“Doveravatetutti” allorquando
Massimo Fini scriveva su “il Fatto Quotidiano” del 5 di novembre dell’anno 2011
– “Non meritiamo di essere salvati”
-: Berlusconi
con le sue promesse e i suoi bluff è riuscito a ingannare gli italiani per 17
anni pur non avendo fatto, (…) nulla di notevole. E per 17 anni gli è andata
bene. Adesso, in una situazione di crisi economica drammatica, ha cercato, con
la sua ridicola “lettera di intenti”, di ripetere il giochetto con gli europei
sperando di farla franca anche con loro. Ma i fatti, in questo caso i mercati,
gli han dato la risposta brutale che si meritava e con lui l’Italia che gli ha
creduto e anche quella che non gli ha creduto, ma non è stata capace di
fermarlo. Berlusconi però non è che la ciliegiona marcia su una torta marcia.
Nella crisi attuale, che è planetaria ed è dovuta alla cocciuta cecità delle
leadership mondiali che si ostinano a inseguire il mito della crescita quando
crescere non si può più, la particolare debolezza dell’Italia è data, com’è
noto, dall’enorme debito pubblico. Questo debito è stato accumulato soprattutto
negli Ottanta, gli anni della “Milano da bere” (per la verità bevevano solo i
socialisti), della triade dei santi e martiri Craxi-Andreotti-Forlani quando,
per motivi clientelari, di conquista del consenso si elargivano a pioggia
pensioni di vecchiaia fasulle, pensioni di invalidità false, pensioni baby,
pensioni d’oro. Inoltre dalla metà degli anni Settanta c’è stata la cassa
integrazione a tempo indeterminato, che è la forma che l’assistenzialismo ha
assunto al Nord. Quando il mercato tirava l’imprenditore si gonfiava di operai,
quando si restringeva li metteva in cassa integrazione, accollandoli alla
collettività. Si chiamava “privatizzazione dei profitti e socializzazione delle
perdite”. (…). Giuliano Cazzola ha calcolato che la prima Tangentopoli ci è
costata 630 mila miliardi di vecchie lire, circa un quarto del debito pubblico.
E il calcolo si basa solo sulle sentenze arrivate a giudizio definitivo che
rappresentano, come per ogni reato, un decimo degli illeciti commessi. Poteva
essere una lezione salutare. E invece nel giro di pochi anni abbiamo visto i
giudici diventare veri colpevoli e i ladri le vittime, giudici dei loro
giudici. E tutto è continuato peggio di prima. Può un Paese del genere salvarsi?
Può darsi. Vi sembra che le cose da quel tempo, che appare remoto assai,
abbiano “cambiato verso” per come cicaleccia l’arrembante primo
ministro?
Da quel tempo, anzi, il paese è stato stretto sempre di più nella tagliola
del malaffare, dal Monviso a capo Lilibeo; l’evasione fiscale e le
malversazioni sono rifiorite ancor più di prima; la corruzione nella politica e
nella pubblica amministrazione imperversa ed ha vinto non già una battaglia ma
la guerra. Tutto il resto è fuffa. Perché dolersene se la Storia ci è maestra? Siamo
inadeguati a convivere con quei paesi che pongono alla base della loro civile
convivenza il rispetto delle regole. Figurarsi il rispetto delle leggi. Ché accade
solo in questo disastrato paese vedere un condannato per truffa ai danni della intera
collettività godersela come e più di prima partecipando financo alla revisione
della carta fondamentale, quella che da “primo ministro” in carica definiva
essere “sovietica”. Eppure ci aveva giurato sopra! È un paese di
saltimbanco, di opportunisti, di avventurieri, dei quali la Storia si è dovuta
interessare per le loro poco commendevoli attitudini. La Storia! Che solo a
rileggere alcune pagine di essa viene da arrossire. Decorre in questi giorni il
secolo dallo scoppio della cosiddetta “grande guerra”. Celebrazioni inutili
e parole a fiumi. Nell’indifferenza generale. Nell’occasione è Franco Cordero
che ha scritto una “paginetta” di verità su quell’evento, pubblicata sul
quotidiano la Repubblica dell’11 di luglio col titolo “Il teatro delle illusioni”. Una “paginetta” di verità, che la dice
lunga, che Vi esorto a leggere e meditare. Dunque, ha scritto l’insigne studioso…
Cronache
quotidiane confermano quanto poco muti l’anima italiana. Domenica 9 maggio
1915, Olindo Malagodi, direttore della Tribuna, visita Giolitti, quattro volte
presidente del consiglio, sconvolto dalla notizia che in segreto il governo
macchini l’intervento in guerra; e ascolta i motivi d’un profondo dissenso.
