Proviamo a dipanar la matassa. Ché,
per il dizionario Sabatini-Coletti, sta per “avvolgere in gomitolo il filo
dalla matassa”, onde averne un capo che inizio ha, ma anche “risolvere
una questione complicata”. Non è
detto che si riesca. E la “questione complicata” è la politica
del bel paese. Sono passati venti anni dalla infausta “discesa in campo”. Sappiamo
oramai quanto siano costati quei venti anni di politica gridata, di annunci
senza realizzazioni, di insulti a chi esprimesse opinioni diverse, ma bastava
pure, non esprimendo opinioni contrarie, essere individuati come appartenenti
all’altro campo. È pur vero che dalla parte avversa si registravano timide
obiezioni, un sommesso tintinnar di spade di cartone, un rullare di tamburi
muti. A quell’atteggiamento che sembrava rinunciatario allora oggigiorno vien
proprio da attribuire un significato ben diverso. Poiché chi sta ora a condurre
la cosa pubblica riproduce e rivitalizza quegli atteggiamenti fintamente osteggiati.
È qui che dipanar la matassa riesce difficile assai. Poiché nel campo che ha
prima rappresentato la cosiddetta opposizione si mettono oggi in atto gli
stessi strumenti e gli stessi comportamenti che prima, fintamente, si
detestavano. Ha scritto Marco Travaglio – “Il
guappo di cartone” – su “il Fatto quotidiano” di ieri 27 di luglio,
ricordando amorevolmente il Suo indimenticato maestro Indro Monanelli a tredici
anni dalla scomparsa: Berlusconi gli stava simpatico. Ma ciò che
subito lo allarmò, non appena nell’estate ‘93 quello gli preannunciò la sua
“discesa in campo”, fu la miscela esplosiva che sarebbe nata fra i tratti
caratteriali del suo ex editore e la voglia di padrone che alberga nella pancia
di una certa Italia. Quella che aveva fatto dire a un altro rabdomante,
Mussolini: “Come si fa a non diventare padroni in un paese di servi?”. Fra il
Duce e il Cavaliere ci fu un altro politico italiano che provò a diventare
padrone, e per un po’ ci riuscì: Craxi. Nel 1983, quando andò al governo,
Montanelli sul Giornale lo salutò così: “Come uomo di partito, Craxi ha
certamente grossi numeri. Come uomo di Stato, è tutto da scoprire… È arrogante,
un po’ guappesco e sembra avere del potere un concetto alquanto padronale…
Craxi ha una spiccata – e funesta – propensione a considerare nemici tutti
coloro che non si rassegnano a fargli da servitori. Sono pochi, intendiamoci, i
politici immuni da questo vizio. Ma alcuni sanno almeno mascherarlo. Craxi è di
quelli che l’ostentano sino a esporsi all’accusa di ‘culto della personalità’…
che potrebbe procurargli guai seri. Non perché a noi italiani certi
atteggiamenti dispiacciano, anzi. Ma perché in fatto di guappi siamo diventati,
dopo Mussolini, molto più esigenti: quelli di cartone li annusiamo subito”. E
così fu: alla protervia di Craxi, che eccitava gl’intellettuali, gli italiani
preferivano il grigio e molliccio understatement dei democristiani, che
sapevano gestire il potere senza quasi farsene accorgere. Soltanto B., grazie
al fascino del denaro, del successo e delle tv, riuscì a far digerire per
vent’anni il suo guappismo molesto. Chissà cosa direbbe Montanelli oggi del suo
quasi concittadino Renzi, rara avis di democristiano che posa un po’ da Craxi e
un po’ da B. Certo, il ritratto di Bettino gli calza a pennello. Tranne forse
la profezia finale: a giudicare dalle Europee, si direbbe che ne vogliamo un
altro, di guappo di cartone. Renzi ne è convinto e ci marcia. Ma esagera.
È
che, quando quelli oggigiorno al governo stavano a fare la finta opposizione lanciando
forti lai (quasi sempre senza suono alcuno) alle intemerate di quell’altro, ai
tentativi di quello di stravolgere gli assetti istituzionali, le regole e quant’altro
afferisce alla vita associata di un paese dell’Occidente, oggigiorno sfoderano quanto
appreso a menadito facendo quella che può a buona ragione essere definita una
finta opposizione. Non si sono spenti ancora l’eco lontana del loro inveire ed
il loro chiamar alla difesa della Costituzione - che è la più bella del mondo
-, quel loro inutile blaterare al pericolo del “populismo demagogico”
dell’altro, pur avendo nelle loro file fior di pensatori che avrebbero dovuto
irrobustire le loro incerte coscienze. Poiché è avvenuto che il 10 di settembre
dell’anno 2012 un tale, Michele Ciliberto, grande pensatore, pubblicava sul
quotidiano l’Unità un “pezzo” storico che ha per titolo “Lo spettro della «democrazia dispotica» tra di noi”. Sarà di certo
sfuggito, il “pezzo” intendo dire, alla “nouvelle vague” oggi al potere. È che
Michele Ciliberto oggi sarebbe indicato come un “professorone”. O un “rosicone”.
