Da “Quando
il risentimento diventa populismo” di Ezio Mauro, pubblicato sul quotidiano
la Repubblica del 10 di aprile 2017: (…). …è la nuova figura politica universale
che attraversa l'Occidente dall'America all'Europa, il risentimento che ovunque
si mette in proprio, la rabbia sociale che dappertutto si fa politica,
l'outsider che infine prende il potere: o forse no, ma a lui basta aver
scalciato l'establishment, buttandolo giù dal trono. Il risentimento è
appagato: per il resto, si vedrà. Poiché non abbiamo un nome nuovo, per
descrivere quest'ultima creatura della mondializzazione usiamo vecchie
categorie che hanno contrassegnato fenomeni antichi, antipolitica,
contropolitica, ribellismo, populismo. Ma invece quel che accade è figlio
legittimo della postmodernità, anzi del suo Big Bang finale tra la società
aperta come mai avevamo conosciuto e la crisi più lunga del secolo. Ad una ad
una, come dopo i terremoti, cadono le vecchie case della politica novecentesca
- i partiti - si spalancano i grandi contenitori culturali di tradizioni e di
valori, come destra e sinistra, ripiegano e si confondono le stratificazioni
sociali che davano identità collettiva, coscienza di classe, appartenenza, con
un disegno di società che concedeva una dinamica interna e contemplava il
conflitto. Tra le macerie, cammina lui: il forgotten man, scartato nella
crescita, ferito con la crisi, deluso dalla rappresentanza. Poiché ciò che è
accaduto nell'ultimo decennio ha fiaccato le istituzioni, ha reso impotenti i
governi, ha allontanato gli organismi internazionali e ha finito addirittura
per indebolire la democrazia, il forgotten scopre che nell'improvvisa fragilità
del sistema la sua rabbia può diventare un surrogato della politica, potente.
Non riesce a proporre soluzioni, a disegnare progetti e a farsi governo. Ma
basta per presentare a chiunque il saldo di tutto ciò che non va, per chiedere
conto di un mondo fuori controllo, per dare una colpa universale alla classe
generale che ha esercitato il comando fino ad oggi, chiudendosi in se stessa
per tutelarsi autoriproducendosi. Il risentimento non è in grado di fare una
rivoluzione, creando una nuova classe dirigente. Ma è capace di realizzare la
delegittimazione di un potere debole svuotandolo, per poi affidare l'energia
degli istinti a chi vuole rappresentarla incarnandola in una performance
elettorale. Gli istinti naturalmente non governano: ma questo è un problema di
domani, intanto oggi si scalcia. Che cos'è tutto questo? Marco Revelli, (…), lo
chiama "Populismo 2.0" (…), dando una declinazione modernissima a una
storia ricorrente, ogni volta che un leader cerca il cortocircuito del rapporto
diretto con i cittadini esaltati a popolo mentre vengono ridotti a folla. Ma se
un tempo si presentava come malattia infantile del meccanismo democratico
nascente, una specie di ribellione degli esclusi, oggi il populismo testimonia
invece la patologia senile di una democrazia estenuata e svuotata da processi
oligarchici, e diventa una rivolta degli inclusi, che avvertono la vacuità di
questa inclusione inconcludente. Il populismo dunque ritorna come sintomo di un
indebolimento dell'organismo democratico, una febbre della rappresentanza
malata. Abbiamo detto che il fenomeno è ricorrente. Ma oggi per Revelli siamo
davanti a un populismo di terza generazione dopo l'esperienza russa
dell'Ottocento, il qualunquismo italiano del dopoguerra: alla crisi della
democrazia si unisce una crisi sociale che declassa il ceto medio, atomizza
l'universo del lavoro, inverte l'ascensore sociale. Il risultato è una rottura
non tanto nel linguaggio politico - come si dice di fronte al politicamente
scorretto - ma nel codice di sistema fin qui riconosciuto da maggioranze e
opposizioni, con la parlamentarizzazione del consenso. Il parlamento viene anzi
contrapposto alla piazza, le istituzioni vengono denunciate come la cattiva
politica che le deforma, come se il contenitore fosse responsabile del
contenuto e la regola dovesse dividere la colpa con chi la viola, per
accrescere la feroce gioia del rogo iconoclasta che brucia senza distinguere. Una
rivolta della plebe, l'"oclocrazia" evocata da Polibio "quando
il popolo ambisce alla vendetta"? Ma la massa oggi in movimento, avverte
Revelli, è stata a lungo un anello forte del sistema, fattore di consenso e
stabilità, altro che plebe.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
mercoledì 31 maggio 2017
martedì 30 maggio 2017
Primapagina. 41 “Renzi e B. trattano protetti dal pensiero unico”.
