Da “Se la
politica perde se stessa” di Christian Salmon, pubblicato il 30 di settembre
dell’anno 2016 sul quotidiano la Repubblica: Jorge Luis Borges evoca, in uno
dei suoi testi più famosi e divertenti, una certa enciclopedia cinese secondo
cui gli animali si dividono in: «a) appartenenti all’Imperatore, b)
imbalsamati, c) addomesticati, d) maialini da latte, e) sirene, f) favolosi, g)
cani randagi, h) inclusi nella presente classificazione, i) che s’agitano come
pazzi, j) innumerevoli, k) disegnati con un pennello finissimo di pelo di
cammello, l) eccetera, m) che fanno l’amore, n) che da lontano sembrano
mosche»… Ho ripensato a questo testo del grande scrittore argentino osservando
il moltiplicarsi dei candidati alle primarie che designeranno i rappresentanti
dei partiti (…). Ma siamo onesti, non è una specialità francese. Il processo
delle primarie favorisce la moltiplicazione delle candidature in seno a uno
stesso partito, e talvolta perfino in seno a una stessa tendenza. Per dare
conto di una simile proliferazione di candidature analoghe e cercare di
distinguere fra postulanti così simili gli uni agli altri, i media fanno
ricorso a metafore ispirate agli universi e ai riti del combattimento o del
cimento: dalla corsa a ostacoli (ciclistica o ippica) alla competizione
sportiva, al conflitto di archetipi (la forza di Achille, l’astuzia di Ulisse),
allo spettacolo, alla serie tv ( House of Cards, Il trono di spade), o ancora
al cronotopo della marcia con le sue figure associate (la traversata del
deserto, l’ascensione ai vertici, lo stallo, la deriva, la caduta). L’uso della
metafora nel discorso politico non è certo nuovo, ma tende a rafforzarsi quando
gli obiettivi politici o ideologici si fanno meno marcati e il personale
politico, per forza di cose, diventa più omogeneo. Quando più nulla differenzia
un candidato dall’altro sul piano ideologico o politico, bisogna trovare altre
maniere per distinguerli, fuori dall’ambito della razionalità politica, in
universi narrativi e registri linguistici diversi dalla sintassi politica. Nell’accavallarsi
delle candidature, l’elemento che fa la differenza è la freschezza del segno:
lo scintillio di un tweet, di un’immagine o di un semplice accessorio.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
sabato 30 settembre 2017
venerdì 29 settembre 2017
Quodlibet. 20 “Caste e corporazioni”.
Dall’indimenticato Alberto Statera “I
poteri forti si sono estinti ora restano solo caste e corporazioni”,
pubblicato sul settimanale “A&F” del 29 di settembre dell’anno 2014: Torna
il tema sempreverde dei Poteri Forti, che da vent’anni è usato a proposito e a
sproposito, quasi sempre come un alibi per le cose mirabolanti che la politica
vorrebbe fare per il paese, ma che forze potenti e oscure impediscono. Stavolta
il topos è ricomparso nella missione americana di Matteo Renzi, il quale a New
York, davanti alla comunità italiana e al sindaco De Blasio, ha proclamato:
«Per rifare l’Italia siamo pronti, se servirà, a condurre battaglie in
Parlamento e a sfidare i Poteri Forti». Correva l’agosto del 1994 quando
Pinuccio Tatarella, vicepresidente del Consiglio di AN nel primo governo
Berlusconi, aggiornò la vecchia propaganda fascista sul complotto
«demo-pluto-giudaico-massonico» in un’intervista a Dario Cresto-Dina per «La
Stampa», lanciando la locuzione Poteri Forti. «Oltre all’istituto governo-
spiegò- c’è l’istituto extra-governo, la vera ombra, quelli che io chiamo i
Poteri Forti». E non esitò a enumerarli: «La Corte Costituzionale, il Csm,
Madiobanca, i Servizi segreti, la Massoneria, l’Opus Dei, Bankitalia, i gruppi
editoriali, la grande industria privata». Quella lista appare oggi quasi come
una triste congerie di poteri alquanto lesionati: la Corte Costituzionale
emette sentenze che fatica a far rispettare; il Csm annaspa nella crisi della
magistratura; Mediobanca non ha più Cuccia ed è in dolorosa ristrutturazione; i
Servizi segreti tra una riforma e l’altra sono un nido di scandali; la
Massoneria è percorsa da fratelli-coltelli; l’Opus Dei non sembra passare
indenne nel ciclone di Papa Francesco; la Banca d’Italia non stampa più moneta
e non riesce neanche più ad esercitare la moral suasion nei confronti delle
banche; i grandi gruppi editoriali attraversano una crisi senza precedenti; la
grande industria privata non ce la fa ad affrontare le sfide della
globalizzazione. E allora chi sono i Poteri Forti evocati da Renzi, che - se
vogliamo - sembra al momento il potere più forte che ci sia, sommando in sé il
comando del governo e del primo partito italiano?
giovedì 28 settembre 2017
Primapagina. 46 “Frau Angela Merkel”.
