i movimenti migratori è necessario, ma
richiede un progetto di lungo periodo di cui non s’intravvede nemmeno
l’abbozzo. Ma i migranti, le donne e uomini e bambini e vecchi che salgono oggi
sui barconi, non possono aspettare decenni per salvarsi la vita. Una strategia
di lungo periodo è urgente, e dovrebbe includere la possibilità (non l’obbligo)
di trovare lavoro “a casa propria”. Ma altrettanto necessaria e urgente è una
strategia di accoglienza sui tempi brevi, rivolta ai nostri fratelli che
migrano proprio come i nostri nonni cent’anni fa. Una minima informazione e
consapevolezza storica servirebbe anche ai nostri ministri, corrivi inventori
di slogan senza coraggio e senza futuro. Come diceva uno dei grandi storici del
Novecento, Eric Hobsbawm, abbiamo l’obbligo di protestare contro chi vuol
spingerci a dimenticare.
domenica 19 agosto 2018
Sullaprimaoggi. 18 «Alle privatizzazioni non si comanda, e soprattutto non si domanda».
Tratto da “United
Dolors” di Marco Travaglio, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 17 di
agosto 2018: (…). A un certo punto – era il 1999, in piena età dell’oro del
centrosinistra – scoprimmo che i fratelli turchini (i Benetton n.d.r.) s’erano
aggiudicati la concessione di Autostrade per l’Italia, che gestisce oltre la
metà della rete nazionale. Nessuno spiegò perché mai un bene pubblico,
costruito con le tasse dei cittadini, dovesse fruttare miliardi a un privato,
né cosa c’entrassero col cemento e l’asfalto quei simpatici tosatori di pecore
e fabbricanti di maglioni. Eppure quella “privatizzazione”, (…), era piuttosto
singolare. Immaginate un contadino che, dopo tanti sacrifici, riesce ad
acquistare una cascina, la ristruttura a sue spese e va ad abitarci. Un brutto
giorno, si ritrova all’ingresso un bel casello con dentro un Gilberto o un
Luciano che sbuca dalla finestrella e lo apostrofa: “Lei dove va?”. “A casa
mia, dove vuole che vada? Lei piuttosto chi è?”. “Sono Gilberto (o Luciano,
ndr), il nuovo concessionario: da oggi casa sua è mia, se vuole entrare mi deve
15 euro”. “E perché dovrei pagare lei per entrare in casa mia?”. “Perché l’ha
deciso il governo, io sono un imprenditore”. “Ah sì, e cos’ha fatto per la mia
casa?”. “Beh, incasso il pedaggio e i dividendi in Borsa, le par poco?”.
“Quindi, se si rompe qualcosa, ora ci pensa lei?”. “Non esageriamo: dipende
dagli azionisti e dal titolo in Borsa”. Il fatto che nel caso Autostrade il
contadino fosse lo Stato, cioè milioni e milioni di italiani che per decenni
avevano finanziato con le imposte la rete viaria, avrebbe dovuto sollevare
qualche obiezione su un’operazione che regalava a un privato una gallina dalle
uova d’oro in regime di monopolio e senza rischi d’impresa, mentre privava la
collettività di un bene pubblico che non può sottostare alle regole del
mercato: perché le autostrade non devono produrre profitti, ma risorse da
reinvestire in manutenzione, sicurezza, nuove infrastrutture e, se avanza
qualcosa, taglio delle tariffe. Il contrario di quanto accade da 19 anni:
sempre meno manutenzione e sicurezza, sempre più utili ai Benetton (nascosti
dietro sigle rassicuranti, tipo “Atlantia”, più adatta a un’astronave, o
“Sintonia”, che fa pensare a un gruppo rock). Ma, si sa, alle privatizzazioni
non si comanda, e soprattutto non si domanda. Specialmente se i beneficiari
elargiscono qualche aiutino per le campagne elettorali dei partiti che, appena
vanno a governo, si sdebitano aumentando le tariffe autostradali senza badare
troppo a dettagli tipo gl’investimenti previsti dal contratto (peraltro coperto
da segreto di Stato). E se, dal tavolo dei loro banchetti, ogni tanto cade
qualche boccone dritto in gola ai giornaloni e alle tv sotto forma di
pubblicità. Questo forse spiega perché, dopo il crollo epocale di Genova,
stampa e tg non riuscivano proprio a ricordare il nome del concessionario che
avrebbe dovuto garantire la sicurezza del Ponte Morandi e che, mentre si
cercavano cadaveri, feriti e superstiti fra le macerie, favoleggiava di
“costanti monitoraggi”. Molto meglio puntare il dito contro il fulmine, la
pioggia, il traffico, la fatalità, il governo che è lì da due mesi, i 5Stelle
che avevano osato fidarsi dei comunicati di Autostrade sulla granitica
resistenza del ponte e opporsi al progetto faraonico della “Gronda” (che
costerebbe, se va bene, 5 o 6 miliardi e soprattutto non sostituirebbe il Ponte
Morandi, fermo restando che l’alternativa a un ponte pericolante è un ponte
solido, non una grande opera inutilmente cara). (…).
sabato 18 agosto 2018
Riletture. 08 «Se Salvini andasse al Viminale».