Da “Renzi e
B. trattano per il governo protetti dal pensiero unico”, intervista di
Silvia Truzzi al professor Paul Ginsborg pubblicata su “il Fatto Quotidiano” del
29 di maggio 2017: Se gli domandi di quest’ennesima ritrovata giovinezza di Berlusconi, ti
risponde: “Questo ritorno al passato mi fa impressione. Anche molta rabbia. La
stampa italiana non ha imparato la lezione, purtroppo. E nemmeno la borghesia,
che si è omologata. L’unica posizione che ha cittadinanza ormai è quella
neoliberista”.
(…). Professore, ci sarà di nuovo un governo
di larghe intese con Pd e Forza Italia con i Cinque stelle all’opposizione? «Sì,
credo sia più che possibile. Non dimentichiamoci che Berlusconi non ha mai
fatto mistero di considerare Renzi il suo figlio politico. E ricordiamo anche
la visita pastorale di Renzi ad Arcore: allora tutti lo criticarono, ma lui
come sempre tirò dritto per la sua strada. Mi colpisce molto che non esistano
in circolazione foto dei due insieme. E dire che il segretario del Pd è sempre
pronto ad abbracciare tutti. Questa “clandestinità” mi fa pensare che stiano
già trattando alleanze di governo. Il leader della sinistra non mette insieme
il ceto medio, cerca di separarlo. Ed è molto grave».
Perché? «Il ceto medio in Italia è stato
trattato come carne da macello dalla politica, usato e abbandonato. Oggi
rappresenta una parte di società arrabbiata, per via della disoccupazione e
dell’impoverimento. A queste persone nessuno sa dare risposte, nemmeno i Cinque
Stelle. Non credo che potranno farlo neanche D’Alema e Pisapia. Il ceto medio è
stato indebolito, e non solo economicamente. Intendo anche da un punto di vista
culturale, sociale e politico. I partiti hanno usato alcune rivendicazioni e
alcuni movimenti finché ha fatto loro comodo. Ricordo che Fassino si presentò
alla manifestazione dei girotondi, dove i partiti non erano invitati, e si mise
a firmare autografi. Oggi quando D’Alema cita “i comitati del No al referendum
di Zagrebelsky” fa la stessa cosa: un’operazione opportunista e senza
contenuti. Invece di riconoscere che esiste una società civile che va
incoraggiata a crescere, cerca di risucchiarla. È un grande segno di miopia».
Come potrà un elettore del Pd che per lustri
ha fatto la guerra a Berlusconi votare il suo partito sapendo che probabilmente
si alleerà proprio con Berlusconi? «Io vivo in Toscana e vedo quotidianamente
quanta accondiscendenza c’è verso il leader, verso tutto ciò che viene
dall’alto. Lo spirito critico difetta. Ma non stupiamoci, è un atteggiamento
che viene da lontano: “Compagni, è cambiata la linea!”, il caro vecchio
centralismo democratico. Penso che ci siano elementi di ubbidienza cieca,
passati dai padri ai figli».
Perché gli intellettuali tacciono? «Dirò una
cosa antipatica: in tanti settori – della cultura, alla giustizia e alle
professioni – tutto passa attraverso il potere. Se il Pd esercita un dominio
vasto, si aspetta e ottiene fedeltà. In Inghilterra le risorse che la politica
può distribuire sono molto meno».
Tutti tengono famiglia? «L’altra sera ho
detto a mio figlio maggiore: “Ben, ho sbagliato tutto. Avrei dovuto essere un
padre ‘clientelare’, utilizzare i miei contatti per sistemare i miei figli”. E
lui mi ha detto: “E’ vero, babbo. Così se Bossi aveva il Trota, io potevo
essere il tuo Merluzzo”. Scherzi a parte, credo che la situazione sia
tristemente e banalmente questa: la maggioranza teme di inimicarsi chi ha – o
anche potrebbe avere – il potere».
martedì 23 maggio 2017
Primapagina. 40 “Parole&politica a prescindere”.
Da “Saldi di
fine stagione” di Marco Travaglio, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 23
di maggio 2017: (…). 1. “Sono assolutamente serena”. È una premessa fissa, la clausola
di stile di ogni inquisito che si rispetti. Dire “sono assolutamente innocente”
non si usa più da un pezzo: troppo compromettente. Meglio “sereno”, più
flessibile e aperto a ogni esito processuale. E poi mettiamoci nei suoi panni:
una che stava con Schifani e ora sta con Alfano con l’aggettivo “innocente”
rischia sempre di offendere qualcuno. E prima o poi potrebbero chiedergliene
conto: come sarebbe a dire “innocente”? Vuoi sottintendere che noi non lo
siamo? Del resto, se una è innocente, non si vede perché si iscriva a FI, poi a
Ncd, poi ad Api: che sia un’infiltrata? Si fa presto ad attirare le peggiori
maldicenze, tipo il sospetto di concorso esterno in onestà. Lo dice pure Cetto
La Qualunque al figlio: “Non mettere il casco in moto, sennò ti prendono per
ricchione”. 2. “Io non ho agito nell’interesse di una persona, ma di un’intera
categoria”. Già. Peccato che poi un armatore le abbia fatto il regalino e gli
altri no. E le leggi andrebbero approvate gratis: altrimenti è corruzione.
