Da “La fine
dell’auto di massa? Ora non è più fantaeconomia” di Enrico Deaglio, su
"Il Venerdì di Repubblica" del 16 di ottobre 2015: La
storia funziona meglio – è più drammatica, ma anche più grottesca – se si parte
con un fermo immagine dell’attimo prima. Settembre 2015: Volkswagen è ancora
Das Auto, lo splendido sole della meccanica tedesca che illumina il mondo. Le
sue automobili perfette, scattanti, pulite sono il simbolo vincente della
Germania, frutto della sua disciplina, base della forza politica della signora
Angela Merkel e del peso economico-morale che esercita. Davvero, il popolo ha
imparato ad amarle, le auto tedesche. E poi, il «cigno nero», lo tsunami; arma
del delitto, una piccola stringa di bit ben nascosti nel codice informatico
della centralina ha truccato i dati delle emissioni di gas di 11 milioni di
Volkswagen, Audi, Skoda, Seat che montano i più popolari motori diesel (per non
parlare dei camion). L’ad Martin Winterkorn, che aveva portato VW al successo
planetario, virilmente ammette e si dimette; il mondo, intorno a lui, crolla.
Lo chiamano Dieselgate, lo paragonano al crollo del 1929, oppure al crack di
Lehman Brothers, si calcola che a VW costerà 100 miliardi di euro. Ma
basteranno? O è semplicemente l’inizio della fine dell’automobile? C’è infatti
un dato che pesa più delle multe o delle class action. Lo «sconforto da
tradimento», il disamore. L’affabile concessionario, la pubblicità ecologica,
quelle famigliole felici col cane che partivano per il weekend. Tutti
mentivano: non volevano che si sapesse che le auto diesel buttano nell’aria gas
nocivi e che la sgassata che si prende in faccia il ciclista fermo al semaforo
non è per nulla innocua. La Volkswagen, con il suo dolo, ha associato, in
milioni di persone, l’idea dell’auto ai polmoni, alle bronchiti, al cancro.
Significativo che gli altri costruttori non abbiano immediatamente risposto
«noi siamo puliti»: forse non potevano. Un giorno i nostri nipoti, guardando le
immagini della vita quotidiana nel 2015, con tutto quel traffico e quell’aria
pesante, reagiranno come reagiscono i nostri figli alla vista di Humphrey
Bogart o Lauren Bacall con la sigaretta incollata al labbro. Ma come facevano a
non sapere che si stavano suicidando? E ora? Il nuovo management Volkswagen
tristemente dichiara che la permanenza in vita del colosso non è scontata:
devono riconquistare la fiducia dei consumatori e, nello stesso tempo, contestare
l’entità del danno provocato, una mission quasi impossible per la macchina del
popolo, che pure durava dagli Anni Trenta ed era sopravvissuta alle macerie del
1945. Possibile che si spenga ora? In realtà, non sarebbe la prima volta che il
mondo volta le spalle ad un’industria considerata amica.
Il nucleare, per
esempio, cominciò a spegnersi dopo i disastri di Chernobyl e Three Mile Island.