Da “Cinismo
e morale di Angela Merkel” di Bernardo Valli, pubblicato sul settimanale “L’Espresso”
del 24 di settembre 2017: La virtù di Angela Merkel è di non
assomigliare a nessuno dei suoi predecessori alla Cancelleria, e a nessuno dei
governanti nelle capitali che contano. L’apparente mancanza di carisma è assai
più efficace del carisma ostentato dagli attori politici nella nostra civiltà
delle immagini. Il suo essere “normale” colpisce di più. Rivedo gli appunti
mentali, i ricordi dei frequenti soggiorni in Germania, in quella comunista
dell’Est e in quella federale e democratica dell’Ovest. Della prima mi è
rimasto impresso il grigiore che avvolgeva anche i monumenti solenni e i
paesaggi fiabeschi. Ed è là che Angela Merkel è cresciuta con il padre pastore
luterano, rinchiuso in una dignità individuale ed esposto a un’ambiguità
politica, e con una più espansiva madre, professoressa di inglese alla quale fu
impedito di insegnare la lingua “capitalista”, in quanto moglie di un
religioso. Nel mondo comunista Angela è stata una studentessa eccellente,
soprattutto in matematica e in russo, prima di diventare una ricercatrice di
fisica, politicamente agnostica. Nella Germania federale, riunificazione in
corso, è stata assorbita con una rapidità sorprendente, quando aveva già
trentasei anni, da una carriera politica che l’ha condotta a governare per tre
legislature, una dopo l’altra, dal 2005, una grande società democratica, e a
essere la donna con più potere nel mondo. La cancelliera non si è mai del tutto
spogliata del grigiore dell’Est: l’ha conservato nell’abbigliamento, nei gesti,
nel linguaggio, nel maquillage. Anche se da quando è cancelliera ha abbandonato
la frangia piatta per dare volume ai capelli, ed è seguita da una persona che
si occupa del suo trucco. Questi accorgimenti non hanno alterato l’esibita
ineleganza, alla quale ha saputo dar classe, trasformandola in una dignitosa
sobrietà che non ha nulla di zitellesco. L’espressione è quasi sempre
sorridente. Ma Angela non ha nascosto le lacrime le rare volte in cui le hanno
rigato le guance. Con le collaboratrici più strette assume atteggiamenti comici
per imitare i personaggi appena incontrati. Dai solenni spazi della Cancelleria
si trasferisce ogni sera al penultimo piano di un edificio che ne conta cinque.
Sulla porta c’è il nome del marito, Prof. Dr Sauer, e i passanti ignorano
perché all’ingresso ci sono due poliziotti. Angela fa spesso la spesa da sola
non lontano da casa, prima della chiusura, nel piccolo supermercato a Mitte,
sulla Mohrenstrasse. Dell’ambiguità dominante nella società comunista ha fatto
una tattica geniale per risolvere problemi complicati. È come se i compromessi
appresi nell’adolescenza, quando ascoltava i genitori criticare il regime in
privato ma adottare uno scrupoloso ritegno in pubblico, le avessero insegnato
che bisogna riflettere prima di parlare. Interviene sempre a proposito, con una
determinazione in cui cinismo e morale sembrano confondersi. Così non ha
risparmiato il suo mentore Helmut Kohl, quando il cancelliere della
riunificazione è inciampato in uno scandalo finanziario; né ha risparmiato il
bavarese Edmund Stoiber, che ostacolava la sua marcia verso la Cancelleria. E
tanti altri sono stati politicamente sconfitti dai suoi garbati, sorridenti
attacchi. In una società politica maschilista come quella tedesca, lei potrebbe
apparire una campionessa del femminismo trionfante. Ma Angela Merkel non si è
mai impegnata molto su quel terreno. Alla vanità degli uomini sa opporre, senza
mai alzare i toni, una tattica che li disarma. È un’immagine che attenua, ma
non contraddice, che rende accettabile la “prepotenza” tedesca. Per i
connazionali è un’inconscia assicurazione e una conferma della riuscita
rivincita sul passato da non dimenticare. La calma, perlomeno apparente, non
l’abbandona mai, e in essa, nella calma esibita, è annidata un’audacia che ha
umiliato più volte la classe politica europea. In particolare quando nel 2015
ha annunciato, da sola, che la Germania spalancava le porte ai migranti. In
quell’occasione ha rianimato il trascurato umanesimo europeo, sfidando la sua
stessa opinione pubblica. Che però non le ha negato a lungo i consensi. Su
quello scottante terreno ha poi saputo anche piegarsi ai compromessi che la
politica imponeva. Ci sono due Merkel (cuore e cervello), che convivono e
creano un personaggio singolare. L’elezione di Donald Trump e l’inquietante
dinamismo di Vladimir Putin le hanno fatto descrivere, ancora unica nel Vecchio
continente, un’Europa che deve contare sulle proprie forze.
mercoledì 27 settembre 2017
Primapagina. 45 “I politici italiani e le tre I”.
