Chi di Voi non conosce a menadito la storia della
famiglia Krupp? Mi è venuto di pensare a quella ricchissima, tragicissima – tragicissima
per milioni e milioni di altri esseri umani – famiglia dopo aver letto il commento
di Marcello De Cecco - “L'asse del
Pacifico senza la Cina” – sul settimanale “Affari&Finanza” del 12 di
ottobre ultimo. Ha scritto Marcello De Cecco a chiusura dell’interessantissimo
Suo “pezzo”: (…). La crescita del commercio internazionale è ormai da qualche anno
inferiore ai tassi di sviluppo del prodotto lordo globale. Si pensa che
comunque ormai la fase di veloce globalizzazione si sia conclusa e leader come
Shinzo Abe (primo ministro del Giappone n.d.r.) avviano ormai anche in Giappone
la sostituzione del settore del commercio con quello dell’industria degli
armamenti, facendo notare l’appropriatezza della fase storica, quando un paese
come il Giappone deve temere una politica di potenza attiva da parte della
Cina. Nello stesso modo è probabile che in un veloce riarmo cinese la
leadership di Pechino possa anch’essa trovare una risposta alla caduta del
tasso di sviluppo, sceso a tassi ormai ridotti al confronto di quelli dei
decenni precedenti. Allora tutto bene? Abbiamo cambiato modello e non ci
basiamo più sull’economia cinese come grande potenza importatrice ed
esportatrice? Potrebbe essere una nuova autostrada basata su equilibri diversi
dal passato: una più forte domanda interna cinese e uno spostamento di orizzonti
di quella giapponese e in parte anche americana. Può essere che la nuova autostrada
non presenti ostacoli ma potrebbe accadere anche il contrario. Tenendo a mente
che se il prezzo da pagare per il nuovo equilibrio è una nuova corsa agli
armanenti, potrebbe alla fine rivelarsi troppo alto. (…). È la tragedia
irrisolta della storia degli umani. Ché quando commerci e tutto quanto
afferisca alla ricchezza dei pochi languono, non si trovi di meglio che
ri-lanciare il ricchissimo mondo degli armamenti, l’effetto benefico dei quali
è di sfoltire di un bel po’ la numerosissima famiglia umana ed al contempo
rimpinguare le casse debordanti di sonante ricchezza dei soliti noti. Ad
offrire la “carne da macello” è il restante dell’umanità. La storia della famiglia
Krupp è per questo aspetto illuminante. Ricchissima dinastia tedesca con oltre quattrocento
anni di storia, divenne famosa per la produzione di acciaio e per le fabbriche
di munizioni e armi. Krupp, nella lingua tedesca, ha il significato di “forte”.
Fu
Friedrich (1787–1826) a dare il via alle fortune della famiglia, avviando una fonderia
di acciaio ad Essen nell’anno 1811. Il figlio Alfred (1812– 1887) - denominato
il "Re Cannone” - diversificò l’azienda paterna investendo nelle nuove tecnologie e divenendo così un
importante produttore di materiale rotabile. Ma l’amore per gli armamenti non
distrasse minimamente l’attività dei Krupp. Infatti i Krupp iniziarono a
produrre cannoni negli anni quaranta del secolo diciannovesimo armando gli
eserciti della Russia degli zar, dell’Impero Ottomano e dell’immancabile “guerrafondaia”
Prussia. È che la bassa richiesta di produzione non bellica ed i generosi sussidi
governativi fecero sì che la compagnia si specializzasse sempre più nelle armi:
infatti, alla fine degli anni sessanta di quel secolo, la produzione di
armamenti aveva raggiunto il traguardo ragguardevole del 50% della produzione
totale della famiglia. E così avvenne che quando Alfred iniziò la sua attività
imprenditoriale avesse soltanto cinque dipendenti, per contarne, alla sua
morte, ben ventimila rendendo la Krupp la più grande attività industriale del
mondo. Per i Krupp il detto “pecunia non olet” divenne il
principio ispiratore di ogni loro avventura industriale, per la qual cosa non
trovarono minimamente sconveniente, nel corso della prima guerra mondiale, vendere
i loro cannoni tanto alla Triplice Intesa quanto alle Potenze Centrali,
politica che rigonfiò oltremodo gli alti loro profitti. Immancabilmente la
Storia si ripete. All’avvento di Hitler nella Germania del nazional-socialismo
(1933) i Krupp divennero il motore rombante e tonante del riarmo tedesco. E non
poteva mancare. I milioni di morti della prima guerra mondiale furono soltanto
l’obolo pagato tragicamente al loro immenso arricchimento. Al termine del
secondo conflitto mondiale il Tribunale internazionale di Norimberga condannò i
Krupp come criminali di guerra per l'utilizzo del lavoro schiavistico da parte
dell'azienda. Fin qui l’abominevole storia dei Krupp. Che trovarono nell’andamento
calante delle fasi economiche lo slancio per invadere con i loro mortali
prodotti ogni angolo raggiungibile del pianeta Terra. Ha scritto Marcello De
Cecco: (…). Quella cinese è una gigantesca economia, la seconda al mondo, una
spugna per prodotti americani e giapponesi, la trasformatrice più grande del
mondo grazie agli investimenti americani, giapponesi e degli altri paesi
sviluppati, acquirente numero uno di materie prime dai paesi emergenti e di
macchinari dai paesi più avanzati. È vero che negli ultimi anni il ritmo
grandioso della crescita della economia cinese è venuto ad attutirsi di
parecchio, secondo alcuni riducendosi a quasi la metà. Dal punto di vista di
politici ed economisti americani e giapponesi, dunque, abbastanza cinicamente
ci si aspettava la fine delle vacche grasse cinesi (…). Sentendo che la fase
della grande crescita basata sulle esportazioni era conclusa, anche la
dirigenza cinese è venuta alla decisione di fondarne una successiva basata su
una radicale redistribuzione verso i redditi dei lavoratori, che possano dare
origine alla domanda necessaria all’economia per esaurire l’offerta totale.