Almeno per il Codice penale. Invece il Parlamento suole coprire con l’immunità
i politici che si vendono le leggi, in nome dell’insindacabilità per i “voti
espressi”. Anche quando sono a pagamento. Quindi ci sono buone speranze che il
Senato neghi ai pm l’autorizzazione a usare le intercettazioni della Vicari che
ringrazia Morace per il gentile pensiero. Tipico caso di giustizia a
orologeria, marca Rolex. 3. “Ho letto che sarei accusata di corruzione. Ma di
che parliamo? Quell’orologio riguarda rapporti con le persone che uno ha a
prescindere. Dalle intercettazioni si capisce benissimo si tratta di un regalo
di Natale”. In effetti chi di noi non ha un armatore che, a ogni Natale, gli
regala un Rolex a prescindere? Chi è senza Rolex di Morace scagli la prima
pietra. 4. “Poi sì, io l’ho chiamato per ringraziare. Ma se lo avessi fatto per
corruzione, secondo lei avrei ringraziato?”. Ecco, noi dobbiamo confessare una
certa ignoranza sul galateo della corruzione: pensavamo che, alla consegna
della mazzetta o del Rolex, fosse buon uso o buona educazione ringraziare.
Invece la Vicari, che deve avere una certa esperienza in materia, ci spiega che
in caso di corruzione è severamente sconsigliato ringraziare. A costo di
passare per maleducati, si incassa in silenzio. I tangentisti alle prime armi
prendano buona nota: mai dire grazie, altrimenti è corruzione. È un modo per
sfoltire il sovraccarico di procure e tribunali: se il corrotto non ringrazia
il corruttore, è inutile aprire un’inchiesta, perché quella non si chiama
corruzione, ma regalo di Natale. Anche fuori stagione. 5. “Morace ha
risparmiato 7 milioni di tasse… Ecco, non le pare che rispetto a questo il
valore del Rolex fosse un po’ sproporzionato? Un po’ poco, intendo”. In effetti
ultimamente i corruttori hanno il braccino un po’ corto (e figurarsi
l’umiliazione della Vicari nell’apprendere che, per il suo Rolex, Morace aveva
chiesto “un modello economico” e “col massimo sconto”). Anche perché ormai i
politici sono in saldo: vengono via per un tozzo di pane.
lunedì 22 maggio 2017
Primapagina. 39 “Banca Etruria”.
Da “Banca
Etruria, la scintilla della crisi” di Andrea Greco, sul settimanale “A&F”
del 15 di maggio 2017: (…). Perché finisce nei guai. La crisi di
Banca Etruria è stata una sorpresa solo per chi guardava altrove, o non voleva
vedere. L'istituto era arroccato e protetto tra le mura e il campanile di uno
storico feudo Dc dai tempi di Amintore Fanfani (il nipote Giuseppe è stato
sindaco con il Pd fino al dicembre 2014). Ma la "banca dell'oro", 186
sportelli, 1.800 dipendenti e una dozzina di miliardi di attivi, era al disopra
delle fazioni politiche, in un sommo intreccio di poteri cattolico-agricoli e
laico-massonici per un trentennio governati dal presidente massone Elio
Faralli, che lasciò nel 2012 a 87 anni. Sotto il suo regno la crescita per
acquisizioni aveva ingigantito anche i crediti, specie quelli ad amici e colleghi
amministratori: al momento della risoluzione 13 ex amministratori e 5 ex
sindaci dell'istituto erano affidati per 185 milioni, che si erano accordati
senza lesinare, originando 198 posizioni di fido finite tra le sofferenze e gli
incagli. I problemi del credito, già notevoli dal 2010, erano nelle cure di
Emanuele Boschi, fratello di Maria Elena assunto in banca a fine 2007 come
analista e salito tra i dirigenti fino al marzo 2015, quando uscì poco prima
del dissesto. Insieme agli insider, i principali beneficiari dell'eccesso di
generosità di Banca Etruria sono stati il gruppo Sacci, storica azienda
cementiera esposta per 70 milioni; l'Acqua Marcia di Francesco Bellavista
Caltagirone (60 milioni); il cantiere Privilege Yard, che doveva costruire un
panfilo da 127 metri, tra i più lussuosi al mondo e di cui fu costruito solo il
modellino; realizzazioni e bonifiche del gruppo Uno a erre (10,6 milioni);
immobiliare Cardinal Grimaldi (11,8 milioni). Ispezioni, crisi e governo. La
situazione inizia a scappare di mano dall'inizio del 2012: Banca Etruria
licenzia l'agenzia Fitch, che le ha assegnato un merito di credito BB+
("spazzatura") proprio per le sofferenze "a un livello doppio
rispetto alla media del sistema". Anche la Banca d'Italia, da mesi in
pressing, si fa sotto: a fine 2012 chiede al management, dopo un'altra
ispezione, "adeguate misure correttive per sanare la gestione" e di
"integrarsi in un gruppo più solido". Il bilancio 2012 porta i segni
dell'emergenza, con crediti svalutati per oltre un miliardo. Gli organi sociali
cercano rimedi (benché la vigilanza poi li sanzionerà anche per la loro
"sostanziale inerzia"). A metà 2013 Etruria aumenta il capitale per
100 milioni, ed emette con il beneplacito della Consob bond subordinati per
120, rifilati alla clientela minuta; una fetta dei 275 milioni che due anni
dopo saranno azzerati dal bail in. Il governo Renzi, che ad Arezzo è di casa,
inizia ad affannarsi per la mina Etruria, con cauti sondaggi istituzionali.