Tratto da “Salvini
ministro subito” di Marco Travaglio, pubblicato su “il Fatto Quotidiano”
del 18 di agosto dell’anno 2015: (…). …Renzi dovrebbe prendere seriamente in
considerazione la proposta di Salvini: nominarlo ministro dell’Interno per tre
giorni, durante i quali il leader leghista promette di risolvere una volta per
tutte il problema dell’immigrazione. Non ci venga a dire che non può farlo
perché il suo è un governo di centrosinistra e Salvini farebbe una politica di
centrodestra: anche il Jobs Act e le altre controriforme renziane (dalla scuola
alla Costituzione, dalla responsabilità civile dei giudici ai reati fiscali)
erano nel programma del centrodestra: una più una meno, non se ne accorgerebbe
nessuno. Ma soprattutto abbiamo come il sospetto che Salvini, se facesse il
ministro per tre giorni (o settimane o mesi o anni), non combinerebbe un bel
nulla. (…). In compenso la sua propaganda sull’immigrazione a colpi di felpe, ruspe
e talk show che l’ha portato sopra il 15% nei sondaggi, messa alla dura prova
dei fatti si scioglierebbe come calippo al sole e la Lega tornerebbe là dov’era
venuta: nelle valli bresciane, bergamasche e trevigiane, col suo endemico 4-5%.
La fortuna di Salvini è che qualunque cosa dica alla pancia, alle viscere e ai
genitali degl’italiani meno alfabetizzati non avrà mai la possibilità di essere
sperimentata per vedere l’effetto che fa. E nessuno ha la memoria così lunga
per ricordare che, negli 11 anni in cui la Lega governò, occupando ministeri
chiave per la sicurezza come l’Interno e la Giustizia, gli immigrati
continuarono a entrare in Italia imperterriti e incontrollati. Senza contare
che: la legge Bossi-Fini fu la più clamorosa sanatoria di irregolari (oltre 700
mila) mai vista; il ministro Maroni finanziò – come tutti – i campi rom; il
devastante regolamento Dublino-2 (poi esteso ad altri paesi nella terza
formulazione) fu siglato nel 2003 dal governo Berlusconi-2 con dentro il Carroccio;
la decisione di bombardare la Libia di Gheddafi nel 2011 fu assunta dal
Berlusconi-3 con l’ok della solita Lega. Se Salvini andasse al Viminale,
dovrebbe fare i conti con le norme italiane ed europee, ma soprattutto con i
numeri e le realtà che – a chiacchiere – può serenamente ignorare. Intanto non
c’è nessuna “invasione” che giustifichi lo stato d’emergenza, nazionale o
padano. Nel 2014 sono sbarcati in Italia 170 mila migranti, nei primi 7 mesi
del 2015 circa 100 mila: quasi altrettanti. L’Italia ne ha lasciati fuggire dai
centri di accoglienza 170 mila, un po’ perché è vietato usare la forza per
costringere all’identificazione chi si rifiuta,un po’ perché ci conviene
chiudere un occhio, anzi due: i fuggiaschi varcano la frontiera per raggiungere
i paesi del centro e nord Europa. I quali ce ne hanno rispediti al mittente 12
mila: in base a Dublino-3, qui sono sbarcati e qui devono restare. Perciò chi
parla, oggi, di potenziare rimpatri ed espulsioni obbliga l’Italia a
identificare tutti i migranti e dunque a tenersene molti più di quanti ne tiene
oggi, e anche di quanti vogliono restare (la maggioranza preferisce proseguire
verso Nord). Ormai quasi la metà dei nuovi arrivati hanno diritto di asilo
perché fuggono da guerre e persecuzioni, dunque non c’è altra soluzione che
accoglierli. Poi c’è l’altra metà, quella di chi si vede respingere la domanda
d’asilo: questi sì vanno rimpatriati, ma le procedure di identificazione e di
esame delle richieste sono lente (nessuno spontaneamente dice da dove viene, quanti
anni ha e come si chiama; chi non ottiene asilo ha diritto di fare ricorso; e i
tribunali sono intasati da processi più importanti). Così nei tempi morti i più
si rendono irreperibili e scampano al rimpatrio forzato, sempre ché le forze di
polizia – lardellate di tagli di organico e di fondi – abbiano i mezzi per
organizzarlo. Quest’anno gli ordini di espulsione sono stati 18 mila, di cui
solo 8500 eseguiti e quasi 10 mila rimasti lettera morta. Come tutti i grandi
problemi italiani, anche l’immigrazione – di per sé irrisolvibile – potrà
