Da “Social solitudine” di Jonathan
Franzen, sul quotidiano “la Repubblica" dell’11 di ottobre 2015: Sherry
Turkle è una voce a sé nel dibattito sulla tecnologia. È una scettica con un
passato da credente, una psicologa clinica in mezzo a imbonitori aziendali e
cassandre letterarie, un’empirica in mezzo ad aneddotisti selettivi, una
moderata in mezzo a estremisti, una realista in mezzo a sognatori, un’umanista
ma non luddista: un’adulta. (…). Osservando le interazioni delle persone con i
robot, e intervistandole sul loro rapporto con computer e telefonini,
raccontava come le nuove tecnologie rendano obsoleti i vecchi valori. Quando
sostituiamo i badanti umani con dei robot, o parliamo attraverso i messaggini,
cominciamo dicendo che i surrogati sono «meglio di niente», ma arriviamo a
considerarli «meglio di qualsiasi altra cosa»: più puliti, meno pericolosi,
meno esigenti. Parallela a questo mutamento corre una preferenza crescente per
il virtuale rispetto al reale. I robot non provano sentimenti di affetto per le
persone, ma i soggetti intervistati dalla Turkle arrivavano ad accontentarsi,
con sconvolgente rapidità, della sensazione di essere accuditi, e allo stesso
modo arrivavano a preferire il senso di comunità che i social media
trasmettono, perché non è accompagnato dai rischi e dagli impegni di una
comunità reale. Nelle sue interviste la Turkle osservava ripetutamente una
profonda delusione nei confronti degli esseri umani, imperfetti, distratti,
bisognosi, imprevedibili come le macchine sono programmate per non essere.
(…).
La Turkle interpreta questa scontentezza come un segnale di speranza, (…): la
nostra entusiastica sottomissione alle tecnologie digitali ha portato a
un’atrofizzazione di capacità umane come l’empatia e l’introspezione, ed è
arrivato il momento di riaffermare noi stessi, comportarci da adulti e
rimettere la tecnologia al suo posto. (…). …la forza della tesi della Turkle
deriva dall’ampiezza della ricerca e dall’acume delle sue osservazioni
psicologiche. Le persone intervistate hanno adottato nuove tecnologie perché
ricercavano un maggior controllo, ma hanno finito per sentirsi controllate
dalle tecnologie. L’io amabile e idealizzato che hanno creato con i social
media lascia ancora più isolato il loro io reale. Comunicano incessantemente,
ma hanno paura delle conversazioni faccia a faccia; sono preoccupati, spesso in
modo nostalgico, di tralasciare qualcosa di fondamentale. La conversazione è il
principio organizzativo della Turkle, perché gran parte degli elementi
costitutivi dell’umanità è a rischio quando la sostituiamo con la comunicazione
elettronica. La conversazione presuppone solitudine, per esempio, perché è
nella solitudine che impariamo a pensare per conto nostro e sviluppare un senso
stabile dell’io, elemento essenziale per accettare gli altri così come sono.
(Se non riusciamo a separarci dai nostri smartphone, dice la Turkle, consumiamo
le altre persone «a spizzichi e bocconi: è come se le usassimo alla stregua di
pezzi di ricambio per sostenere il nostro fragile io».) Attraverso l’attenzione
conversativa dei genitori, i bambini acquisiscono un sentimento duraturo di
connessione e l’abitudine di parlare dei loro sentimenti, invece di limitarsi
ad agire sulla base di essi. (Turkle è convinta che conversare regolarmente in
famiglia contribuisca a «immunizzare» i bambini dal bullismo.) Quando parli a
qualcuno di persona, sei costretto a riconoscere la sua piena realtà umana, ed
è qui che inizia l’empatia. (Uno studio recente dimostra un drastico calo
dell’empatia, misurato con test psicologici standard, fra gli studenti
universitari della generazione degli smartphone.) E la conversazione si porta
dietro il rischio di noia, la condizione che gli smartphone ci hanno insegnato
a temere sopra ogni altra cosa, ma anche la condizione in cui si sviluppano la
pazienza e l’immaginazione. (…). Ma la parte più commovente e rappresentativa (…)
riguarda la scomparsa delle conversazioni in famiglia. Il circolo vizioso
funziona in questo modo, secondo i giovani intervistati dalla Turkle: «I
genitori regalano ai figli il telefono. I figli non riescono a distogliere i
genitori dal loro telefono e allora si rifugiano nel loro. Poi i genitori
interpretano il fatto che i figli siano assorbiti dal loro telefono come
un’autorizzazione a usare a loro volta il telefono quanto vogliono». Secondo la
Turkle la responsabilità è tutta dei genitori: «Il modo più realistico per