Da "Incompe
tanti” di Raffaele Simone, pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 24
di settembre 2017: (…). …le elezioni si avvicinano e gli aspiranti riscaldano i muscoli.
Tra i più tenaci candidati a capo del governo ce n’è uno giovanissimo (31 anni
appena compiuti), facondo, con cipiglio, determinato e ubiquo, ma non
ugualmente solido in quel che un tempo si chiamava “bagaglio culturale”. Dalla
sua bocca escono senza freno riferimenti storici e geografici sballati,
congiuntivi strampalati, marchiani errori di fatto, slogan e progetti
cervellotici (recentissimi l’Italia come smart nation e la citazione
dell’inefficiente governo Rajoy come suo modello), anche quando si muove in
quella che dovrebb’essere la sua specialità, cioè quel mix indistinto di
nozioni e fatterelli politico-storico-economici che forma la cultura del
politico di fila. Inoltre, Luigi Di Maio (è di lui che parlo) non è laureato.
Si è avvicinato al fatale diploma, ma per qualche motivo non lo ha raggiunto.
Nulla di male, intendiamoci: pare che in quel mondo la laurea non sia più
necessaria, neanche per le cariche importanti. Nel governo Gentiloni più di un
ministero è presidiato da non laureati e non laureate: istruzione e salute,
lavoro e giustizia. Se questa non è forse la “prevalenza del cretino”
preconizzata da Fruttero e Lucentini, è di certo la prevalenza dell’ignorante. Infatti
la legislatura attuale ha una percentuale di laureati tra le più basse della
storia: di poco sopra il 68 per cento, un dato che mette tristezza a confronto
col 91 per cento del primo Parlamento repubblicano… (…). I laureati sono pochi,
non solo nel ceto politico ma nel paese, in calo perfino rispetto a quelli del
2000, ultimo anno prima della riforma. L’età media del laureato italiano è
superiore ai 27 anni e la laurea triennale non serve (salvo che per gli
infermieri) a nulla. I giovani che concludono il ciclo di 5 anni (il “3 + 2”)
sono addirittura meno del totale di quelli che vent’anni fa si laureavano coi
vecchi ordinamenti (durata degli studi 4, 5 o 6 anni). Per giunta, per
completare la laurea triennale ci vogliono 4,9 anni, per quella quinquennale
più di 7,4! (…). Le cause? Certamente non sono quelle che ha suggerito, nel suo
intervento a Cernobbio agli inizi di settembre, la non laureata ministra
dell’Istruzione Valeria Fedeli: la colpa dei pochi laureati, ha suggerito (lei
ex sindacalista!), è delle «famiglie a basso reddito», che non trovano più
buoni motivi per spingere i figli a laurearsi. Non ha pensato, non avendolo
frequentato, che invece è tutto il sistema universitario che andrebbe, come le
case abusive, abbattuto e riprogettato. Quindi, se il paese è conciato così,
come possiamo pretendere che il personale politico sia meglio? Ma non è finita.
martedì 26 settembre 2017
Lalinguabatte. 39 “Questo è il tempo della stupidità al potere”.
Scriveva Gustavo Zagrebelsky in “Politica e nichilismo” pubblicato sul
quotidiano la Repubblica del 26 di settembre dell’anno 2013: (…).
Nel nichilismo e nell’autoreferenzialità, nel cerchio chiuso di potere e
denaro, non c’è posto per la politica. C’è posto solo per il cieco dominio che
rifiuta d’interrogarsi sul senso del suo esistere. È puro non-senso. C’è da
stupirsi, allora, se quella che ancora insistiamo a chiamare politica, sempre
meno attragga la maggioranza dei cittadini, coloro che sono fuori del cerchio?