essere governata e disciplinata solo quando avremo uno Stato efficiente. Cioè
quando avremo uno Stato. Matteo Bandello, novelliere del ’500, racconta che
nell’estate 1526 Giovanni dalle Bande Nere, impegnato nell’assedio di Milano,
decise di mettere alla prova Niccolò Machiavelli, fresco autore del trattato
Dell’arte della guerra. E lo sfidò a dare una dimostrazione pratica delle sue
geniali strategie militari sul campo di battaglia. Messer Niccolò, bravissimo
con la penna ma un po’ meno con la spada, si imbranò per due ore sotto il sole
cocente senza riuscire neppure a disporre i 3 mila fanti “secondo quell’ordine
che aveva scritto”, tra le risate della truppa ansiosa di andare a pranzo. Poi
Giovanni interruppe l’esperimento e, levatogli il comando e l’imbarazzo,
provvide personalmente a ordinare i soldati “in un batter d’occhio con l’aita
dei tamburini… con ammirazione grandissima di chi vi si trovò”. Poi, dopo
pranzo, invitò lo scrittore a narrare “una delle sue piacevoli novelle”,
richiamandolo al suo vero e unico mestiere. E dimostrando così – annota perfido
Bandello – “quanta differenza sia da chi sa e non ha messo in opera ciò che sa,
da quello che oltra il sapere ha più volte messo le mani, come dir si suole, in
pasta, e dedutto il pensiero e concetto de l’animo suo in opera esteriore”. E
lì si trattava del padre del Principe, non del nipote di Bossi. È una vera
fortuna per Matteo Salvini che Matteo Renzi non conosca Matteo Bandello.
venerdì 17 agosto 2018
Sullaprimaoggi. 17 «Chieda scusa, ministro!».
Ha scritto il professor Alberto Asor Rosa – in “Vita da prof, non pensione d’oro” –
sul quotidiano la Repubblica del 14 di agosto 2018: (…). Questi autentici e
irrimediabili analfabeti che ci governano, - parole poche e sommarie, sintassi
intollerabile, anfanare d’insulti e proterve battute - hanno in mente qualcosa
di ben preciso, che è la cancellazione di tutta la storia italiana precedente,
con le sue categorie, le sue culture, le sue tradizioni, i suoi protagonisti,
la sua memoria. Offendere e umiliare fino in fondo chi ne è stato, bene o male,
protagonista, significa favorire l’avvento di una nuova stagione, in cui tutte
le élite, di ogni natura, verranno fatte fuori una dietro l’altra. Hanno
cominciato con professori universitari, magistrati, continueranno con i
giornalisti, gli uomini della televisione, i liberi professionisti, i tecnici
dell’industria, ecc. ecc. Se potessero ora, dopo l’attacco alle “ pensioni
d’oro”, abolirebbero d’un tratto le Università: come mai non è venuto ancora in
mente al duo Grillo- Casaleggio che anche la ricerca e l’istruzione di livello
superiore si potrebbero fare, estraendone a sorte i protagonisti? Si eviterebbe
il rischio, da parte loro, di superstiti voci di elaborazione e di protesta. Anche
questa per me è una conferma. Esiste un verbo ispirato alla piatta omogeneità
della massa, che verrà applicato fino in fondo, se non si troverà il modo di
fermarli. Di seguito il testo parzialmente tratto da "Ministro Salvini ora l’ha capito? La
’ndrangheta fa soldi al nord" di Roberto Saviano, pubblicato
sul quotidiano la Repubblica del 14 di agosto 2018: (…). Chieda
scusa, ministro, in nome di un partito che ha governato nei territori
settentrionali maggiormente infiltrati dalle mafie senza mai chiudere le porte
al potere criminale nel Nord Italia. Lo faccia per tutti gli anni in cui il suo
partito ha negato l'esistenza delle mafie al Nord, credendo fosse un fenomeno
nato da terroni corrotti e incivili, circoscritto all'arretrato Meridione. Per
anni lei in prima persona e il suo partito avete commesso il più pericoloso dei
crimini: colpevolizzare indistintamente l'intero Sud significava isolare la
parte sana che era la parte maggiore, rendendo difficilissimo riconoscere il
problema. E mentre vi esibivate in un profluvio di accuse e insulti verso i
"terroni tutti mafiosi", marchiati come portatori di corruzione e
sperperatori di denaro pubblico, distoglievate l'attenzione dalla vera
questione mafiosa che era tutta di natura economica e ben lontana dal Sud.