Come risulta da diverse ricostruzioni e fonti, i problemi dell'Etruria, che è
banca popolare, sono anche uno degli sproni perché Renzi acceleri nel progetto
di riforma del credito cooperativo, che viaggia in parallelo e passerà per
decreto nel gennaio 2015: ma la moral suasion aveva indotto Etruria a portarsi
avanti, trasformandosi in spa sei mesi prima. Togliere di mezzo il principio
"una testa, un voto" avrebbe facilitato la vendita dell'istituto,
ormai necessaria. E proprio tramite ambienti del governo s'era cercato un
abboccamento tra Arezzo e il fondo del Qatar, poi chiamato in causa due anni
dopo per investire nel Monte dei Paschi (sempre invano). Tentativi disperati di
fusione. Nel 2014 la situazione patrimoniale degenera: Bankitalia forza al
cambio dei vertici e di metà del cda Etruria (è il passaggio in cui Lorenzo
Rosi diventa presidente e Pier Luigi Boschi suo vice, senza deleghe).
Mediobanca e il legale Paolo Gualtieri sono nominati dei consulenti per trovare
compratori. La banca d'affari si occupa solo dei rapporti con tre fondi
stranieri: si parla degli israeliani Hapoalim e Bank Leumi, ma nulla si muove.
Più concreto il dialogo con Bper, altra popolare in storici rapporti con
Arezzo, e con la popolare di Vicenza. Solo la vicentina entra nella "data
room", che presuppone lo scambio di informazioni confidenziali.
domenica 21 maggio 2017
Scriptamanent. 99 “Il popolo non spiega, decide”.
Da “Il
popolo non spiega, decide. Ma c’è la legge” di Bruno Tinti, pubblicato su “il
Fatto Quotidiano” del 21 di maggio dell’anno 2015: (…). Il primo esempio conosciuto
di giudici popolari risale al 30 d.c. (ma forse al 33), quando il popolo decise
di liberare Barabba e mandare a morte Gesù. Non si sa perché i cittadini di
Gerusalemme emisero questa sentenza, il popolo non spiega le sue decisioni. Poi
arrivarono i Romani e il loro monumentale contributo alla vita civile: la legge
– un insieme di regole che ogni cittadino doveva rispettare –, il processo – un
rito per accertare se la legge era stata violata –, e la sentenza – dove si
spiegava perché il giudice aveva deciso ciò che aveva deciso. Non tutti
adottarono questo sistema. I Paesi anglosassoni preferirono quello utilizzato
per mandare a morte Gesù. L’idea era che un cittadino doveva essere giudicato
da altri cittadini. Naturalmente un processo del genere non è un giudizio tecnico,
assomiglia a quello che ognuno di noi esprime sui fatti giudiziari di cui viene
a conoscenza: un’opinione, più o meno meditata. E, naturalmente, non è prevista
una sentenza ma solo un “verdetto”: colpevole-innocente, torto-ragione,
risarcimento danni sì-no, se sì x milioni. Non si deve spiegare, proprio come
avvenne quando si decise di mandare a morte Gesù: il popolo non spiega, decide.