O un “gufo”.
Termini che non hanno ancora raggiunto la trivialità che ha dominato il
ventennio precedente. Scriveva Michele Ciliberto che… È sbagliato (…) pensare che il
populismo riguardi solo il nostro Paese, così come è stato un errore ritenere
che il berlusconismo fosse un fatto solo italiano. Quella che è stata definita
«democrazia dispotica» è infatti qualcosa che riguarda molti Paesi europei e
una generale patologia della democrazia; non è, come qualcuno ha detto, la pura
e semplice «autobiografia» della nazione italiana. (…). Le parole, (…), quando
vengono usate in modo generico e approssimativo perdono forza analitica, anzi
servono a confondere le acque invece di chiarirle. Da questo punto di vista ci
sono alcuni elementi preliminari. Anzitutto è da tener presente che i blocchi
sociali e politici che hanno caratterizzato ampia parte della storia del
Novecento, compresa quella della cosiddetta prima Repubblica, sono venuti meno.
Nel definire queste trasformazioni si sono impegnati sociologi (la società
liquida) ma anche psicologi (la crisi della figura del padre, la caduta del
principio di autorità), ma il «fatto» nella sua durezza è sotto gli occhi di
tutti. Non esistono più blocchi sociali compatti che si esprimono,
organicamente e in modo diretto, in partiti e in scelte politiche. Tanto meno
vi sono organizzazioni politiche che siano nomenclature delle classi. Il che
non significa che non esistano più classi o che non ci sia più lotta di classe.
Ma come è cambiata la configurazione delle classi, così è mutato il rapporto
tra economia e politica, e soprattutto è mutata la relazione tra dinamiche
economico-sociali e rappresentanza politica. Questo credo sia il problema di
fondo su cui occorre riflettere. Questi processi in Italia sono stati
ampiamente rappresentati, e potenziati, dal berlusconismo, il quale è al tempo
stesso un effetto e una concausa di questa situazione. (…). In Italia questi
processi si sono accompagnati alla fine della politica di massa, delle culture
politiche dell’antifascismo, e all’imporsi sia di nuove modalità della lotta
politica (il leaderismo) sia di nuovi e inediti modelli di relazioni con le
parti sociali. Ciò ha comportato anche il consumarsi, nelle vecchie forme, del
concetto di destra e di sinistra. È un fenomeno di vasta portata, anche sul
piano strettamente ideologico e culturale. (…). …questo cambiamento è stato
possibile dal venire meno, e poi dal dissolversi anche a sinistra, dei criteri
di un’analisi materiale della situazione e dei rapporti sociali e politici e
dall’imporsi di un sistematico rovesciamento del rapporto tra apparenza e
realtà. Si è persa la capacità di distinguere, cioè di capire. Sta qui una
delle radici essenziali del populismo sul piano ideologico. Ne è conseguito un
offuscamento nella capacità di comprendere, afferrare e contrastare la sostanza
dei processi storici sia in Italia che a livello mondiale, con il diffondersi
di un forte provincialismo sul piano politico e culturale. Soprattutto ne è
conseguito, specie a sinistra, un progressivo ritirarsi verso impostazioni e
prospettive di tipo moralistico, che, se da un lato possono garantire consenso,
dall’altro sono del tutto impotenti come «strumenti» di trasformazione della
realtà: si finisce, infatti, con il guardare alla realtà dal «buco della
serratura». Esistono molte forme di populismo, ma esse hanno tutte alcuni
elementi in comune: la critica, anzi il disprezzo, verso la democrazia
rappresentativa e i suoi strumenti; il rigetto della mediazione e quindi della
politica; l’identificazione dell’avversario con il nemico; la riduzione del
lessico a puri insulti, (…). Per questo parlare del populismo significa
affrontare il problema della democrazia e del suo destino; (…). Se si vuole
prospettare il futuro occorre sollevare lo sguardo ai grandi problemi e
ricordarsi, ogni tanto, che c’è anche quella che si chiama «alta politica».
Così scriveva Michele Ciliberto. Ma che senso ha per la “nouvelle vague” al
potere andare a leggere Michele Ciliberto? Ma il pericolo della «democrazia
dispotica» è reale. Ha scritto Antonio Padellaro su “il Fatto
Quotidiano” di ieri 27 di luglio – “Il
senso di Renzi per lo scazzo” -: Più che le riforme Renzi sembra agognare lo
scontro, il casino, l’immagine del cantiere bloccato dai nemici del nuovo
mentre gufi e sciacalli complottano a difesa della conservazione dei loro laidi
interessi personali. Poi, al momento giusto si rivolgerà agli italiani che già
ne hanno le scatole piene delle lungaggini della politica e dei politici
formato casta e sarà un plebiscito. In un certo senso, gli oppositori stanno
lavorando per lui. Ma è così chiaro. Ma la mia parte politica – che sarebbe
poi quella del Renzi - ha pensato bene a sostenerlo “purché si vinca”. Costi quel
che costi.
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