Chieda scusa per aver criminalizzato tutti i meridionali per anni, mentre
l'imprenditoria settentrionale stringeva accordi con imprese controllate da
'ndrangheta, camorra e cosa nostra. La vostra incompetenza non vi faceva vedere
che i soldi delle mafie meridionali andavano in soccorso delle imprese del
Nord. Mentre tutto questo accadeva lei e i suoi parlavate di
secessionismo attaccando i meridionali che studiavano nelle università
settentrionali, che lavoravano nelle fabbriche lombarde, piemontesi, che
costruivano condomini in Emilia Romagna. Chieda scusa. (…). Sono ambiziosi
questi 'ndranghetisti del Nord, tanto che nel 2009 il boss Carmelo Novella,
capo della 'ndrangheta in Lombardia, venne ucciso per le sue mire secessioniste
(eh sì, anche la 'ndrangheta ha avuto il suo periodo secessionista): compare
Nuzzo voleva che l'organizzazione lombarda, potentissima sul piano economico,
divenisse indipendente rispetto alla casa madre di San Luca e si era messo a
distribuire cariche senza il consenso della base calabrese. Tutto questo lo
ignora, come ignora la maggior parte di ciò di cui parla apprendendolo per
sentito dire, lo stesso metodo approssimativo lo usa sulle mafie. Si
ricorderà le fiaccolate leghiste contro il soggiorno obbligato dei boss al
Nord, considerato l'origine di tutti i mali, il vettore dell'esportazione del
virus criminale, ignorando completamente che la potenza mafiosa al Nord
risiedeva nell'interlocuzione politica e imprenditoriale, terreno fertile indispensabile
per l'attecchimento delle mafie. Per anni l'antimafia leghista è stata questo,
una lotta contro il soggiorno obbligato, già allora considerata da molti
giudici solo una battaglia ideologica. La Lega faceva affari con quelli che
considerava "invasori" e dietro al grido di "Roma ladrona"
faceva sparire 49 milioni di rimborsi elettorali. 49 milioni di soldi pubblici.
Come sono stati spesi? Segua le condanne e le inchieste giudiziarie, la Lega
quei soldi li ha riciclati grazie alla mediazione di Romolo Girardelli, uomo
della cosca De Stefano di Reggio Calabria, i soldi sono finiti in paradisi
fiscali a Cipro e in Tanzania. Ma proprio in quel frangente lei, ministro, ha
capito che la caduta giudiziaria dei vecchi dirigenti della Lega poteva
favorirla, ma aveva bisogno di allargare il consenso. D'improvviso, quei
meridionali ladri e mafiosi che insultavate sono tornati utili perché con i
voti del solo Nord non si può governare tutto il Paese. Pecunia non olet, e
neanche i voti puzzano. Nemmeno quelli dei meridionali. Non deve aver causato
poco disorientamento nella base questo cambio di rotta, che però è stato
colmato prontamente sostituendo il vecchio nemico con uno nuovo: fuori i
meridionali, dentro gli immigrati. Ora deve sapere che le mafie non hanno paura
dei suoi tweet, l'unica cosa che temono è la luce. Luce sui loro affari, luce
sul loro potere. E lei o non conosce o mente sapendo di mentire.
giovedì 16 agosto 2018
Sullaprimaoggi. 16 “I dieci anni che hanno diviso il mondo”.