Il controllo popolare sulla correttezza delle decisioni giudiziarie avviene
dunque in modi diversi. Affidandosi alla saggezza del popolo (impersonato dalla
giuria) nei sistemi di Common Law; e attraverso la motivazione delle sentenze
nei sistemi derivati dal diritto romano. In questo secondo sistema i controlli
sono ripetuti più volte perché ci sono almeno tre gradi di giudizio e ognuno
termina con una sentenza che, di nuovo, spiega il perché della decisione. Nei
sistemi di Common Law non esiste l’Appello e il giudizio davanti alla Corte
Suprema è solo eventuale. Il risultato di queste differenze è evidente: tutti
possono sapere per quali motivi Amanda Knox è stata assolta; nessuno sa perché
O. J. Simpson è stato assolto o perché Mike Tyson è stato condannato. Nonostante
evidenti incongruenze, molti sistemi di origine romana hanno ceduto alla
seduzione di una giustizia “amministrata dal popolo”; e però, non fidandosi di
6 o 12 cittadini di quasi certa ignoranza giuridica e di possibile mancanza di
cultura e di buon senso, hanno optato per un sistema misto, il cosiddetto
scabinato. Uno o più giudici professionisti e un certo numero di giudici
popolari, tutti insieme a decidere; ai giudici professionisti l’obbligo di
scrivere la sentenza. Il sistema in realtà è pessimo: i giudici popolari non
sono in grado di gestire i problemi di diritto che i processi presentano e sono
spesso tentati di sovrapporre alle regole giuridiche la loro opinione quanto
alla sussistenza del fatto e dunque alla colpevolezza o meno dell’imputato. Ne
deriva una inevitabile subordinazione dei giudici popolari ai giudici
professionisti, talvolta l’emarginazione di una minoranza che non vuole sentire
ragioni, raramente la prevalenza di una decisione non condivisa dai giudici
togati (che poi però devono scrivere la sentenza). Il sistema non cambierà.
Anzi, la convinzione sempre più diffusa che le sentenze debbano rispondere a
principi di carattere etico, politico o economico e non semplicemente al
diritto, presumibilmente porterà a riforme sempre più sbilanciate verso il
giudizio sommario, il consenso popolare, perfino l’ordalia. Ha camminato sui
carboni ardenti, quindi è innocente sarà la prova decisiva.
sabato 20 maggio 2017
Scriptamanent. 98 “Finché i nemici sono questi magistrati”.
Da “Finché i
nemici sono questi magistrati caro Renzi, non mi preoccuperei troppo” di
Enrico Deaglio, pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 20 di
maggio dell’anno 2016: Nella commedia politica italiana, spesso
alla ricerca di Salvatori, dopo i comici, gli industriali, i teppisti, oggi - maggio
2016 - il palcoscenico è dei magistrati. I magistrati italiani si sono
autodefiniti la «morale superiore», lo «spirito della Costituzione» e ci
tengono molto a farlo sapere. Ha cominciato Piercamillo Davigo, che 24 anni fa
fu un pm della famosa Mani Pulite, quella - parole sue - che doveva «rovesciare
l`Italia come un calzino»; quella che - sempre parole sue - scoprì la «madre di tutte le tangenti», ma
curiosamente non si accorse delle straordinarie attività criminali di Silvio
Berlusconi, che pure aveva sotto casa. Il nuovo capo dell`Associazione
nazionale magistrati, dichiaratamente di destra, è stato eletto coi voti dei
magistrati di sinistra e ha immediatamente attaccato il primo ministro Renzi.
Attento!, gli ha detto, ti curo! Io lo so bene, «la politica» è il centro della
corruzione. E la stanerò, intercettando i vostri respiri e addirittura mandano
agenti provocatori nelle sedi di partito. Forte, Davigo. Diventerà un politico
anche lui, come il suo vecchio collega Antonio Di Pietro? Speriamo di no; la
biografia dell`eroe del Molise purtroppo grottesca - dovrebbe farlo riflettere.
Non sembra che la lezione sia stata imparata da un altro pm, Luigi De
Magistris, diventato sindaco di Napoli sull`onda delle sue «coraggiose
inchieste» sulla corruzione politica. Furono decisamente poca (e oscura) cosa,
ma l`uomo è diventato un personaggio carismatico e ora, in un pubblico comizio,
ha scandito: «Reni, ti devi cacare sotto! Càcati sotto, Renzi!». Probabile che
venga rieletto. Non poteva mancare la voce della potente magistratura
siciliana. Roberto Scarpinato, procuratore generale di Palermo, uno degli
ultimi della «stagione d`oro» (è stato il pm che, pur avendo in mano il
testimone del bacio Andreotti-Riina, riuscì a perdere il processo del secolo,
mentre il depistaggio sulla morte di Borsellino va avanti da sé), ha fatto
sentire alta la voce contro la politica renziana che «organizza la reingegnerizzazione
oligarchica del potere liberista e globali sta a danno del sovranismo». Parole
così forti, da far apparire ragionevoli i tempi di Antonio Ingroia, che si era
limitato a proporsi come leader politico nazionale a capo di «Rivoluzione
Civile». Erano tempi, peraltro, in cui esisteva ancora l`Antimafia. Vabbè, però
i magistrati parlano con le sentenze, scolpite nel marmo. Scolpireste questa?
Nei rivoli dell`ormai decennale processo kolossal sulle malefatte sessuali
dell`ex premier (da cui, peraltro, lo stesso è stato assolto), il tribunale di
Bari ha condannato gli imputati perché fornivano a Berlusconi «donne che
acconsentivano a soddisfarne anche le più perverse pulsioni erotiche
addirittura attraverso la consumazione di rapporti saffici». Ahi, ahi. Come si
consumano i rapporti saffici? Conclusione. Se fossi Renzi… Se questi sono i
nemici - per adesso, almeno - non mi cacherei sotto.
mercoledì 17 maggio 2017
Paginatre. 87 “La fine del secolo americano”.