Primo: era giusto stare alla finestra, mancando il casus foederis ; saltando
addosso ai due imperi, alleati da 30 anni, l’Italia, già poco reputata,
perderebbe ogni credito morale, anche presso gl’interessati ad acquisirla,
qualunque cosa dicano. Secondo: così militarmente debole, non è idonea all’impresa;
i generali sono ignoranti e inetti; le famiglie destinavano alla carriera
militare i figli stupidi o turbolenti. Terzo: è povera, oppressa da inauditi
carichi fiscali, nemmeno pensabili altrove; quando tutto vada bene, uscirebbe
miserabile, scontando l’avventura nei vent’anni seguenti. (…). …Giolitti
dispone della Camera, sensibile all’umore elettorale: 300 deputati lasciano un
biglietto in via Cavour 71, dunque rimane padrone del voto e l’indomani spiega
al re cosa rischi il paese. Mercoledì 12 D’Annunzio declama da un balcone
dell’Hotel Regina e Margherita Savoia, vedova d’Umberto, ascolta
religiosamente, fascista ante litteram. Le dimissioni del governo, annunciate
nella notte da venerdì a sabato, inscenano le cosiddette «giornate radiose»,
sobillate dal governo. D’Annunzio lancia accuse d’alto tradimento e nel teatro
Costanzi istiga gli entusiasti al castigo sanguinoso. Lo spaventato
Montecitorio vota le spese belliche (407 contro 76). E così anime fini (…)
esclamano «guerra!», esperienza sublime (in forma sordida la fanno i contadini,
apatico bestiame umano, lasciandovi il grosso dei morti): se la combina con
feroce rigore asinino Luigi Cadorna, (…); imperterrito, svena la fanteria in 11
stupide offensive sull’Isonzo, finché una replica tattica con intervento
tedesco travolge l’insostenibile schieramento italiano: lo stratega chiedeva
misure draconiane all’interno; sorpreso, infama i soldati e consiglia al
governo un’uscita politica ossia l’armistizio. Martedì 13 novembre 1917
Malagodi rivede Giolitti. Aveva ragione ma non rivanga l’argomento. Nota solo
che errore sia avere salvato pro forma Cadorna traslocandolo nel Consiglio
alleato a Versailles: diffamerà l’esercito, posando a eroe tradito; intelletto
«mediocre», ostenta pose da «uomo religioso ». È mancato poco al collasso:
arrivano soccorsi alleati; Grappa e Piave resistono; i tedeschi ritirano le
divisioni impegnate nella controffensiva. Arriva l’America. Affamati dal
blocco, gl’Imperi centrali capitolano. L’Italia esce stravolta, invelenita,
ingovernabile: Le «radiose giornate» preludevano alla «marcia su Roma».
Fallisce il quinto gabinetto Giolitti, le cui arti parlamentari non hanno più
corso. L’ancora giovane direttore dell’Avanti, socialista anarcoide, s’era
scoperta una vocazione da uomo d’ordine: forniva squadre agli agrari contro
leghe, cooperative, case del popolo, liquidando lo sterile biennio rosso (…).