Come suonano vuote, retoriche e ipocrite le invocazioni di un nuovo patto tra
cittadini e politici, senza che si mettano minimamente in discussione le
ragioni di quel divorzio! La democrazia è forma della politica e la politica è
la sostanza della democrazia. Ma, se viene a mancare la sostanza, la forma si
riduce a vuoto involucro, a simulacro ingannatore. (…). …se il potere non si dà
un fine che lo trascende, se le sue leggi non s’identificano con la vita buona
dei cittadini in generale, quale ch’essa sia, non c’è politica e tantomeno ci
può essere democrazia. (…). Nel tempo nostro, non c’è una pòlis, giusta città
per natura e necessità, che a noi tocchi di riconoscere, difendere e
accrescere. Tutto è stato distrutto, tutto è rimesso alle nostre mani e alle
loro cure; tutto deve essere ricostruito. Quando la vita politica non è più un
dato della natura, come l’aria, il suolo e il clima, ma deve essere costruita e
ricostruita, il progetto della giusta città è quella cosa che decidiamo insieme
che debba essere e che chiamiamo “costituzione”. (…). Non c’è verità in queste
parole. I principi e i fini della Costituzione possono essere lasciati stare,
tali e quali sono scritti, per la semplice ragione che li si può ignorare, come
se non esistessero. Che ne è del lavoro come diritto; dei doveri di solidarietà
sociale; dell’uguale dignità di tutti i cittadini; dell’ambiente come
patrimonio comune; della funzione sociale della proprietà; degli obblighi
tributari che devono ispirarsi alla progressività; dei diritti sociali come
l’istruzione, la salute, la protezione dei più deboli? Sono solo esempi. Le
norme che parlano di queste cose tracciano le linee di una “buona città”, quale
abbiamo voluto stabilendo una Costituzione. (…). Quella Costituzione è
stata salvata nel referendum del 4 di dicembre 2016. E come una conchiglia
vuota sta sulla battigia, essa sta lì vuota e svuotata a memento di quanto i “padri”
costituenti avessero pensato e desiderato di realizzare. È che si è al tempo
della politica fatta dagli “stupidi”. Lo sostiene con fermezza “giovanile” il novantaquattrenne
professor Aldo Masullo in una intervista – “Servirebbe
un altro Marx, ma la politica oggi è degli stupidi” - rilasciata ad
Antonello Caporale e pubblicata su “il Fatto Quotidiano” del 15 di settembre 2017:
domenica 24 settembre 2017
Sfogliature. 84 “Le regole nel paese di Alice”.
La “sfogliatura” di oggi è
del 17 di marzo dell’anno 2010. Ci era sembrato, o ci si è solamente illusi,
che quello scenario ben raffigurato in essa si fosse chiuso definitivamente
nella “storia” politica del bel paese. Inutile! Non esiste nulla di più inamovibile
ed immutabile di un certo procedere della nostra “storia” politica. Tanto è
vero che quel protagonista torna prepotentemente ed arrogantemente alla ribalta
immemore - il paese soprattutto - di una condanna definitiva a carico di quel
protagonista per un reato gravissimo quale è la “frode fiscale”. Quel protagonista
attende al momento che una corte di Strasburgo gli restituisca quella “agibilità
politica” in barba ad una sentenza definitiva e ad un reato che l’attesa sentenza
non potrà mai e poi mai cancellare. Quella sentenza lo lascerà sì “colpevole”
restituendolo però all’agone politico azzerando quella “legge Severino” in
forza della quale gli era stata tolta l’eleggibilità. Non un sussulto da parte
della “casta” per l’immondo ritorno, “casta” alla quale tornerà utile l’imminente
pronunciamento di quella corte. Sosteneva Barbara Spinelli ad una domanda di Silvia
Truzzi in una intervista rilasciata su “il Fatto Quotidiano” del 12 di
settembre dell’anno 2013 - “L’obiettivo
di B.: prescrizione politica” -: (…). S. T. Perché sembra una bestemmia dire
che una persona condannata definitivamente per frode fiscale – reato ai danni
dello Stato – non può rappresentare i cittadini in Parlamento? – B. S. Perché è
difficile dire quel che pure è ovvio: questo nostro Stato si definisce a parole
democratico, ma ha perduto la coscienza di essere una democrazia
costituzionale, cioè dotata di una legge fondamentale che garantisce principi
come la separazione dei poteri e, appunto, l’uguaglianza dei cittadini di
fronte alla legge. Scrivevo a quel tempo - che pare essersi magicamente
e sinistramente fermato -:
giovedì 21 settembre 2017
Quodlibet. 19 “Solvitur ambulando”.
