"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 13 ottobre 2015

Capitalismoedemocrazia. 54 “La Storia scritta dai Krupp”.



Chi di Voi non conosce a menadito la storia della famiglia Krupp? Mi è venuto di pensare a quella ricchissima, tragicissima – tragicissima per milioni e milioni di altri esseri umani – famiglia dopo aver letto il commento di Marcello De Cecco - “L'asse del Pacifico senza la Cina” – sul settimanale “Affari&Finanza” del 12 di ottobre ultimo. Ha scritto Marcello De Cecco a chiusura dell’interessantissimo Suo “pezzo”: (…). La crescita del commercio internazionale è ormai da qualche anno inferiore ai tassi di sviluppo del prodotto lordo globale. Si pensa che comunque ormai la fase di veloce globalizzazione si sia conclusa e leader come Shinzo Abe (primo ministro del Giappone n.d.r.) avviano ormai anche in Giappone la sostituzione del settore del commercio con quello dell’industria degli armamenti, facendo notare l’appropriatezza della fase storica, quando un paese come il Giappone deve temere una politica di potenza attiva da parte della Cina. Nello stesso modo è probabile che in un veloce riarmo cinese la leadership di Pechino possa anch’essa trovare una risposta alla caduta del tasso di sviluppo, sceso a tassi ormai ridotti al confronto di quelli dei decenni precedenti. Allora tutto bene? Abbiamo cambiato modello e non ci basiamo più sull’economia cinese come grande potenza importatrice ed esportatrice? Potrebbe essere una nuova autostrada basata su equilibri diversi dal passato: una più forte domanda interna cinese e uno spostamento di orizzonti di quella giapponese e in parte anche americana. Può essere che la nuova autostrada non presenti ostacoli ma potrebbe accadere anche il contrario. Tenendo a mente che se il prezzo da pagare per il nuovo equilibrio è una nuova corsa agli armanenti, potrebbe alla fine rivelarsi troppo alto. (…). È la tragedia irrisolta della storia degli umani. Ché quando commerci e tutto quanto afferisca alla ricchezza dei pochi languono, non si trovi di meglio che ri-lanciare il ricchissimo mondo degli armamenti, l’effetto benefico dei quali è di sfoltire di un bel po’ la numerosissima famiglia umana ed al contempo rimpinguare le casse debordanti di sonante ricchezza dei soliti noti. Ad offrire la “carne da macello” è il restante dell’umanità. La storia della famiglia Krupp è per questo aspetto illuminante. Ricchissima dinastia tedesca con oltre quattrocento anni di storia, divenne famosa per la produzione di acciaio e per le fabbriche di munizioni e armi. Krupp, nella lingua tedesca, ha il significato di “forte”.
Fu Friedrich (1787–1826) a dare il via alle fortune della famiglia, avviando una fonderia di acciaio ad Essen nell’anno 1811. Il figlio Alfred (1812– 1887) - denominato il "Re Cannone” - diversificò l’azienda paterna investendo  nelle  nuove tecnologie e divenendo così un importante produttore di materiale rotabile. Ma l’amore per gli armamenti non distrasse minimamente l’attività dei Krupp. Infatti i Krupp iniziarono a produrre cannoni negli anni quaranta del secolo diciannovesimo armando gli eserciti della Russia degli zar, dell’Impero Ottomano e dell’immancabile “guerrafondaia” Prussia. È che la bassa richiesta di produzione non bellica ed i generosi sussidi governativi fecero sì che la compagnia si specializzasse sempre più nelle armi: infatti, alla fine degli anni sessanta di quel secolo, la produzione di armamenti aveva raggiunto il traguardo ragguardevole del 50% della produzione totale della famiglia. E così avvenne che quando Alfred iniziò la sua attività imprenditoriale avesse soltanto cinque dipendenti, per contarne, alla sua morte, ben ventimila rendendo la Krupp la più grande attività industriale del mondo. Per i Krupp il detto “pecunia non olet” divenne il principio ispiratore di ogni loro avventura industriale, per la qual cosa non trovarono minimamente sconveniente, nel corso della prima guerra mondiale, vendere i loro cannoni tanto alla Triplice Intesa quanto alle Potenze Centrali, politica che rigonfiò oltremodo gli alti loro profitti. Immancabilmente la Storia si ripete. All’avvento di Hitler nella Germania del nazional-socialismo (1933) i Krupp divennero il motore rombante e tonante del riarmo tedesco. E non poteva mancare. I milioni di morti della prima guerra mondiale furono soltanto l’obolo pagato tragicamente al loro immenso arricchimento. Al termine del secondo conflitto mondiale il Tribunale internazionale di Norimberga condannò i Krupp come criminali di guerra per l'utilizzo del lavoro schiavistico da parte dell'azienda. Fin qui l’abominevole storia dei Krupp. Che trovarono nell’andamento calante delle fasi economiche lo slancio per invadere con i loro mortali prodotti ogni angolo raggiungibile del pianeta Terra. Ha scritto Marcello De Cecco: (…). Quella cinese è una gigantesca economia, la seconda al mondo, una spugna per prodotti americani e giapponesi, la trasformatrice più grande del mondo grazie agli investimenti americani, giapponesi e degli altri paesi sviluppati, acquirente numero uno di materie prime dai paesi emergenti e di macchinari dai paesi più avanzati. È vero che negli ultimi anni il ritmo grandioso della crescita della economia cinese è venuto ad attutirsi di parecchio, secondo alcuni riducendosi a quasi la metà. Dal punto di vista di politici ed economisti americani e giapponesi, dunque, abbastanza cinicamente ci si