Americani e giapponesi, anticipando una durata non piccola del tempo del
cambiamento, scommettono dunque sulla fase di attesa, cercando di guadagnare
posizioni nei confronti dei cinesi (…). Americani e giapponesi ritengono (…) di
poter fare a meno, almeno in parte, della domanda cinese per i propri beni di
consumo e di investimento. Su queste basi hanno considerato possibile
ridisegnare la mappa degli scambi in Estremo Oriente rimettendo la Cina in una
prospettiva meno minacciosa, provando a esorcizzarla escludendola dal TTIP
orientale e provando a vederne la crescita solo come una fonte di domanda di
beni e di investimenti cercando di cancellarne l’impatto sulla propria politica
di potenza. Si potrebbe però vedere un ulteriore significato nell’atteggiamento
di americani e giapponesi: mettere in rilievo la minaccia cinese per
giustificare la costruzione di un super-avanzato settore della difesa in
Giappone e negli Stati Uniti, a sostituire in parte il ruolo tradizionalmente
svolto dai consumi e dagli investimenti fissi. E si ha un vedere quasi di
un agitare convulso di lucenti sciabole. Ha scritto Federico Rampini – “Si è rotta la globalizzazione” – sul quotidiano
la Repubblica del 9 di ottobre: (…). La globalizzazione si è inceppata. Lo
si capisce mettendo insieme questi tre fenomeni. Primo, il Fondo monetario al
vertice di Lima annuncia che il mondo è in una recessione analoga al 2009, se
misuriamo tutti i Pil in dollari anziché in monete nazionali (cosa che ha un
senso, soprattutto per i paesi emergenti che vivono di esportazioni in
dollari). Secondo: lo stesso Fmi rileva che il commercio mondiale non cresce
più; ed era proprio l’espansione degli scambi il tratto distintivo della
globalizzazione. In passato il commercio estero cresceva più dei Pil nazionali,
ora è il contrario. Il terzo segnale viene dalla Rete, uno spazio decisivo
visto che ci scambiamo sempre meno merci fisiche e sempre più servizi online,
comunicazione e informazioni; l’ultima sentenza della Corte di Giustizia
europea che blocca il trasferimento di dati dall’Europa all’America, conferma
una tendenza già in atto: il web è sempre meno universale, Internet si sta
lentamente trasformando in tanti Intra-Net suddivisi tra aree geografiche.
Cominciarono regimi autoritari come Cina, Russia e Iran, ma anche tra Europa e
Usa adesso aumentano gli ostacoli. L’involuzione è stata accelerata dalle
rivelazioni di Edward Snowden sullo spionaggio americano, certo, ma di fatto
sta cambiando la natura aperta della Rete. Dunque, la globalizzazione non è
irreversibile. Di questo si è convinto anche il più grande pensatore politico
americano del nostro tempo, Francis Fukuyama. Proprio lui che aveva teorizzato
“la fine della Storia” dopo la caduta del Muro di Berlino: cioè il trionfo di
un modello unico, la liberal democrazia e l’economia di mercato, un mix
brevettato in Occidente. Un quarto di secolo dopo Fukuyama fa un’autocritica
clamorosa, ammettendo che «né la Cina né la Russia vogliono diventare come
noi». L’omologazione sembrava un trend inarrestabile, invece dei poderosi venti
contrari hanno invertito la tendenza, un leader come Xi Jinping teorizza
orgogliosamente non solo l’autonomia ma la superiorità del suo modello
autoritario. La globalizzazione inverte il senso di marcia perfino sul terreno
dove sembrava non avere avversari: l’economia. Quando Bill Clinton firmava il
Nafta, il commercio tra le nazioni cresceva più veloce dei rispettivi Pil.
Allora l’abbattimento delle barriere, l’apertura delle frontiere,
l’intensificarsi degli scambi e degli investimenti internazionali, erano un
motore di crescita. L’inizio del nuovo millennio, segnato dall’ingresso della
Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) portò perfino ad
accentuare il fenomeno: dal 2003 al 2006 in poi il commercio estero crebbe a
una velocità addirittura doppia rispetto ai Pil. La globalizzazione trainava
tutto. Adesso, rivela il Fondo monetario, siamo nella situazione inversa: le
maggiori economie mondiali hanno una crescita interna superiore agli scambi con
gli altri. Il commercio mondiale langue. Porti e navi da container soffrono di
sovraccapacità. Le due maggiori economie mondiali, America e Cina, sono di
colpo più “introverse”. L’America sta quasi smettendo di comprare petrolio dal
resto del mondo perché ne ha abbastanza in casa sua. La Cina decurta
brutalmente i suoi acquisti di materie prime facendone precipitare le
quotazioni e innescando recessioni nelle economie emergenti dal Brasile alla
Russia. Si chiude un quarto di secolo di
crescita mondiale che aveva visto i Brics (Brasile Russia India Cina Sudafrica)
e altre tigri dell’emisfero Sud nel ruolo delle locomotive. Anche i paesi più
avanzati ne soffrono le ripercussioni. Negli Usa rallenta la creazione di posti
di lavoro (il mese scorso 142.000 contro i 250.000 di media nel 2014). La
Germania, potenza esportatrice per eccellenza, può sopravvivere al grande gelo
della globalizzazione? (…). Non ci restano che i cannoni.
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