Da “Un passo dopo l'altro per ritrovare se stessi” di Arianna
Huffington, pubblicato sul settimanale “D” del 21 di settembre dell’anno 2013: Solvitur
ambulando, camminando si risolve. Questa frase è attribuita a Diogene, il
filosofo greco del IV secolo a.C, in risposta a chi gli chiedeva se il
movimento esistesse davvero. Lui si alzò e cominciò a camminare. «Camminando si
risolve». E i problemi e i paradossi per i quali la soluzione è camminare in
realtà sono tanti. (…). Per Thomas Jefferson, camminare aveva come scopo quello
di sgomberare la mente dai pensieri. «Camminare serve a rilassare la mente»,
scriveva. «Di conseguenza, quando si cammina non ci si deve concedere neppure
di pensare. Conviene piuttosto lasciarsi distrarre dagli oggetti che si hanno
intorno». Per altri, come Nietzsche, camminare era al contrario un'attività
essenziale per il pensiero. «Solo i pensieri che hanno camminato hanno valore»,
scriveva nel Crepuscolo degli idoli. Per Ernest Hemingway, camminare era un
modo per mettere a punto le idee migliori rimuginando su un problema.
«Passeggiavo lungo i quais quando avevo finito di lavorare o quando cercavo di
farmi venire qualche idea», scriveva in Festa mobile. «Mi era più facile
riflettere se camminavo o facevo qualcosa o vedevo gente far qualcosa che
amava». Per Jefferson, camminare era anche «il miglior esercizio possibile»,
mentre per Henry David Thoreau camminare non era soltanto un mezzo finalizzato
a uno scopo, bensì lo scopo stesso: «Ma il camminare di cui parlo non ha nulla
a che vedere con l'esercizio fisico propriamente detto... è, il camminare di cui
parlo, l'impresa stessa, l'avventura della giornata. Se volete fare esercizio,
andate in cerca delle sorgenti della vita. Come è possibile far roteare dei
manubri per tenersi in salute, mentre quelle sorgenti sgorgano, inesplorate, in
pascoli lontani!». (…). Sembra davvero
che non ci sia limite ai problemi che si possono risolvere in questo modo.
Camminare fa bene alla salute, ci mantiene in forma, migliora ogni tipo di
prestazione cognitiva, dalla creatività alla progettazione alla programmazione.
Ma la cosa migliore di tutte è che ci rimette in contatto con noi stessi. E in
questo non c'è nulla di paradossale.
mercoledì 20 settembre 2017
Quodlibet. 18 “Il maestro riluttante”.
Da “Il maestro riluttante” di Massimo Recalcati, pubblicato sul
quotidiano la Repubblica del 20 di settembre dell’anno2013: (…).
Nel nostro tempo la scuola di ogni ordine e grado sembra ridotta ad un
“esamificio”. L’impeto della valutazione vorrebbe imporre scansioni
dell’apprendimento uguali per tutti. Sempre più si sta imponendo una scuola (…)
fondata sul principio di prestazione. Il nostro tempo non coltiva l’ideale di
una scuola autoritaria e disciplinare. Non è più il tempo dove – secondo una
tristemente nota metafora botanica – l’allievo è assimilato ad una vite storta
e l’insegnante ad un paletto diritto e ad un filo di ferro capace di
raddrizzarne la stortura. Il conformismo attuale non è più morale ma cognitivo.
Il nostro tempo non concepisce più l’allievo come una vite storta, ma come un
computer vuoto. L’apprendimento è il riempimento del cervello di file seguendo
l’ideale di un travasamento potenzialmente illimitato di informazioni nella sua
memoria. All’illusione botanica si è sostituita quella tecnologico-
cognitivista: morte dei libri, informatizzazione degli strumenti didattici,
esaltazione delle metodologie dell’apprendimento, accanimento valutativo,
burocratizzazione fatale della funzione dell’insegnante che deve sempre più
rispondere alle esigenze dell’istituzione che non a quella degli allievi.
Attualmente un’altra illusione ha fatto capolino. È l’illusione
dell’insegnante-psicologo che possiamo sintetizzare con il racconto che ho
udito fare da un professore di liceo ad un recente convegno sulla scuola al
quale ho partecipato. Questi si vantava nel suo lavoro quotidiano di lasciare
da parte i contenuti dei programmi ministeriali per dedicarsi a cogliere i
segni di disagio esistenziale dei suoi allievi raccogliendo le loro confidenze
più personali. Mettere da parte lo studio di Aristotele, di Spinoza o di Hegel
per dare voce alla sofferenza dei ragazzi della quale, com’è noto, i programmi
didattici si disinteressano. Quale nuova pericolosa illusione si annida in
questo atteggiamento? L’amore per il sapere – che dovrebbe animare ogni
insegnante – lascia il posto ad una supplenza diretta del mestiere del
genitore. Mentre l’informatizzazione cognitivista della scuola esalta un sapere
senza vita, questa nuova ondata psicologista sembra invece esaltare la vita
senza sapere. Si tratta di due facce della stessa medaglia accomunate da una
stessa fondamentale dimenticanza: l’importanza dell’ora di lezione nel
promuovere l’amore verso il sapere come condizione per ogni possibile
apprendimento. (…). Il compito di un insegnante è quello di generare amore,
transfert erotico, sul sapere più che distribuire sapere (illusione
cognitivista) o mettere tra parentesi il sapere occupandosi della vita privata
degli allievi (illusione psicologista) perché l’alternativa tra la vita e il
sapere è sempre sterile. (…).
martedì 19 settembre 2017
Lalinguabatte. 38 “Di quale amore è capace l´imbonitore?”.