aspettava la fine delle vacche grasse cinesi (…). Sentendo che la fase della grande crescita basata sulle esportazioni era conclusa, anche la dirigenza cinese è venuta alla decisione di fondarne una successiva basata su una radicale redistribuzione verso i redditi dei lavoratori, che possano dare origine alla domanda necessaria all’economia per esaurire l’offerta totale. Americani e giapponesi, anticipando una durata non piccola del tempo del cambiamento, scommettono dunque sulla fase di attesa, cercando di guadagnare posizioni nei confronti dei cinesi (…). Americani e giapponesi ritengono (…) di poter fare a meno, almeno in parte, della domanda cinese per i propri beni di consumo e di investimento. Su queste basi hanno considerato possibile ridisegnare la mappa degli scambi in Estremo Oriente rimettendo la Cina in una prospettiva meno minacciosa, provando a esorcizzarla escludendola dal TTIP orientale e provando a vederne la crescita solo come una fonte di domanda di beni e di investimenti cercando di cancellarne l’impatto sulla propria politica di potenza. Si potrebbe però vedere un ulteriore significato nell’atteggiamento di americani e giapponesi: mettere in rilievo la minaccia cinese per giustificare la costruzione di un super-avanzato settore della difesa in Giappone e negli Stati Uniti, a sostituire in parte il ruolo tradizionalmente svolto dai consumi e dagli investimenti fissi. E si ha un vedere quasi di un agitare convulso di lucenti sciabole. Ha scritto Federico Rampini – “Si è rotta la globalizzazione” – sul quotidiano la Repubblica del 9 di ottobre: (…). La globalizzazione si è inceppata. Lo si capisce mettendo insieme questi tre fenomeni. Primo, il Fondo monetario al vertice di Lima annuncia che il mondo è in una recessione analoga al 2009, se misuriamo tutti i Pil in dollari anziché in monete nazionali (cosa che ha un senso, soprattutto per i paesi emergenti che vivono di esportazioni in dollari). Secondo: lo stesso Fmi rileva che il commercio mondiale non cresce più; ed era proprio l’espansione degli scambi il tratto distintivo della globalizzazione. In passato il commercio estero cresceva più dei Pil nazionali, ora è il contrario. Il terzo segnale viene dalla Rete, uno spazio decisivo visto che ci scambiamo sempre meno merci fisiche e sempre più servizi online, comunicazione e informazioni; l’ultima sentenza della Corte di Giustizia europea che blocca il trasferimento di dati dall’Europa all’America, conferma una tendenza già in atto: il web è sempre meno universale, Internet si sta lentamente trasformando in tanti Intra-Net suddivisi tra aree geografiche. Cominciarono regimi autoritari come Cina, Russia e Iran, ma anche tra Europa e Usa adesso aumentano gli ostacoli. L’involuzione è stata accelerata dalle rivelazioni di Edward Snowden sullo spionaggio americano, certo, ma di fatto sta cambiando la natura aperta della Rete. Dunque, la globalizzazione non è irreversibile. Di questo si è convinto anche il più grande pensatore politico americano del nostro tempo, Francis Fukuyama. Proprio lui che aveva teorizzato “la fine della Storia” dopo la caduta del Muro di Berlino: cioè il trionfo di un modello unico, la liberal democrazia e l’economia di mercato, un mix brevettato in Occidente. Un quarto di secolo dopo Fukuyama fa un’autocritica clamorosa, ammettendo che «né la Cina né la Russia vogliono diventare come noi». L’omologazione sembrava un trend inarrestabile, invece dei poderosi venti contrari hanno invertito la tendenza, un leader come Xi Jinping teorizza orgogliosamente non solo l’autonomia ma la superiorità del suo modello autoritario. La globalizzazione inverte il senso di marcia perfino sul terreno dove sembrava non avere avversari: l’economia. Quando Bill Clinton firmava il Nafta, il commercio tra le nazioni cresceva più veloce dei rispettivi Pil. Allora l’abbattimento delle barriere, l’apertura delle frontiere, l’intensificarsi degli scambi e degli investimenti internazionali, erano un motore di crescita. L’inizio del nuovo millennio, segnato dall’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) portò perfino ad accentuare il fenomeno: dal 2003 al 2006 in poi il commercio estero crebbe a una velocità addirittura doppia rispetto ai Pil. La globalizzazione trainava tutto. Adesso, rivela il Fondo monetario, siamo nella situazione inversa: le maggiori economie mondiali hanno una crescita interna superiore agli scambi con gli altri. Il commercio mondiale langue. Porti e navi da container soffrono di sovraccapacità. Le due maggiori economie mondiali, America e Cina, sono di colpo più “introverse”. L’America sta quasi smettendo di comprare petrolio dal resto del mondo perché ne ha abbastanza in casa sua. La Cina decurta brutalmente i suoi acquisti di materie prime facendone precipitare le quotazioni e innescando recessioni nelle economie emergenti dal Brasile alla Russia.  Si chiude un quarto di secolo di crescita mondiale che aveva visto i Brics (Brasile Russia India Cina Sudafrica) e altre tigri dell’emisfero Sud nel ruolo delle locomotive. Anche i paesi più avanzati ne soffrono le ripercussioni. Negli Usa rallenta la creazione di posti di lavoro (il mese scorso 142.000 contro i 250.000 di media nel 2014). La Germania, potenza esportatrice per eccellenza, può sopravvivere al grande gelo della globalizzazione? (…). Non ci restano che i cannoni.

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