Tratto da “I
dieci anni che hanno diviso il mondo” di Ettore Livini, pubblicato sul
quotidiano la Repubblica del 9 di agosto dell’anno 2017: (…). Lo tsunami dei subprime ha
travolto tutto e tutti il 9 agosto 2007 senza guardare in faccia nessuno e
infischiandosene dei confini. Quel mattino – complice uno scarno comunicato di
Bnp-Paribas che formalizzava ciò che tutti sapevano («la liquidità sui mercati
è evaporata») – le banche hanno smesso all’improvviso di prestarsi soldi a
vicenda. Fed e Bce sono intervenute d’urgenza con un’iniezione di contanti da
125 miliardi in 24 ore (86 milioni al minuto) per evitare che la finanza
globale andasse in tilt. E da allora non hanno mai smesso di stampare moneta
per esorcizzare un remake del 1929. Qualche vittima collaterale, ovviamente,
c’è stata: Lehman Brothers è fallita, Grecia, Irlanda, Spagna e Portogallo sono
state salvate dal corto circuito dei debiti sovrani grazie a 535 miliardi di
aiuti, l’Islanda è andata in bancarotta, Europa e Stati Uniti hanno messo sul
piatto 5.900 miliardi – la somma dei Pil di Francia e Germania – per puntellare
gli istituti di credito. E 10 mila persone, calcola il British Journal of
Psychiatry, si sono suicidate per motivi economici. Il salvataggio però è
(quasi) andato in porto lasciandoci in eredità un mondo a tre velocità.
Qualcuno non ha mai smesso di correre: il Pil della Cina, ad esempio, è balzato
dell’85% dal 2007. Le vittime più robuste hanno sofferto poco: gli Usa son
tornati a crescere già dal 2009, il prodotto interno lordo tedesco – malgrado
un paio di anni in rosso – ha messo assieme dal 2007 un bel +5,5%. E il valore
dei listini mondiali, crollato a 31 mila miliardi di dollari nei giorni più
bui, è più che raddoppiato ora a 77 mila miliardi, più del Pil di tutto il
pianeta. La grande finanza, risorta dalle sue ceneri, gode ottima salute:
banche d’affari e big del credito – gli “untori” del crac salvati dai soldi dei
contribuenti – macinano utili come negli anni d’oro e al netto delle norme più
rigide imposte da Barack Obama (quella riforma Frank-Dodd che ora Donald Trump
vuole smantellare) se le sono cavata con poco: zero condanne o quasi, nessuna
licenza cancellata e 150 miliardi di dollari di multe per manipolazione del
mercato. Noccioline per chi come gli istituti Usa ha realizzato nel 2016
profitti record per 171 miliardi di dollari, 25 in più di dieci anni fa. Il
“grande freddo” invece deve ancora finire per i Paesi più deboli e indebitati
come l’Italia che faticano a metabolizzare le scorie della crisi. La cartella
medica del Belpaese nel 2017 è quella di una nazione in convalescenza. E in
condizioni molto peggiori di quelle in cui si trovava prima di Lehman e delle
fibrillazioni dello spread. Un dato parla per tutti: dieci anni fa gli italiani
che vivevano in povertà assoluta per l’Istat erano 2,42 milioni. Ora sono 4,7,
il doppio. Il nostro tasso di disoccupazione nel giorno dell’annuncio di
Bnp-Paribas era del 6,2%, ora è dell’11,3%. Negli Usa, per dire, è tornato al
4,3%, esattamente lo stesso livello di allora, a Berlino è calato dal 9% al
5,7%. (…). …Mario Draghi e il suo provvidenziale intervento a favore dell’euro
hanno fatto da paracadute ai nostri guai, schiacciando i tassi e regalandoci un
“tesoretto” extra: nel 2012 l’annus horribilis dello spread, l’Italia aveva
pagato 83 miliardi di euro di interessi sul debito – lo scorso anno il conto è
stato di 66, 13 in meno. Il Paese delle cicale non è riuscito però a sfruttare
questa manna piovuta dal cielo della Bce: il debito pubblico ha continuato a
salire senza soste. Il 9 agosto del 2007 ogni neonato tricolore nasceva con
sulle spalle un’esposizione di 28.556 euro. Chi viene al mondo oggi invece
parte con una zavorra lievitata a 36.800. La crisi, come in un circolo vizioso,
ha finito per autoalimentarsi: il reddito disponibile degli italiani è crollato
del 10% in 10 anni e fatica ancora a rialzare la testa. Un decennio fa solo il
15% delle famiglie doveva mettere mano ai risparmi per far quadrare i conti di
casa. Oggi sono il 25%. In tanti, obtorto collo, sono stati costretti a
smettere di pagare le rate di mutui e prestiti. Risultato: le sofferenze nette
delle banche sono salite dai 15 miliardi di euro del 2007 ai 77 di oggi, mettendo
altra polvere negli ingranaggi dell’economia. A due lustri da quel 9 agosto
nero, nessuno in Italia ha davvero voglia di festeggiare. Il Pil nazionale,
certifica Banca d’Italia, tornerà a livelli pre-crisi solo nel 2019. Cinque
anni dopo l’Europa che conta.
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