“Odiare i mascalzoni è cosa nobile” osava dire quel tale a nome di Marco Fabio
Quintiliano. Marco Fabio Quintiliano
chi? Boh! In verità Marcus Fabius Quintilianus, bontà sua, fu un facondo
oratore ed un valente maestro di retorica. Nacque in quel di Calagurris Iulia
Nasica nella Spagna Tarraconensis nell’anno del signore 35, cioè da quando si è
cominciato a contare lo scorrere degli anni. Trasferitosi a Roma nell’anno del
signore 68 dopo la nascita dell’uomo di Nazareth, vi esercitò l'avvocatura e
soprattutto incominciò la sua attività di maestro di retorica, con tanto
successo che nell’anno 78 Vespasiano gli affidò quella che può ben dirsi la
prima cattedra statale d’insegnamento. Per gratificarlo ulteriormente
l'imperatore gli accordò un onorario annuo di 100.000 sesterzi, dando così un
segnale concreto sull'importanza dell'arte della retorica nella formazione del
"ceto dirigente" in vista della creazione del consenso. Ecco il
punto. Il consenso. Il consenso dei reggitori della cosa pubblica. Marcus Fabius
Quintilianus non fu persona da poco. Beato lui che visse in altra epoca. Fosse
vissuto al tempo del signor B. venuto da Arcore o al tempo del signor R. M., ovvero,
quest’ultimo, l’uomo venuto da Rignano sull’Arno, a seguito di quella sua
imprudente dichiarazione si sarebbe ritrovato iscritto d’ufficio nel partito
dell’odio, con tutto ciò che ne sarebbe conseguito per la sua carriera e per il
suo benessere psichico e materiale. Visse invece nella agiatezza dei tempi e
trapassò nell’anno del signore 96. In tempo per non soffrire gli affanni dei
giorni nostri! Probabilmente anche a quel tempo si soleva discorrere del
binomio “amore/odio”. Anche a quel tempo, con condizioni materiali e sociali
ben diverse però, lo scontro si sarà consumato, forse molto cruentemente, nella
contrapposizione di quel binomio all’altro binomio “consenso/dissenso” che
qualifica molto meglio l’arte suprema degli uomini, arte che li rende per
l’appunto diversi dal resto del creato animale, che è l’arte della politica.
Sol che a fare la politica non sia l’imbonitore di turno. Trascrivo di seguito,
solo in parte, una interessante riflessione a firma di Adriano Sofri pubblicata
sul quotidiano “la Repubblica” del 25 di marzo dell’anno 2010 col titolo “Amore e odio. Gli slogan sentimentali e il
grado zero della politica”:
lunedì 18 settembre 2017
Quellichelasinistra. 12 “Lavoro, equità, uguaglianza per il futuro”.
“Quellichelasinistra”,
quelli che ostinatamente continuano a pensare che “il lavoro, l’equità, e l’uguaglianza”
siano e rimangano gli obiettivi primari e non barattabili per il futuro degli
esseri umani. Sempre che a quegli obiettivi primari si dia il significato politico
e storico che essi hanno avuto ed hanno tuttora e che hanno permesso il
riscatto di sempre più larghe fasce di esseri umani. Compito difficile ed impari
per “quellichelasinistra”,
che pensano tutt’oggi non doversi barattare quegli obiettivi primari con quant’altro
le sirene del capitalismo finanziario offrono allettando pericolosamente le
moltitudini. Ha scritto Curzio Maltese sull’ultimo numero del settimanale “il
Venerdì” in edicola dal 15 di settembre che “il compito storico della
sinistra consiste nel far partecipare il popolo al discorso pubblico con la
stessa intelligenza critica che il potere riesce a indirizzare verso temi
irrilevanti. Quando la sinistra adotta invece gli stessi slogan della destra,
pensando così di strappare più consensi, dichiara la propria resa culturale e
alla fine, di solito, arriva il fascismo. Un tema, questo, dell’irrilevanza
che la “sinistra” consegue allorché scimmiotta logiche e parole che non dovrebbero
essere nel suo bagaglio critico e storico. Su tali temi politico-lessicali
ritrovo una interessante intervista di Tiziana Testa al professor Ilvo Diamanti
pubblicata sul quotidiano la Repubblica del 18 di settembre dell’anno 2013. Titolo
di quell’intervista: “Lavoro, equità,
uguaglianza il nuovo lessico per costruire il futuro”. Sono trascorsi quattro
anni da quella pubblicazione e di passi indietro la “sinistra” ne ha
disinvoltamente e colpevolmente compiuti parecchi. Affermava il professor
Diamanti, analizzando il “lessico” a quel tempo imperante, che «è vero,
il lavoro vince, ma non stacca le altre opzioni. E in generale c’è una grossa
dispersione nelle risposte. Segno che manca un’identità definita». (…). «Non
c’è il cleavage, la frattura identitaria, che divide la società sul piano
politico» (…). «Lo vediamo anche nelle nostre ricerche: 7 italiani su 10
dichiarano senza difficoltà di essere di destra o di sinistra, ma poi non sanno
riempire di contenuti queste due definizioni».
