Ha scritto Ferruccio Sansa su “il Fatto Quotidiano”
del 21 di luglio ultimo – “Ma Renzi
crede davvero in qualcosa?” -: (…). …il problema di fondo non sono queste
riforme dissennate, studiate nel weekend da ministri senza esperienza, portate
avanti a colpi di ultimatum con il sostegno di un “leader” pregiudicato. Il
punto è che Renzi non ci crede. Non ha una spinta profonda. Ideale, si diceva
una volta. Ormai sembrano essersene convinti in molti. Dopo il cinismo di
craxiani e dalemiani, dopo Berlusconi che governava per difendere se stesso e i
propri affari, ora tocca a Renzi con quella sua strabordante e nemmeno celata
ambizione. Anzi, è un tratto apprezzato del suo carattere così spiccio. Con
quella brutalità di sostanza che scambiamo per decisionismo. Addirittura per
schiettezza. Forse, però, meriterebbe porsi qualche domanda che vada oltre
Renzi (…). …quale deve essere, in chi si propone di governare, il confine
sottile tra affermazione di sé e dei propri ideali? Infine: alla leadership è
per forza connaturato un fondo di imposizione di sé? Tornano in mente le frasi
di John Kennedy: “Non chiederti quello che il tuo Paese può fare per te, ma ciò
che tu puoi fare per il tuo Paese”. (…). Impossibile entrare nel cuore di un
uomo, capire in che misura l’Io sia un mezzo per realizzare gli ideali o se non
avvenga il contrario. Il potere inquina. Anche chi ha le migliori intenzioni.
Soprattutto oggi, che i mezzi di comunicazione distorcono la percezione della
realtà, dilatano la personalità. C’è perfino il rischio che ad allontanare
dalla politica, dal necessario esercizio del potere, siano caratteristiche apprezzabili,
indispensabili dell’individuo: il senso della misura, il rispetto delle idee
altrui, la mitezza (quella forza paziente di cui parlava Norberto Bobbio),
l’umiltà. Ecco allora emergere chi pare meno provvisto di questi “limiti”. Ma
non sarà colpa anche nostra, che deleghiamo la selezione ad altri e non ci
sforziamo di individuare, di stanare, le persone migliori? Non è vero che dopo
Renzi c’è il diluvio: (…). Dopo il premier ci sono sessanta milioni di
italiani. E molti uomini straordinari.
È per quel fiuto che pensavo di
non possedere che ho evitato di lasciarmi incantare dal novello
prestidigitatore. È accaduto nelle primarie vinte da Bersani. È accaduto
successivamente quando ho preferito sostenere un perdente sicuro, Civati, pur
di non cadere nelle lusinghe del prestidigitatore di turno. E così posso ben
dire d’averla scampata. Ero, per quel fiuto di cui prima, convinto che il nuovo
fosse già vecchio. Che quell’apparire fosse una facciata che chissà cosa ci
avrebbe dato in sorpresa. È bastato attendere poco perché si disvelasse la
sorpresa. Che è sotto gli occhi di tutti. Ché potremmo dire, parafrasando il
grande Carlo Vanzina, sotto l’aspetto niente. Di niente. Hai voglia di
ribattere a quelli che, della mia parte politica, candidamente confessavano di
sostenere il Renzi solamente per avere la certezza di vincere. Di vincere, non
ha importato per fare cosa, per fare come. Pur di vincere sull’odiato sig. B.
Ma quel fiuto mi diceva che nulla sarebbe cambiato. Se non il sembiante, questa
volta più giovane. E gli esordi sono stati lì a dare ragione a quell’inconscio di
fiuto. “Rosiconi”, “gufi”, professoroni” a ricordare
amaramente gli epiteti, più volgari di certo, che il suo compare d’oggi riservava a
chi non stesse dalla sua parte. È così che va il mondo. Ma non può durare. Non durerà.
E gli analisti non mancano di evidenziarne i limiti gravi. Ha scritto, per esempio,
Piero Ignazi sul quotidiano la Repubblica del 24 di luglio – “Il terreno
fragile del governo” -: (…). …l'atteggiamento pro-europeo viene
declinato talvolta con un vittimismo piagnone e con rivendicazioni di ruolo del
tutto fuori luogo, come l'infelicissima battuta «l'Italia merita rispetto»
(sic!). Un grande Paese non ha certo bisogno di invocare il suo status: lo
esercita nelle sedi e con le modalità opportune, vale a dire a livello
diplomaticocomunitario, facendo valere i propri dossier, ben curati ed adeguatamente
illustrati da persone all'altezza. Così ci si fa rispettare, non saltando
appuntamenti cruciali o inviando persone di grado inferiore a quelle degli
altri partecipanti, spesso non preparate per la frettolosità con cui vengono
decisi questi incarichi. Ma aiuta il suo “governare stando fermi” –
per dirla tutta con Ilvo Diamanti – inventare un problema – le immancabili ed
irrinunciabili riforme – per dirottare l’attenzione verso quei problemi per i
quali non si ha capacità d’intervenire. Che poi le riforme non caveranno un ragno
dal buco. Intanto hanno reso una immeritata credibilità. Ché quando l’arrembante
alza la voce ed il tiro verso l’Europa suscita un motivo di profondo sconforto.