Il tabacco, a seguito delle scoperte scientifiche e di una vigorosa campagna
d’opinione, ha visto dimezzare (in Occidente) il numero dei consumatori. E dire
che Big Tobacco era una delle lobby più potenti del pianeta, in grado di
imporsi ai politici, negare la verità, farsi le proprie leggi. Per cercare di
capire il futuro dell’automobile, la California è un buon punto di
osservazione. È qui che è scoppiato il Dieselgate, è qui che si sono sviluppati
i più potenti movimenti ambientalisti, è qui che l’ambiente è sacro e che il
fumo è stato praticamente messo al bando. Il Center for Tobacco Control
Research and Education dell’Università della California è stato una delle punte
di diamante della lotta contro Big Tobacco; Jonathan Polansky, uno dei suoi
analisti, conosce bene quanto sia stata ardua quella campagna. Verrà un giorno
in cui l’auto smetterà di essere l’inevitabile appendice della nostra vita,
così come lo era la sigaretta fino a pochi anni fa? Risposta. «Le date
importanti per il crollo del consumo sono legate a fatti specifici. Il 1970,
con il primo rapporto del Surgeon General sul fumo e cancro ai polmoni; il
1988, con la prova scientifica dei danni provocati dal fumo passivo e la
nascita del movimento dei non fumatori, diventati poi una forza politica. Di
qui il raddoppio dell’aumento delle tasse sulle sigarette, il permesso di
vendere la Nicorette senza ricetta, il divieto di pubblicità e di fumo nei
luoghi pubblici». Inutile dire che Big Tobacco ha fatto di tutto per contestare
i risultati della ricerca scientifica. Già nel 1954, ai primi dubbi medici,
reagirono con una colossale campagna – si chiamava Parole Chiare e comparve
nello stesso giorno su 448 giornali – citando indagini indipendenti che
escludevano qualsiasi legame del fumo con malattie polmonari. Ci sono voluti 50
anni, ma alla fine il fumo uccide o chi fuma avvelena anche te hanno avuto la
meglio su Marlboro Man, le fiancate delle auto di Formula Uno, i sex symbol del
cinema e i lobbysti nei due partiti. Succederà lo stesso anche per l’auto?
«Guidare la macchina uccide» incollato sui paraurti? Tutti in autobus come papa
Francesco? O in bicicletta come Ignazio Marino? Rispetto ai tempi lunghi del
tabacco, l’impressione è che il Dieselgate produrrà effetti più rapidi. In soli
tre giorni, per esempio, VW ha perso il 40 per cento del suo valore. Per
Automotive News, la paludata Bibbia dell’auto, «lo scandalo cancellerà la
presenza VW negli Stati Uniti». Per il New York Times è ora di cominciare a
fare il conto dei morti per inquinamento che i motori diesel truccati hanno
provocato. In Australia, il governo multerà Volkswagen di 700 mila dollari per ogni
(!) automobile truccata in circolazione sul continente. Il Financial Times è
molto pessimista. Dieci milioni di auto comprate a rate sono l’unica ragion
d’essere di migliaia di società finanziarie, a loro volta legate al sistema
bancario tedesco, con una massa monetaria di 180 miliardi di euro. Molto facile
prevedere che i pagamenti non saranno rispettati dai clienti che si sentono
truffati, così come crollerà il valore dell’usato. Tutto questo assomiglia
maledettamente alla crisi dei mutui subprime e ai junk bonds che provocarono la
grande crisi. Il volume monetario mosso dall’auto è inferiore a quello
immobiliare, ma purtroppo qui il fronte della crisi è più complicato, perché il
cliente non solo non paga più, ma vuole essere risarcito e non ci sta a passare
per un complice dell’inquinamento. Il contenzioso sarà enorme, una manna per
gli avvocati. C’è di più. Volkswagen, nel bel mentre organizzava la truffa del
secolo (venne ideata nel 2007), raccoglieva attestati di macchina ecologica, e
con questo sgravi fiscali e incentivi piuttosto cospicui, sia dal governo
americano che dai governi europei. Probabile che debba restituire il maltolto.
Ma è sulla «valutazione del danno» che si giocherà la battaglia. Secondo
studiosi dell’Epa, il ministero dell’ambiente americano che ora deve decidere
le sanzioni e i nuovi standard per il futuro, «ogni diminuzione di 100
microgrammi per metro cubo di polveri sottili equivale ad un aumento di
aspettativa di tre anni di vita della popolazione generale». Tra le polveri
sottili, il biossido d’azoto scaricato dalla VW fino al 40 per cento in più di
quanto dichiarato, sarà al centro della battaglia scientifica e legale. La VW
proverà a sostenere che non ci sono prove della sua nocività, ma si scontrerà
con la volontà politica di diminuire le emissioni di gas per limitare il
surriscaldamento del pianeta; e si troverà nella pessima compagnia delle
miniere di carbone. L’amministrazione
americana (se resterà democratica) sarà sempre meno amica dell’auto inquinante.