Da “La fine
del secolo americano” di Pankaj Mishra, pubblicato sul quotidiano la
Repubblica del 16 di maggio 2017: (…). La storia globale degli ideali
americani post-1945 non è stata ancora scritta, né esiste un’analisi
sociologica esauriente che abbia per oggetto gli intellettuali americani e
americanofili. Stiamo solo emergendo, storditi, dai decenni frenetici
post-guerra fredda in cui, come scrive Don DeLillo, «la spettacolare ascesa del
Dow Jones e la velocità di internet sono stati di invito per tutti a vivere
permanentemente nel futuro, nello splendore utopico del capitale cibernetico ».
È chiaro da tempo però che l’americanizzazione del mondo, iniziata negli anni
Quaranta con progetti di modernizzazione nazionale e accelerata nella nostra
epoca puntando a livello globale sui mercati non regolati, ha rappresentato
l’esperimento ideologico più ambizioso mai intrapreso nell’era moderna. Si
fondava sul presupposto che la popolazione del resto del mondo dovesse adottare
la ricetta di progresso apparentemente valida in America, qualunque essa fosse
(la libera impresa, il liberalismo del New Deal, il consumismo, la
finanziarizzazione, l’individualismo neoliberale); e veniva accolta con ampio e
fervido entusiasmo da non americani, come i consiglieri dello Scià di Persia,
gli esperti favorevoli al libero mercato in India e i componenti della
redazione dell’Economist. Gli adepti, alleati e facilitatori
dell’americanizzazione, dalla Grecia all’Indonesia, erano anche di gran lunga
più influenti dei loro rivali socialisti e comunisti. I linguaggi americani
della modernità finirono per corrispondere al senso comune della vita
intellettuale pubblica in tutti i continenti, alterando radicalmente la
concezione che gran parte della popolazione mondiale nutriva della società,
dell’economia, della nazione, del tempo e dell’identità individuale e
collettiva. (…). I giardini d’Europa sembravano prossimi alla chiusura e le
élite americane si consideravano le vere eredi dei valori apparentemente
occidentali della ragione, della libertà e della democrazia, che le nazioni
europee, rovinate dal massacrarsi a vicenda in patria ed esercitando con
brutalità il potere imperiale all’estero, non potevano più credibilmente
rivendicare. (…).
martedì 16 maggio 2017
Lalinguabatte. 34 “Demagogia e l’arte dell’adulare”.
“(…).
…rispetto ai primitivi, noi oggi disponiamo di una psiche più ampia. Chiamo
psiche l’intervallo tra la pulsione che mi induce all’azione e l’azione. Non
più odio quindi uccido, non più desidero
e quindi stupro, non più voglio e quindi rubo. Ma questo solo a livello
individuale. A livello collettivo quello che è proibito a livello individuale
diventa praticabile a livello di Stati, Nazioni, Religioni perché, in questi
casi, gli individui sono portati a difendere la loro appartenenza, la loro
identità, la loro fede, non personalmente, ma attraverso i governi che eleggono
e che li rappresentano. (…). Le nostre procedure democratiche hanno trasferito
dagli individui alle nazioni e dalle nazioni alle civiltà i sentimenti più
primitivi e bestiali che nel tempo antico albergavano solo nell’animo
dell’individuo. Il risultato è che oggi abbiamo individui abbastanza riflessivi
e Stati o addirittura civiltà scatenate. Gli effetti sono catastrofici e sotto
gli occhi di tutti. (…). Ne concludo che l’individuo, che ha guadagnato la
riflessione capace di dominare la violenza dei sentimenti, è impotente di
fronte alla collettività che, attraverso la retorica ideologica
dell’appartenenza, dell’identità, della civiltà da difendere, scatena la
violenza delle emozioni senza concedere spazio alla riflessione. E questo (…)
attraverso il gioco delle parole (…). L’informazione televisiva fa il resto.