Dell’Europa lascia intendere di non conoscere nulla. Sulla traccia della
denuncia scritta da Piero Ignazi, a confermare la validità delle cose scritte,
sta un reportage di Marco Panara pubblicato sul settimanale “Affari&Finanza”
del 14 di luglio che ha per titolo “Quanto ci costa snobbare Bruxelles”.
È da leggere. Ha scritto Marco Panara che… A Roma tira un'altra aria. L'Europa della
quale quotidianamente ci occupiamo e preoccupiamo è quelle delle pagelle sui
conti pubblici e dei parametri da rispettare e semmai dei fondi europei -
quando ci riesce (poco) - da utilizzare. (…). Quello che è successo il 14
gennaio scorso durante la seduta plenaria del Parlamento Europeo che ha
approvato la nuova Direttiva sugli appalti (che ora deve essere recepita
dall'Italia) non è esemplare ma assai significativo. Prende la parola il
segretario della Lega nonché parlamentare europeo Matteo Salvini, il quale
attacca il provvedimento definendolo 'aria' e aggiungendo che non rispetta gli
interessi delle piccole aziende del territorio. Fin qui tutto normale, la
critica è sempre legittima. È subito dopo che il quadro si definisce, quando
chiede la parola l'europarlamentare belga Marc Tarabella, relatore del
provvedimento che, evidentemente, non ce l'ha fatta più: 'Collega Salvini, è
una vergogna sentirvi in Aula, perché per un anno e mezzo abbiamo lavorato con
gli altri colleghi e sei l'unico che non abbiamo mai visto in riunione...' In
realtà tra gli europarlamentari italiani Salvini non è stato dei meno attivi
nella passata legislatura, né ci sono stati altri (italiani) che abbiano
seguito quell'importantissima direttiva, ma ci sono due lezioni da trarre: la
prima è che se non si può seguire tutto, sui dossier importanti ci si deve
essere, la seconda è che ci si deve essere dall'inizio perché quando un
provvedimento arriva al voto dell'aula i giochi sono fatti. (…). E l'Italia?
Latita. C'è una legge del 2012 nella quale è scritto che ogni ministero deve
dotarsi di un nucleo di valutazione e di un responsabile per coordinare gli
affari europei di pertinenza. Nessuna sorpresa, quei nuclei non sono mai stati
creati. La ragione è ovvia, sarebbe stato un nuovo centro di potere che avrebbe
potuto mettere il naso pressoché dappertutto e avrebbe dato fastidio a capi di
gabinetto e direttori generali. Quindi ogni direzione fa per sé e la mano
destra non sa cosa fa la mano sinistra. La stessa legge prevede un
coordinamento centrale affidato a un comitato interministeriale, il Ciae
(Comitato interministeriale affari europei) supportato da un comitato di
valutazione e da una segreteria incardinati all'interno del Dipartimento di Palazzo
Chigi per gli affari europei. Anche qui nessuna sorpresa, il Ciae si è riunito
una sola volta, poche settimane fa, mentre il Dipartimento - la cui guida è
stata affidata dal governo Renzi a Diana Agosti (moglie di Antonio Catricalà,
sottosegretario alla presidenza del Consiglio durante il governo Monti) che è
stata responsabile del coordinamento amministrativo di Palazzo Chigi e che
nella sua brillante carriera si è occupata assai di personale ma per nulla di
Europa - con il suo esiguo e non sempre specializzato personale fa assai fatica
a seguire il processo normativo europeo, la trasposizione delle norme in
Italia, la loro applicazione, le procedure di infrazione e solo a volte, molto
poche, riesce a mettere intorno a un tavolo i vari ministeri interessati a
singoli dossier e a definire una posizione nazionale unitaria. Nei fatti, nella
costruzione delle norme e delle dettagliate regole che a Bruxelles vengono
elaborate per la loro applicazione, una politica europea unitaria l'Italia non
ce l'ha. Il problema dei funzionari romani mandati ai comitati e ai gruppi di
lavoro di Bruxelles senza sapere le lingue o in gita premio sembra essere stato
superato (non in tutti i ministeri). Oggi vanno a Bruxelles funzionari spesso
(non sempre) preparati e plurilingui, anche se accade ancora che a riunioni
importanti da Roma non arrivi nessuno perché non c'erano i fondi per la
missione, oppure che partecipi solo a metà della riunione per rientrare in
serata perché il ministero non può pagare la notte in albergo. Ma il problema
più grave è che dietro questi funzionari, quando arrivano, e anche quando sono
preparati, non c'è una politica nazionale, non c'è una visione chiara degli
interessi da difendere, non c'è la costruzione delle alleanze necessarie per
condurre in porto i propri progetti. E non c'è quasi mai un coordinamento. (…).
Ma il Renzi ignora – o mette da parte poiché non paganti per la sua
immagine - questi problemi e preferisce parlare del senato. E sì che il senato
paga. Ma solo per lui. Per la grande maggioranza dei cittadini, quelli senza
lavoro e senza risorse economiche adeguate, è tempo perso. A quando ci parlerà
dei problemi dell’Europa? Anzi dell’Italia in Europa?
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