In Europa, dove il diesel copre circa la metà del parco macchine, clamoroso è
il caso di Parigi, dove si è proposto di «mettere fuorilegge il diesel» nel
giro di pochi anni, incentivando sempre di più l’uso della bicicletta (già ora
vengono offerti 60 euro al mese a chi va al lavoro in bici), del car sharing,
delle auto elettriche. L’aria pulita al primo posto sarà sicuramente un cavallo
di battaglia delle prossime campagne elettorali. Se Big Tobacco reagì
all’ostilità ambientale inventando la sigaretta light, tutti pensano che per
l’auto il futuro sarà nell’elettrico totale, più ancora che nell’ibrido. Ma i
volumi di una volta difficilmente verranno raggiunti: le analisi di mercato
mostrano che il possesso di un’auto per un diciottenne non è più il simbolo di
indipendenza o di status. Più cool avere nel portafoglio l’abbonamento a tre
car sharing differenti. Per avere un’idea di che cosa potrà succedere, di nuovo
è utile osservare la California. Banali osservazioni che tutti facciamo (perché
le strade sono invase da automobili con una sola persona a bordo? Perché le
persone usano l’auto per andare a fare la spesa? Perché vecchi taxi hanno il
monopolio del trasporto pubblico? Perché non mettono le colonnine di ricarica
delle auto elettriche vicino ai distributori di benzina?) cominciano a ricevere
risposte pratiche: la Google car senza autista, l’avanzata di Uber, il boom
della bicicletta, ogni giorno una nuova coop di car sharing, i droni per la
consegna delle merci, l’auto elettrica Tesla per super ricchi, la crescita esponenziale
di Charge Point, una nuova azienda che fabbrica stazioni di ricarica elettrica
con l’obiettivo di rendere pulito e supereconomico tutto il pendolarismo
casa-lavoro in un raggio di cinquanta chilometri. L’auto tradizionale ha ancora
un futuro? Difficile dirlo. A un mese di distanza dallo scandalo, si viene a
sapere che il colosso tedesco era gestito in modo molto, molto autoritario
(«una Corea del Nord cui mancavano solo i lager», secondo il settimanale Der
Spiegel) e che la corruzione politica era semplicemente una voce di bilancio. È
evidente che avere leggi e incentivi a proprio favore da oggi sarà più
difficile. Ma se Wolfsburg trema, Detroit non sta certo tranquilla. La sede
delle tre grandi (GM, Ford e FCA) si è goduta un periodo buono di vendite, ma
si prepara a tempi difficili. Ad agitare le acque, ci ha pensato il finanziere
italiano Sergio Marchionne, l’eroico salvatore della fallimentare Chrysler. Da
un anno almeno chiede a General Motors di «unire le forze», almeno nel campo
della ricerca, «altrimenti nessuno sarà in grado di reggere i costi». GM rifiuta sdegnosa, sospetta che Sergio le
voglia rifilare un pacco. Intanto a Detroit, per la prima volta dopo vent’anni,
si discute di un inaudito sciopero proprio contro Sergio Marchionne, diventato
famoso proprio come domatore di sindacati. Gli operai della Chrysler hanno
scoperto di essere pagati troppo poco: c’è qualcosa che non quadra quando
un’azienda macina profitti, ma in dieci anni il costo del lavoro per ogni
automobile prodotta è passato da 4.167 dollari a soli 1.771. Che seccatori! E
non si può neanche licenziare tutti e spostare la baracca in Messico, perché
l’anno prossimo ci sono le elezioni. Davvero, l’automobile ha un sacco di
problemi. Non si fa più amare.
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