Mescolando le parole e diffondendo il fraintendimento, incanala l’odio individuale
che c’è in ciascuno di noi e lo fa diventare odio collettivo che, a questo
punto, diventa innocente: le forze del bene contro le forze del male. Così
convertita, la nostra coscienza è tranquilla, i mali invece restano
incalcolabili”. Così scriveva il professor Umberto Galimberti nel Suo “L’odio di Stato” pubblicato sul
quotidiano “la Repubblica” del 21 di febbraio dell’anno 2004, che ho appena trascrivo
in parte. Lo “scarto” è tutto lì. Evidente. Lo “scarto” è tra la
pulsione ancestrale, lo spirito animale che ci domina, ed il dominio che di quella
pulsione riusciamo a mettere in atto “un istante prima di…”. A
ripensarci, dopo tanti anni oramai, ritorna vivido alla mia mente il ricordo di
F.R., un mio alunno che a quel tempo mi fu carissimo assai, di quelli dipinti dall’istituzione
come “elementi”
– sì, proprio così definiti e tratteggiati nei profili dei giudizi, “elemento”
come si definiscono nella tavola chimica di Mendeleev - “difficili”, a “rischio”,
ma in verità, ricordo bene ancor’oggi, un adolescente pieno di spirito aperto,
sveglio, bisognevole d’affetto, di aiuto, di quell’aiuto che tante volte
l’istituzione scuola gli negava anche al suo minimo necessario. E fu F.R. che,
in una pausa delle nostre quotidiane attività, ebbe a dirmi, di fronte alla
scolaresca tutta: - Professo’, ma quanta pazienza avete avuto con me! -. Lui
scambiava per pazienza ciò che l’essere educatori ci richiedeva ed imponeva
costantemente e senza misura minima alcuna. È che, anche nella difficile arte
dell’educare, diveniva necessario la riduzione di quello “scarto” poiché le nostre
stesse pulsioni primordiali abbisognavano d’essere costantemente individuate,
imbrigliate, domate ed incanalate per quelle vie trasversali per le quali
giungere dolcemente e diritti all’animo ed alla mente di chi ci era stato
affidato dalla sorte. Ed è alla difficile conquista ed assimilazione profonda dell’imperativo
“un
istante prima di..”, conquista ed assimilazione profonda con intransigenza imposte prima di
tutto a noi stessi, a me stesso, che ispiravo la mia azione educativa,
uniformavo la mia prassi quotidiana, affinché dalla conquista di quella
consapevolezza e da quell’esercizio derivassero poi, nei miei giovanissimi alunni,
delle persone nuove, persone nuove che fossero capaci per l’appunto di fermarsi,
dinanzi al baratro di quello “scarto”
individuato e segnalato dal sopracitato dotto Autore. È che allora mi
sorreggeva, come non mai, l’intima convinzione che per quella via passasse
anche la possibilità di costruire nel Paese una democrazia che fosse più compiuta,
una democrazia che, con un’aggettivazione che mi è molto cara, definirei senza
mezzi termini “resistenziale”.
lunedì 15 maggio 2017
Scriptamanent. 97 “Ricordando Beha”.
Un altro “scriptamanent” anomalo. Ma necessario,
giusto per rendere un ultimo omaggio ad Oliviero Beha. Da “Elogio di una presa per il naso generale” di Oliviero Beha, pubblicato
su “il Fatto Quotidiano” del 14 di gennaio dell’anno 2015: Ci vuole un fisico bestiale,
cantava con enfasi Luca Carboni… ma anche delle menti particolari, aggiungerei
io, almeno per dare vita alla diffusa sceneggiata in corso nel Paese, a spese
di un’opinione pubblica polverizzata e grazie a un concorso mediatico di fronte
al quale non sai se ridere o piangere. Prendiamo il presidente uscente, proprio
oggi a quel che pare, giacché si è appena concluso il semestre Ue di presidenza
italiana. Di cui pare essersi accorto soprattutto Renzi. Napolitano ha detto a
una bambina che ormai al Quirinale “si sentiva un po’ in prigione”. Non male
per un capo di Stato rieletto per la prima volta nella storia della Repubblica
sul Colle. L’avranno obbligato? Mah… Di sicuro è persona attenta alla vita
delle istituzioni, secondo l’opinione prevalente. Siamo sicuri? Per esempio,
randomizzando qua e là, vi risulta che negli ultimi due mesi abbondanti
Napolitano abbia tuonato per l’elezione del quindicesimo giudice della Corte
costituzionale, monca da un po’ (l’effetto Violante…)? No: eletta in quota
sinistra Silvana Sciarra, come quattordicesimo membro, del quindicesimo se ne
sono tutti dimenticati, Napolitano compreso. Peccato: anche perché la Consulta
è quella strana congrega che ha giudicato per la prima volta nella nostra
storia incostituzionale la legge elettorale suina, il “Porcellum”, grazie al
quale siedono in Parlamento quelli che hanno eletto Napolitano per due volte, e
adesso ne stabiliranno il successore. Niente, se ne fregano: sia di quello che
sentenzia la Corte che del suo Plenum incompleto. Ma su questo tutti zitti, nel
disinteresse universale. Così come non abbastanza si parla del mutamento (o
addirittura dello stravolgimento) delle caratteristiche presidenziali avvenuto
durante il novennato. C’è chi sostiene che è grazie a tale mutamento
presidenzialistico e alla figura di prestigio sul Colle che l’Italia non è
andata a picco. Fantastico ragionamento: se non è a picco così, tra i record di
disoccupati e il debito pubblico, che deve accadere di peggio? Si ragiona per
Napolitano come per Renzi: se non loro, chi? È un giochetto buono all’inizio,
che però ora perde i pezzi perché Napolitano evapora e Renzi arretra. Forse era
un giochetto cieco… Come non sembra che a nessuno urga una legge sui partiti,
che dia loro trasparenza e identità organizzativa e funzionale, in termini di
diritto. Si va avanti alla becera, come nelle primarie di Genova che non sono
state poi così diverse nello stile, nel clima e negli effetti da tutte le
ultime altre, a partire da quelle che hanno battezzato Renzi. Vota chiunque,
meglio se dietro compenso… Significa nebulizzare la politica attraverso la
dissoluzione dei suoi principali agenti, appunto i partiti, ma di questo come
della legge elettorale incostituzionale se ne fregano. Nel pasticcio generale
che canzona e raggira il Paese, la strage di Parigi oltre alla questione
islamica sub specie terroristica evidenzia una cosuccia come la libertà
d’espressione, di satira ecc. Che accada in Italia, in fondo alle classifiche
relative di “Reporters sans frontieres”, fa di nuovo sghignazzare. Sarebbe il
caso che ognuno tra i media si guardasse in casa, al di là di ragionamenti
sulla “opportunità” o la “licenza” (in luogo della libertà) della vignetta XY.