Va bene, la parola lavoro non
stravince nel sondaggio. Ma ha avuto il 10 per cento dei voti, tra una trentina
di diverse opzioni. Quanto c’entra la crisi? «Sicuramente ha un peso. Ma conta
di più la storia. Il lavoro ha a che fare con la tradizione della sinistra: per
il suo legame con il movimento operaio, per la sua radice laburista. Il
problema è che oggi lavoro vuol dire tutto e niente, non solo perché manca ma
perché può essere nero, precario, intermittente. Una volta era fonte di
reddito, ma anche di riconoscimento e di gerarchia sociale. Era collegato a una
comunità reale. Oggi non è più così. Anche per questo la sinistra ha tanti
consensi tra i pensionati».
mercoledì 13 settembre 2017
Primapagina. 44 “Giustizia: noi siamo noi e voi non siete un cazzo”.
Da “Ad
Renzos” di Marco Travaglio, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 9 di
settembre 2017: (…). Il poliziotto che intercetta o il pm che indaga non potrà più
riportare il testo letterale delle conversazioni: solo riassuntini con parole
sue (mesi di lavoro in più). Ti ha colpito di più una frase? Parafrasa quella.
E pazienza se altre erano più importanti: scegli tu, a capocchia, quello che
preferisci o è più consono con la tua carriera. Se c’è di mezzo il premier o un
ministro o un generale da cui dipende il tuo futuro, riassumi i saluti iniziali
e i convenevoli finali e lasci perdere il resto, ché ti conviene. Se invece ti
vuoi inchiappettare un innocente che non conta nulla, calchi un po’ la mano,
fraintendi un paio di frasi e quando fra qualche anno qualcuno leggerà il testo
integrale sarà troppo tardi: in ogni caso, potrai sempre dire di aver capito
male, mentre oggi, se metti in bocca a qualcuno ciò che non voleva dire né
pensare, c’è lì la trascrizione testuale a sbugiardarti e a salvarlo. Non
vorremmo essere nei panni degli avvocati che dovranno impugnare arresti,
sequestri e perquisizioni fondati su “contenuti” di conversazioni che non
conoscono, o eccepire su frasi sentite male o interpretate a rovescio: a che si
attaccheranno, al riassuntino? Complimenti vivissimi al ministro, che per
fortuna ha scritto una norma-barzelletta illiberale, inattuabile e
incostituzionale: almeno c’è speranza che non entri mai in vigore. Complimenti
anche per la marchetta “ad Renzos patrem et filium”, che manda in fumo
l’inchiesta Consip vietando l’uso del Trojan per intercettare i cellulari. Ma
qui risponderanno i pm, sempre più disarmati. Noi siamo più affascinati dalla
nuova mansione che Orlando ha pensato per la nostra categoria: non informare i
cittadini nel modo più preciso e dettagliato possibile, ma riassumere i
riassunti dei pm, a loro volta basati sui riassunti della polizia giudiziaria. Il
riassunto del riassunto del riassunto, la parafrasi di terza mano. Come nel
“Telefono senza fili”, dove il primo concorrente sussurra una frase
all’orecchio del secondo, il quale sussurra quel che ha capito all’orecchio del
terzo, e così via, finché l’ultimo declama una frase ormai priva di senso
compiuto e di attinenza con quella di partenza. Nel nostro caso, l’ultimo è il
cittadino, che non ci capirà più nulla: che poi è il vero obiettivo della
“riforma”. Già in cantiere presso il ministero della Giustizia un ciclo di
corsi di formazione per il personale, a base di dizionari dei sinonimi e
vaselina, onde evitare che espressioni troppo forti ed esplicite turbino la
serenità dell’attività giudiziaria, politica ed elettorale (guai a ripetere le
stesse parole intercettate, come nel “Taboo”). Qualche esempio. Piero Fassino
parla con Giovanni Consorte della scalata Unipol-Bnl: “E allora, siamo padroni
di una banca?”. Per aggirare il testo e dare il contenuto, poliziotto e pm
dovranno arrampicarsi sugli specchi: “Il segretario Ds manifesta un certo
interesse all’acquisizione dell’istituto di credito”. E morta lì: per maggiori
informazioni, rivolgersi a Orlando. Dopo una “cena elegante” a base di
bunga-bunga, B. telefona al suo pappone personale Gianpi Tarantini: “La patonza
deve girare”. Che dire, per renderne il contenuto? “Il premier in carica esorta
l’interlocutore ad attivare la rotazione dell’organo sessuale femminile”.
lunedì 11 settembre 2017
Quodlibet. 17 “Il male più grande si chiama povertà”.