spezzare questo circolo è fare in modo che i genitori si assumano la loro
responsabilità di mentori». Riconosce che può essere difficile, che i genitori
hanno paura di rimanere tecnologicamente indietro rispetto ai figli, che per
conversare con dei bambini ci vuole pazienza e pratica, che è più facile
dimostrare amore genitoriale scattando tonnellate di foto e pubblicandole su
Facebook. (…). …la Turkle usa un tono terapeutico ed esortativo. Invita i
genitori a capire cosa c’è in gioco nelle conversazioni familiari – «lo
sviluppo della fiducia e dell’autostima», «la capacità di provare empatia,
amicizia, intimità» – e a riconoscere la propria vulnerabilità rispetto agli
incanti della tecnologia. «Accettate la vostra vulnerabilità», dice. «Rimuovete
la tentazione». (…). Sostiene con argomenti convincenti che i bambini si
sviluppano meglio, gli studenti imparano meglio e i dipendenti hanno un
rendimento migliore quando i loro mentori danno il buon esempio e ritagliano
spazi per interazioni faccia a faccia. Ma suona meno convincente quando esorta
all’azione collettiva. È convinta che sia possibile e doveroso progettare una
tecnologia «che ci imponga di usarla in modo più consapevole». Invoca
un’interfaccia per smartphone che «invece di incoraggiarci a stare connessi il
più a lungo possibile ci incoraggi a staccarci». Ma un’interfaccia del genere
metterebbe a rischio quasi tutti i modelli di business della Silicon Valley,
dove capitalizzazioni di mercato smisurate sono fondare proprio sulla capacità
di tenere i consumatori inchiodati ai loro apparecchi. La Turkle spera che la
domanda dei consumatori, che ha costretto l’industria alimentare a creare
prodotti più sani, possa alla fine costringere l’industria high-tech a fare
altrettanto. Ma l’analogia è imperfetta: le aziende del comparto alimentare
guadagnano vendendo cose essenziali, non inserendo pubblicità mirate in una
braciola di maiale o sfruttando i dati che fornisce una persona mentre la
addenta. L’analogia è anche politicamente inquietante: dal momento che una
piattaforma che scoraggia il coinvolgimento è meno redditizia, per guadagnare
dovrebbe far pagare un sovrapprezzo che solo consumatori benestanti e istruiti,
del genere di quelli che fanno la spesa nei negozi di prodotti bio, sarebbero
disposti a pagare. (…). E sì, la famiglia che se la passa abbastanza bene da
comprare e leggere (…) forse riuscirà a limitare l’esposizione alla tecnologia
e vivrà ancora meglio. Ma che ne sarà della gran massa delle persone, troppo
ansiose o troppo sole per resistere alle attrattive della tecnologia, troppo
povere o sovraccariche di impegni per sfuggire ai circoli viziosi? Matthew
Crawford, (…), mette a confronto il mondo di una sala aeroportuale per «poveri»
(saturata di pubblicità, stracolma di schermi magnetici) con il mondo sereno e
senza pubblicità di una sala d’aspetto business: «Per dedicarsi a riflessioni
allegre e creative, e magari creare ricchezza per se stessi durante quelle ore
inoperose trascorse in aeroporto, c’è bisogno di silenzio. Ma la mente degli
altri, giù nella sala d’aspetto dei poveri (o alla fermata dell’autobus), può
essere trattata come una risorsa, una riserva deambulante di potere
d’acquisto». Le nostre tecnologie digitali non sono politicamente neutre. Il giovane
che non riesce a stare o non sta mai da solo, non riesce a conversare con la
famiglia, a uscire con gli amici, ad andare a una conferenza o a svolgere un
compito senza controllare il suo smartphone è l’emblema di un’economia
attaccata come una sanguisuga al nostro corpo. La tecnologia digitale è il
capitalismo a velocità iperspaziale, che inietta la sua logica del consumo e
della promozione, della monetizzazione e dell’efficienza in ogni minuto che
trascorriamo da svegli. È forte la tentazione di correlare l’ascesa della
«democrazia digitale» con il forte incremento della disuguaglianza economica,
di vederci qualcosa di più di un semplice paradosso. Ma forse l’erosione dei
valori umani è un prezzo che la maggioranza delle persone è disposta a pagare
per la comodità «gratuita» di Google, la confortevolezza di Facebook e la
compagnia affidabile degli iPhone. (…).
Per il momento sono pienamente in armonia con la Turkle che considera la meditazione e la maturazione dei nostri convincimenti umani nel raccoglimento dei propri pensieri frutto dello studio in solitudine.In un secondo momento di dirò il mio pensiero sull'argomento trattato.Ciao.
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