E rendesse operativa la frase di Brecht, “la verità è concreta”. Censura,
parziale o totale, autocensura, condizionamenti del mercato e del potere…?
Tutto giusto, ma ripartiamo dalla quotidianità, e dalla (in)dipendenza
dell’informazione, esattamente come si dovrebbe fare per la sentenza ignorata
della Consulta su come lorsignori sono finiti in Parlamento. Altrimenti, duole
dirlo, è tutta una presa per il naso. Forse ci vorrebbe una vignetta su questo,
non solo sulla barba del profeta…
domenica 14 maggio 2017
Capitalismoedemocrazia. 61 “Caos, unica risposta al mondo che non cambia”.
Ha scritto Curzio Maltese nella Sua consueta
rubrica “Contromano” pubblicata sul settimanale “il venerdì di Repubblica”
del 21 di aprile 2017 nel “pezzo” che ha per titolo “Se il Caos è l'unica risposta al mondo che non cambia”: (…). L’uomo
di mezza età che incontri alla posta, che per metà della vita ha salito la
scala sociale e da dieci anni scende gradino dopo gradino, sempre più
velocemente. Il giovane che non vede differenza fra destra e sinistra perché
non c’è stata differenza fra governi di destra e di sinistra nel breve corso
della sua vita. L’insegnante che è stato declassato a operaio della scuola e
l’operaio ridotto a precario e il precario diventato da poco disoccupato. A
questi dimenticati e sconfitti della globalizzazione, i governi, i partiti, i
sindacati, i giornali e le televisioni in tutti questi anni hanno raccontato
che il mondo non si può cambiare ed è inutile farsi illusioni. Mercato,
finanza, Unione europea e Bce e Fmi funzionano secondo leggi di natura
immutabili. There is no alternative, come diceva la signora Thatcher. E siccome
loro, gli sconfitti, non riescono ad adattarsi e non possono sperare di
cambiare nulla, rimane una strada sola: distruggere tutto. Con l’unico
strumento di dignità del quale ancora dispongono, il voto. Brexit e Trump hanno
vinto non perché evocassero chissà quali passioni o speranze, ma perché i loro
avversari incarnavano uno status quo ormai talmente intollerabile da spingere
milioni di persone a tifare per il caos. (…).Non è forse l’Europa stessa il
fantasma che si aggira per l’Europa? La risposta dei vincenti finora è stata di
colpevolizzare gli sconfitti. Ora non funziona più. È questo il punto:
della inadeguatezza oramai conclamata di quella che un tempo veniva definita la
“classe dirigente” della sinistra. Una “classe dirigente” che ha avuto la
sprovvedutezza ed il torto supremo di far credere alle moltitudini della
ineluttabilità del trionfo del liberismo più selvaggio. A quale prezzo? Quel prezzo
lo ha ben delineato, per quanto riguarda il nostro mondo privilegiato di
Occidentali, Curzio Maltese nelle annotazioni Sue sopra riportate. Di ben altro
spirito è stata la risposta fornita al lettore S.P. di quel settimanale da
parte di Michele Serra nel numero ultimo del 12 di maggio.Scrive l’opinionista
che il
capitale è scappato, la ricchezza finanziaria è pari sette volte il Pil
mondiale, i “padroni” con la marsina e le tute blu sono categorie sociali che,
in Occidente, hanno un peso socio-politico oramai abbastanza relativo. Il problema
è come recuperare il bottino andando a cercarlo a Wall Street e nella City.
Iscriviti a:
Post (Atom)