Da “Il male
più grande si chiama povertà” di Eugenio Scalfari, pubblicato sul
settimanale L'Espresso dell’11 di settembre dell’anno 2016: (…). I
poveri ci sono sempre stati. Per secoli e secoli non erano soltanto poveri ma
addirittura schiavi considerati come cose. Ma loro, i poveri, gli schiavi, i
deboli, gli esclusi confinati ai margini della vita sociale, come consideravano
se stessi? Volevano evadere da quella condizione? E i ricchi e i potenti come
realmente considerano la povertà? Quanto agli uomini di religione, di qualunque
religione ma quella cristiana in particolare, che considerano la povertà come
il male peggiore delle nostre società, come spiegano la decisione del Creatore
onnipotente e d’un Creato che sopporta le sofferenze dei poveri e la
persistenza d’un tale fenomeno che il Dio consente e che ormai ha assunto le
caratteristiche dell’eternità? Questo problema dei poveri, ogni giorno
ricordato e ogni giorno affrontato, è stato parzialmente risolto nel mondo
comunista, guidato dallo Stato sovietico dal 1917 fino alla caduta del muro di
Berlino del 1989. Poco meno d’un secolo, durante il quale alcune diseguaglianze
avevano attenuato l’ideale d’una eguaglianza sociale con la nascita d’uno
stuolo di oligarchi di Stato che dirigevano i gangli dell’economia sovietica e
ne ricavavano notevolissimi benefici economici. Il grosso della società era
comunque egualitaria: un grande paese di potenza politica mondiale, ma povero
d’una povertà diffusa. La povertà dunque non era scomparsa affatto ma, salvo i
rari casi suddetti, erano pressoché scomparse le diseguaglianze. C’era però un
prezzo che tutti pagavano: la totale rinuncia alla libertà. Non accadeva
soltanto in Urss, ma quello ne era l’esempio più evidente. Del resto era stato
così anche durante l’impero degli zar: il grosso del paese era contadino e i
contadini erano “anime morte”, poveri e privi di libertà. Altrove, in Europa e
in tutti i paesi liberaldemocratici c’era la libertà, c’erano ricchi e ceto
medio, ma la povertà non era affatto scomparsa e aveva ancora il ceto più
numeroso anche se lo Stato interveniva a mitigare il disagio. Del resto
l’invocazione ad aiutare i poveri è quasi universale. Come mai? È molto
difficile rispondere a questa domanda. Se si limitasse ad alcune aree
geografiche economicamente represse e socialmente dominate dal potere dei
“rais” sarebbe comprensibile e l’aiuto dei paesi ricchi sarebbe doveroso. Ma il
fenomeno esiste ovunque, i poveri continuano ad essere diffusi ovunque.
Naturalmente ne varia il livello che dipende dalla condizione media di quella
società. In Italia, tanto per fare un esempio che ci riguarda da vicino, il
livello di povertà comincia da un reddito annuo di ottomila euro. A cinquemila
la povertà ti prende già alla gola. Sotto i cinquemila (si parla di reddito
familiare, non individuale) siamo all’accattonaggio. E quanti sono quelli che
vivono con cento euro al mese, cioè con 1200 euro l’anno? Diciamo un milione di
famiglie, cinque persone a famiglia tra adulti vecchi e bambini. Qui non siamo
più nemmeno all’accattonaggio ma alla morte, civile, sociale ed anche fisica. Nei
paesi civili a questo livello non si arriva ma «sora nostra morte corporale» è
dietro l’angolo. Gli Stati intervengono, le associazioni religiose anche e il
volontariato è presente. Ma dunque la povertà esiste da secoli e da millenni e
(ve lo dico all’orecchio) anche la schiavitù sia pure modernamente intesa,
esiste ancora, forse è perfino aumentata. Perciò aiutate i poveri e gli
esclusi. Il vero nostro male è questo. E se Dio non se ne occupa vuol dire che
non c’è oppure è in tutt’altre faccende indaffarato. Gesù di Nazareth era
povero e morì in croce.
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