…Benito Mussolini (…) gioca la sua partita e col sostegno dei poteri forti,
dalla Corona alla Chiesa, mette piede al vertice esecutivo, 31 ottobre 1922
restandovi 20 anni, otto mesi, 25 giorni. Quando esce, fermato dai carabinieri
a Villa Savoia, l’Italia è diroccata: le aveva fondato un impero etiopico,
svuotando le casse dello Stato; nel suo disegno era in pectore signora del
Mediterraneo, condomina pleno iure della Germania hitleriana, contro le
corrotte e sfinite democrazie occidentali, sotto condanna biologica. Non gli
veniva in mente che piani simili richiedano materie prime, industria,
tecnologie ossia armi e chi sappia usarle: improvvisava gesti temerari,
roteando gli occhi, come avesse sotto mano un perfetto ordigno bellico; eravamo
una pseudopotenza afflitta da sacche d’analfabetismo e miseria cronica; ma
l’economia arretrata sarebbe rimediabile se la struttura morale non fosse
debole. Fioriscono furberie parassitarie. Adolf Hitler ogni tanto esce in
battute spiritose: nel dicembre 1941 rischiava catastrofi in Russia; sapendo
dell’attacco giapponese a Pearl Harbour, canta vittoria. Ormai è sicura:
«abbiamo due alleati; uno, il Sole Levante, non ha perso una sola battaglia in
duemila anni; l’altro le perde tutte finendo le guerre dalla parte del
vincitore». (…). Ma è mai possibile che la Storia non ci insegni nulla?
Tanto da farci ricadere come imbelli nel sempiterno “teatro delle illusioni”? Ha
scritto ieri Massimo Fini, sempre lui, su “il Fatto Quotidiano” – “L’Europa dovrebbe cacciarci a calci” -:
Non
è l’Italia che deve andarsene dall’Europa, come vorrebbero alcuni partiti, ma
l’Europa che dovrebbe cacciarci a pedate nel sedere. Perché ci mancano gli
standard minimi. Che non sono quelli economici e finanziari, che sono
recuperabili e in parte recuperati, dall’odiatissimo, non a caso, governo
Monti, ma etici, che sono irrimediabili. Non c’è settore della vita pubblica, e
anche privata, che non sia corrotto. Parlamentari, presidenti di Regione,
consiglieri regionali, personale delle abolende Province, sindaci, assessori,
consiglieri comunali, Pubblica amministrazione, Guardia di Finanza, dai più
alti ai più bassi livelli, polizia, vigili urbani. Non c’è luogo in cui la
magistratura vada a ficcare il naso dove non salti fuori il marcio. E non ci
sono distinzioni regionali: il Nord, con la sua ex ‘capitale morale’, Milano,
vale il Centro e il Sud. (…). …non c’è città, cittadino, paese o paesello,
insomma non c’è agglomerato di italiani che sfugga al marciume generale. Il
premier di questo Paese incontra più volte un pregiudicato, in stato formale di
detenzione, e con costui decide leggi fondamentali dello Stato. Una cosa simile
non si era vista mai, nemmeno nel più sgangherato, misero e miserabile Paese
del mondo. (…). Non si può permettere a un delinquente di determinare la
politica di un Paese con la scusa, ridicola, che “ha il consenso”. Il
presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha fatto resistenze inaudite
per cercare di non rendere testimonianza in un processo, mentre la
testimonianza è un dovere civico che riguarda tutti i cittadini (e se cerchi di
sottrarti, i carabinieri, dopo due richiami, ti portano in Tribunale in
manette), che non conosce guarentigie né privilegi di sorta salvo quello, se si
è una carica istituzionale, di ricevere i Pubblici ministeri nel proprio
ufficio e non nella sede del processo. Questi sono gli esempi che ci vengono
‘dall’alto’, a tutti i livelli. (…). Considerazioni scritte tre anni
dopo. È così che il bel paese “cambia verso”? Esclamava quella
grande maschera della triste commedia italiana: “Ma mi faccia il piacere!”.
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